Giir di Mont… letteralmente/9: alle pendici del Pizzo Alto, eccoci a Premaniga, vasto alpeggio popolato dai “santuari”

Siamo circa a metà dell’ultima salita del nostro “Giir di Mont… letteralmente” e stiamo percorrendo la quarta e ultima vallata del percorso: dopo la Val Marcia (alpe Chiarino), la Valle dei Forni (Barconcelli - situato in realtà nell’omonima valle laterale - Casarsa, Forni e Vegessa) e la Val Fraina (Fraina, Caprecolo e Rasga), ci apprestiamo ad esplorare quello che in realtà è più un versante della montagna (che non una valle), quello posto sopra l’abitato di Premana.
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Il primo alpeggio che incontriamo è il secondo in ordine di grandezza – dopo l’alpe Barconcelli – e sorge ai piedi del Pizzo Alto (la vetta più alta sul territorio premanese), a quota 1400 metri: parliamo dell’alpe Premaniga. 
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Molto frequentato anche nelle stagioni primaverile, autunnale e - in parte – invernale, l’alpeggio e l’intero versante della montagna godono infatti di un’esposizione particolarmente favorevole. Le strofe della canzone del Grest del 1982 ripetono: “[…] E il sole che risplende tutto il giorno su di noi, che ci abbronza da sembrare d’esser stati tutti al mare.” Grazie anche alla presenza della VASP - la prima realizzata sul territorio al di là delle strade militari già presenti - e alla sostanziale vicinanza a Premana (meno di un’ora di cammino), Premaniga risulta probabilmente l’alpeggio più “battuto” da alpigiani ed escursionisti nel corso dei trentecentosessantacinque giorni dell’anno.
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Per conoscere il nono mont del nostro viaggio, iniziamo rivolgendo lo sguardo all’insù, verso i 2510 metri del Pizzo Alto, sulla cui cima – guarda che novità – risplende una bella croce in ferro. Questo (ennesimo) simbolo di cristianità incontrato nel nostro percorso ha un significato particolare per gli alpigiani di Premaniga, che ogni 5 agosto festeggiano l’anniversario della sua posa: la festa inizia con la fógarâte della sera precedente, la mattina si sale in vetta per celebrare la santa messa, mentre in serata in alpeggio si gusta il tradizionale risòtt in t ól lacc (risotto cotto nel latte) e la festa prosegue sino a tarda notte.
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Nonostante su questo mont si tenga anche il tradizionale past (il 24 di agosto), è in realtà il “risotto di Premaniga” (come spesso viene definito) la principale occasione di festa per gli alpigiani, una ricorrenza che dunque in un certo senso distingue l’alpeggio da tutti gli altri. Poi… sulla bontà di questo risotto lasciamo la parola alle – sempre goliardiche, ribadiamo – strofe di “Ól Giir di mónt”, che ci spiegano senza mezzi termini che “[…] ól risòt àglie fa cöös da mat, stèe püür següür ch’al sà da gat.” (“Il risotto lo fanno cuocere moltissimo, state pure sicuri che sa di bruciato”). 
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Tornando per un momento alla “cròs de pizz òlt” (croce di Pizzo Alto), riportiamo brevemente la sua storia. Eretta dagli alpigiani nel 1901 – dopo che l’anno precedente il pontefice Leone XII aveva espresso il desiderio di fregiare del simbolo cristiano le più alte vette dei monti – fu trasportata in vetta, pezzo per pezzo, partendo dal paese, grazie al contributo di tutti i premanesi. La sua costruzione fu un’impresa epica: il ferro fu portato a Premana dal “pont dol Ciudrin” - un ponte sul Varrone (la carrozzabile si interrompeva lì a quei tempi) - e lavorato in una minuscola bottega (il “boteghiin di Pètèch”); la croce fu composta nella piazzetta antistante l’allora chiesa di San Rocco e poi smontata, per poterla trasportare sulla cima.
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L’importante simbolo – alto cinque metri e mezzo, dal peso di circa dodici quintali e ancorato al terreno con sette tiranti – fu inaugurato il 5 agosto del 1901 (la posa fu ritardata di un anno a causa del tempo inclemente, ma gli anniversari si ricordano basandosi sull’anno 1900, anno in cui nacque l’idea e nel quale fu costruita la croce), con un discorso celebrativo a precedere la recita del Santo Rosario e la benedizione della croce: tutto in vetta al Pizzo Alto.
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Tornando invece in alpeggio, andiamo a conoscere qualche curiosità di Premaniga. Fino a qualche decennio fa, una delle peculiarità di questo mont era la scarsità di legname: l’intero pascolo circostante era infatti “frequentato” da capre e pecore e gli allevatori contribuivano a tenere pulito il territorio. Non a caso, le solite strofe di “Ól Giir di mónt” ci spiegano che “Quìj che carghe a Promanìghe ai cöös ól lac có’ ‘ne branche de vvrìghe” (“Quelli che salgono a Premaniga [in estate a monticare il bestiame] cuociono il latte con un mazzo di erica”), proprio perché di erba – a differenza della legna – ce n’era moltissima. Le donne dell’alpeggio passavano le giornate nell’impervia zona di Lavagnóon – di fronte alle baite – a raccogliere il fieno selvatico, indispensabile per sfamare le bestie nel periodo invernale.
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Restando in questo ambito, una menzione d’obbligo va al pastore Ciòche – al secolo Antonio Gianola, classe 1901 – figura storica di Premaniga e in generale di Premana. Gli animali gli venivano affidati “ént in dél Piàz” verso fine maggio ed il giro che faceva con il suo gregge e alcuni giovani aiutanti toccava “Lavagnóon”, “Salavàar”, “Piancaüde”: poi ritornava in “Lavagnóon” e riconsegnava le pecore a fine estate al “Barch”. Tutti i toponomi appena riportati indicano una serie di luoghi circostanti il territorio di Premaniga: ogni balza sotto il Pizzo Alto, ogni spiazzo, ogni piccola dorsale aveva infatti un appellativo. Questa apparente “mania” di dare un nome letteralmente a tutto era dettata dalla necessità di orientarsi e di avere un patrimonio di conoscenza in comune con gli altri alpigiani, perché si parlava di zone che erano allo stesso tempo molto frequentate dai pastori, ma anche impervie e difficili da memorizzare.
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Per evitare di perdere quello che è anche un patrimonio culturale preziosissimo, negli anni Novanta ól Giovàn sólte – Giovanni Calcagni, classe 1932 – ha iniziato a produrre una cartina dettagliata di tutto il territorio circostante Premaniga. Il progetto è stato ultimato qualche anno fa da Antonio Bertoldini.
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Tornando per un momento al Ciòche, di lui si racconta che, essendo in grado di contare solo fino a cento, andava orgoglioso di curare “tredici cento pecore” ovvero milletrecento capi: questo era il suo gregge. E le riconosceva tutte, e soprattutto sapeva chi era il proprietario di ognuna perché diceva: “le pecore assomigliano al padrone”. Da qualche decennio, invece, a Premaniga di allevatori ce ne sono pochi (e così, come detto, il bosco ha preso piede): dopo un periodo in cui venivano monticate mucche e asini, attualmente è Valerio Calcagni l’unico a portare gli animali in alpeggio. Così, grazie alla presenza dei vitelli e al suo prezioso lavoro, si riesce ad impedire che il bosco guadagni ulteriore terreno.
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Un’ultima nota sull’alpe Premaniga ci ricorda che i suoi alpigiani vengono definiti “santüàri”, per via delle numerose vocazioni – preti e suore – registrate nel secolo scorso tra i premanesi appartenenti per nascita all’alpeggio. Non a caso, oltre alla croce sul Pizzo Alto, un altro dei simboli di Premaniga è la bella (e grande) chiesetta che anticipa l’ingresso in alpeggio.
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La cappella – presente almeno dal 1840 e ricostruita nel 1948 dagli alpigiani reduci dalla Seconda Guerra Mondiale, che donarono la statua della Vergine presente al suo interno - si trova in una posizione particolarmente strategica, dalla quale si scorgono tutte le cime premanesi con le loro croci.
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Prima di muoverci verso gli ultimi tre alpeggi del nostro “Giir di Mont… letteralmente”, facciamo una breve sosta presso il Ristoro Alpe Premaniga, che ha recentemente riaperto i battenti grazie all’intraprendenza di Armida Pomoni e Dionigi Gianola. Riprendiamo poi il cammino percorrendo il ripido prato sopra le baite di Premaniga, che da qualche edizione del Giir di Mont è diventato uno dei punti più frequentati dai tifosi, con due ali di folla che accompagnano calorosamente il passaggio degli atleti. Rotta per Solino!

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Continua/10
Rubrica a cura di Alessandro Tenderini
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