Giir di mont… letteralmente/4: Forni, un alpeggio “due in uno”, diviso fisicamente e non solo…
Lasciata Casarsa e attraversato il torrente Varrone – passando sul ponticello che si trova a pochi passi dal gua da bagn – giungiamo all’alpe Forni, quarto alpeggio del nostro Giir di mont… letteralmente.
Tra i più facilmente accessibili, conosciuti e frequentati, questo alpeggio deve il suo nome al grande forno ivi costruito durante il Medioevo per la fusione del ferro. Il minerale estratto nelle miniere di Varrone infatti, dopo aver subito una prima fusione in loco (operazione detta arrostimento), confluiva al Forno per essere fuso ancora diverse volte al fine di ottenere un ferro il più puro possibile. Appartenuto negli anni a diverse famiglie lombarde e importantissimo nella storia della lavorazione del ferro della regione, oggi purtroppo non rimane alcuna traccia dello storico forno.
Si racconta che la sua attività cessò nel momento in cui era stato consumato tutto il legname presente nell’area adiacente; a quel punto il nucleo si sviluppò come un alpeggio o, meglio, come due alpeggi distinti (anche se sono molto vicini e vengono spesso presi in considerazione insieme). Sui prati appena a monte della strada Maria Teresa (dal nome dell’Imperatrice austriaca che ne volle la completa ricostruzione nel Settecento) si ergono le baite del Forno Sotto (detto anche Alpe Soglia), in premanese Fórno Zzót; mentre qualche decina di metri più in alto troviamo il gruppo di abitazioni che costituisce il nucleo del Forno Sopra (Fórno Zzóre). Tra quelli che, sulla carta, sono effettivamente due alpeggi diversi esisteva fino a qualche decina di anni fa (ma permane ancora oggi in parte) una sorta di rivalità, nata come scontro per l’accesso ai pascoli e rimasta viva come “antagonismo campanilistico” (che significa, ad esempio, farsi degli scherzi o qualche dispetto).
Per conoscere qualche peculiarità dei due Forni ci vengono nuovamente in soccorso le strofe de “Ól Giir di mont”, che recitano: “Quìj dal Fórno de bòte ai sén dà perché ai gh’à còos che i òltri nói gh’à; quìj de sót ai gh’à ól viin bóon, quìj de sóre ai gh’à ól bèch dól Macaróon” (“Quelli del Forno si vantano perché hanno cose che gli altri non hanno; quelli sotto hanno il vino buono, quelli sopra hanno il becco del Macaróon”).
Ma perché “quelli sotto” hanno il vino buono? Beh, perché fino a qualche decina di anni fa lì funzionava il Rifugio Luigia, conosciuto in gergo come “Rifugio dól Vitoriel”, dal soprannome del proprietario, tale Battista Griggi (classe 1902, di professione guardiacaccia), che insieme alla moglie Martina (di quattro anni più giovane) aveva costruito il rifugio negli anni tra le due guerre mondiali. La struttura venne completamente bruciata dai nazifascisti negli anni della Resistenza (quando anche gli alpeggi vicini furono vittime di incendi e saccheggi), ma i proprietari iniziarono a ricostruirla subito dopo e pietra dopo pietra il Rifugio dól Vitoriel – che nel frattempo aveva cambiato il suo nome ufficiale in “Rifugio Cai Forni di Trona”, in quanto struttura iscritta al Club Alpino Italiano di Premana (che a quei tempi era sottosezione del gruppo di Dervio) – tornò a funzionare a pieno regime. Già negli anni Cinquanta, la struttura – forte di un grande camerone con numerosi posti letto - ospitò diverse colonie estive che salivano in valle per qualche giorno, mentre erano tanti anche i premanesi che passavano per bere un bicchiere di vino o per uno spuntino. Il rifugio era dotato anche di un bocciodromo (“spasècc” in dialetto premanese), ancora oggi visibile. La famiglia Griggi mantenne la gestione fino al 1977, per poi passarla a Aldo Lizzoli, che prese in consegna il rifugio per il biennio successivo. Il 1° giugno 1979 subentrò invece Alessandro Spazzadeschi “Peter”, personaggio storico dell’alpe Forni e ancor di più dell’alpe Vegessa: lo conosceremo meglio nella prossima uscita…
Tornando alle strofe de “Ól Giir di mont”, il Forno Sopra annoverava invece tra le sue fila uno dei personaggi storici più noti di Premana, il pastore Macaróon, che lì pascolava le sue capre e il suo celeberrimo becco (il maschio della capra).
Per conoscere meglio questo quarto mont, anche le canzoni del Grest ci offrono qualche prezioso spunto: “Noi siamo i ragazzini siam quei dal Forno giochiamo tutto il giorno, … di qua e di là. Andiamo su al “Zucco” e su al “Sasso” facciamo un gran fracasso, … e ci divertiam.”, recitano così le strofe della versione 1983.
Lo Zucco è un poggio posto poco sopra le case, dove gli alpigiani del Forno Sopra vanno a cantare i tìir, per farsi sentire in tutta la valle. A proposito, di loro si dice che siano dei grandi cantanti e che… lo vogliano far sapere a tutti! Non a caso, i “rivali” del Forno Sotto li definiscono spesso “i bocalün dal Fórno Zzóre” (difficile proporre una traduzione, perché la parola racchiude diversi significati: possiamo sintetizzare in “le grandi bocche” che cantano ad alta voce e sono un po’ esibizionisti), mentre la canzone del Grest del 1985 ripete nel ritornello: “… la sera alla casìna ci ritroviamo a cantar. Canta canta canta canta, canta canta notte e giorno, noi siamo quelli del Forno.”
Restando nella “frazione” alta dell’alpeggio, troveremo anche il “Sasso”, la zona nella quale era installata la teleferica che portava in alpeggio il fieno selvatico raccolto tra le rocce del Pizzo Cavallo.
Quest’ultimo è la cima che divide la Val Fraina (che scopriremo nelle prossime uscite) dalla Valvarrone e su di essa risplende una grande croce in ferro, costruita insieme dagli alpigiani delle due vallate e posata il 12 agosto del 1901. “Lo zaino sulle spalle saliam la valle sul pizzo Cavallo, … andiam tutti insiem” recita ancora la canzone del Grest dell’83.
Tornando invece al Forno Sotto, è tempo di un po’ di storia. Nell’agosto del 1911 una grande esondazione del fiume Varrone trascinò con sé tutte le case situate a valle della strada Maria Teresa. Si narra addirittura che alcuni maiali travolti dalla forza dell’acqua vennero rinvenuti a Dervio, dove il torrente si immette nel Lario. Riguardo a questo episodio, si tramanda inoltre che Oreste Nevicato, presente la notte del fatto, perse completamente i capelli per la paura. Miracolosamente, tuttavia, non vi furono vittime.
Così, gli alpigiani – oltre a ricostruire le case, questa volta a monte della via militare – nel 1936 edificarono una bella cappelletta con una statua della Vergine, poggiata su un grosso masso che fiancheggiava a valle la Maria Teresa. Fin da subito alcuni mossero dei dubbi sulla stabilità della base d’appoggio… nel novembre 1959, la cappelletta cadde nel Varrone insieme al grande masso sul quale era posta.
Si riuscì a recuperare e a ripristinare solamente l’inferriata, che venne riadattata sul vecchio giargiööl già esistente. Qualche tempo dopo, Oreste Todeschini rinvenne la testa della Madonna mentre stava pescando: questo reperto è ora sistemato in una piccola nicchia situata sopra la porta della cascina del Forno Sopra.
Dopo aver esplorato questo bell’alpeggio “due in uno”, è tempo di rimettersi in viaggio, questa volta in salita. Niente paura, però: in pochi minuti saremo già al prossimo mont, il quinto (di già!). Ecco che si intravedono le baite dell’alpe Vegessa…