SCAFFALE LECCHESE/191: attendendo quello per il 150°, gli altri libri dedicati al CAI
La sezione lecchese del Cai, il Club Alpino Italiano, festeggia i 150 anni. Per la ricorrenza, è stato già annunciato un libro dedicato ai primi cinquant’anni dell’associazione, gli anni ormai appartenenti alla mitologia, anche se non proprio coincidenti con il periodo “glorioso” dell’alpinismo lecchese, quello dell’ascesa dei nostri arrampicatori ai vertici mondiali.
Va detto che i primi passi del Cai lecchesi sono un po’ “confusi”. Già nel 1875, «scivola ad integrarsi nella Società ginnastica degli alpinisti tiratori. Si sottolineano i “moltissimi vantaggi derivanti da questa innovazione, giacché con le ventiquattro lire annue, [il socio] ha diritto ai Bollettini che si pubblicano dalla sede centrale di Torino, i quali sono corredati da panorami, carte topografiche, ipsometriche. (…) Ogni socio, ancora, può andare nella sala di ginnastica, per esercitarsi come gli aggrada, può usufruire delle lezioni di scherma. (…) Arrogi ancora che almeno due volte al mese si aprirà il bersaglio in compagnia”. (…) Non tutti dovevano però essere convinti, o quanto meno entusiasti, dell’avvenuta fusione. (…) Il matrimonio fra appassionati di tiro a segno, ginnastica e scherma con gli alpinisti entra in profonda crisi che si rende particolarmente grave dal 1878 al 1882. Sarà nel febbraio 1883 che, per iniziativa di “un gruppo di intraprendenti giovanotti” si rinnoverà la sezione del Club Alpino Italiano. Una riunione venne convocata presso il ridotto del Teatro della Società: si approvò lo statuto, si nominarono i nuovi dirigenti, si deliberò una quota sociale annua di ventiquattro lire».
Le cronache sezionali registrano uscite sempre più ardite. Perlopiù escursioni, certo, che oggi sono alla portata di molti, ma allora collegamenti e sentieri non erano quelli di oggi, segnaletica e punti di appoggio inesistenti, occorreva affidarsi a guide. Si trattava dunque di vere e proprie avventure. Per esempio, nella data dell’8 aprile 1876 viene registrata la prima escursione invernale sul Moncodeno e cioè il Grignone da parte si alpinisti lecchesi affiancati da tre guide locali: «Si trovarono di fronte a difficoltà non indifferenti essendo rimasti “nella neve per sette ore, la quale toccava sempre i nostri lombi e tal fiata le spalle”. La cronaca dell’escursione si conclude comunque sottolineando che “anche in aprile, anche in inverno non è impossibile guadagnare il pizzo di Montecodeno ma che però è uopo pernottare alle baite per essere lesti al mattino a compiere l’altro tratto di strada”». Del resto, servivano un paio di giorni per andare da Ballabio alla vetta del Resegone. Con partenza al pomeriggio da Ballabio, sosta a Morterone per rifocillarsi e partenza alle due di notte verso la cima».
E comunque – annota Bonfanti - «dal 1863 al 1880 l’alpinismo compie passi notevolissimi. L’uomo si abitua alle difficoltà, ai pericoli dell’altra montagna. Si diffonde l’uso della corda, affiorano le prime rudimentali tecniche di assicurazione e discesa, fanno la loro apparizione le picozze», Inoltre «La realizzazione delle linee ferroviarie avvicinava le montagne agli uomini della pianura. (…) Il clima doveva essere di grande entusiasmo se l’inquieto Antonio Ghislanzoni scriveva l’inno popolare degli alpinisti lecchesi ed il maestro Gomes s’impegnava a musicarlo. “In alto! In alto! L’Alpe ci grida; scabro è il sentiero, la roccia crepita di eterno gel; ma là, dai vertici, l’uman pensiero i mondi domina, spazia nel ciel”».
E si arriva all’assemblea del 5 gennaio 1890 quando alla presidenza viene eletto il non ancora ventiduenne Mario Cermenati, il quale «imprime subito alla sezione una svolta decisiva di vigore, di operosità, di partecipazione. Già nell’ottobre stesso del ’90 il numero dei soci registra un notevole aumento: da trentatré ad ottanta». Le gite sociali sono da Ballabio a Mandello attraverso i Roccoli Resinelli, poi al Magnodeno, ai Corni di Canzo e al Montealbano.
E anche sui monti lecchesi arrivano i primi rifugi. Dopo i milanesi, si mobilitano anche i lecchesi. Racconta Bonfanti: «La sezione lecchese del Cai, sin dai giorni della fondazione, aveva agitato il proposito di una capanna, di un ritrovo sul Resegone ma difficoltà finanziarie, organizzative, burocratiche, avevano sempre frenato la realizzazione del progetto. Nel 1883 si era presentata una favorevole occasione quando la sezione del Cai di Milano aveva atto costruire una capanna da collocare in Val Zebrù. Sopra Bormio. La costruzione era pronta ma sopraggiunte difficoltà consigliarono i dirigenti milanesi a sospendere l’iniziativa. Si trattava di una capanna scomponibile e ricomponibile con viti in poche ore. (…) Il presidente della sezione milanese, ing. Pippo Vigani, offrì la capanna agli amici lecchesi, richiedendo una cifra di tutto vantaggio. L’assemblea del 27 settembre 1883 fu di parere contrario all’acquisto: prevalse l’opinione che la sezione era già impegnata finanziariamente nella sistemazione della nuova sede sociale» .
Cermenati resterà alla guida del Cai lecchese fino alla morte avvenuta nel 1924, superando anche la prima guerra mondiale: complessivamente trentaquattro anni, nove mesi, tre giorni, altro che record. E’ lecito chiedersi – si interroga il libro dei “120 anni” – se Mario Cermenati sia stato un buon presidente con tutti quegli interessi e quegli impegni, gli incarichi e altre presidenze, che lo tenevano lontano da Lecco. La risposta che ci viene data: «Premesso che “questa sua città, più che amarla, l’adorava, e con le opere e l’ingegno la esaltò e la illustrò” come scrisse l’avv. Ruggiero che fu suo segretario, si deve ritenere la risposta decisamente affermativa. Egli non fu un presidente onorario ma volle essere un presidente effettivo anche se, indubbiamente, ebbe la collaborazione di uomini assai validi».
Dopo la seconda guerra mondiale e la lotta di Resistenza, da quella scuola lecchese nasce il gruppo dei “Ragni”, protagonista di un’epopea che Alberto Benini e Serafino Ripamonti hanno raccontato in altri libri.
Ed è proprio nel secondo dopoguerra che si allargano gli orizzonti e arrivano le prime spedizioni internazionali: si comincia nel 1958 con il Gasherbrum IV nell’Himalya per arrivare al 1974 con il Cerro Torre passando per il McKinley in Alaska del 1961, se ci fermiamo al libro del centenario; per arrivare invece al 1994 con lo Shisha Pangma e la Patagonia di Casimiro Ferrari se consultiamo anche il libro dei 120 anni che elenca e ricostruisce dettagliatamente le spedizioni extraeuropee. E tutte quelle seguenti al 1994, quelle del nuovo millennio con un alpinismo ormai radicalmente trasformato rispetto non solo alle origini “ruspanti” ma anche alle grandi svolte del Novecento, imprese quest’ultime il cui racconto è disseminato in altre pubblicazioni sparse e che un giorno dovranno pur essere riordinate.
Il libro di Bonfanti è un lungo racconto che ci accompagna lungo i cento anni del Cai che vanno dal 1874 al 1974, il libro dei “120 anni” invece è una sorta di grande memoria: il racconto storico è limitato a poche pagine (proprio perché «il primo secolo è stato ampiamente descritto» da Bonfanti) per mettere in risalto alcuni aspetti «per far tesoro della storia, anche solo con dei semplici richiami, per cercare di capire chi ci ha preceduto». E allora le figure più significative del Cai lecchese: Antonio Stoppani e Mario Cermenati naturalmente, ma poi Riccardo Cassin, Carlo Mauri e Casimiro Ferrari; l’elenco delle imprese nel mondo e le prime ascensioni europee, i sottogruppi del Cai e i “Ragni”, le attività didattiche e quelle sociali.
Già c’è qualche titolo dedicato al Cai lecchese. Il primo secolo di vita per esempio, ci è raccontato da Aloisio Bonfanti con un libro promosso dallo stesso club in occasione del centenario: “Un secolo di storia 1874-1974”, uscito nel 1975 e quindi portando il racconto fino alla mitica spedizione dei “Ragni” al Cerro Torre, organizzata proprio per celebrare il traguardo dei cent’anni. Curiosamente, anche vent’anni dopo – nel 1995 – sarebbe uscita un’altra pubblicazione celebrativa (“Cai Lecco.120 anni. 1874-1994”, con la redazione di Annibale Rota, Ambrogio Bonfanti, Vasco Cocchi e Renato Frigerio).
«Nel 1874 – scrive Bonfanti – la città aveva come sindaco il dottor Giuseppe Resinelli. (…) Tre anni prima, nel 1871, il censimento generale aveva indicato nella cifra di 7.040 la popolazione del territorio, tenendo presente che i confini comunali di quel tempo erano racchiusi dal rione di Pescarenico alla sperduta zona di S. Stefano e che, oltre la stazione ferroviaria era già zona di Castello, (…) L’Amministrazione comunale era tutta impegnata nel progetto di sistemazione del lungolago. (…) Così, per le stranezze della vita, mentre i lecchesi parlavano della nuova zona di approdo delle barche, della nuova sistemazione del porto per i traffici dei giorni di mercato, spuntò la sezione del Club Alpino Italiano. (…)La costituzione ufficiale della sezione avvenne il 22 maggio 1874 e fu eletto presidente è l’abate Antonio Stoppani, vicepresidente Giovanni Pozzi, noto medico ed appassionato alpinista. Antonio Stoppani, già presidente della sezione milanese del Cai, declinò l’incarico e il dottor Giovanni Pozzi divenne il responsabile del nuovo gruppo, promosso da quindici persone. La Direzione centrale di Torino del Club Alpino riconobbe ufficialmente la sezione il 30 giugno 1874. Nel frattempo, i neoalpinisti non erano stati oziosamente in attesa del superiore provvedimento di riconoscimento, ma si erano già gettati in campo organizzativo allestendo, a tempo di primato, un incontro con gli amici della montagna di Bergamo e Milano, sulla vetta del Resegone, nella giornata del 25 maggio. (…) Lunedì 8 giugno il Club Alpino di Lecco riuniva i soci, nella sede della Società di Mutuo Soccorso, per approvare una quota annua di venti lire».Sono questi i primi passi di un’associazione non proprio aperta a tutti: venti lire non erano certo una quota popolare. E in effetti nei decenni seguenti, saranno altre le associazioni che raccoglieranno gli “alpinisti” meno abbienti. Le cose cambieranno solo con il Fascismo.
Va detto che i primi passi del Cai lecchesi sono un po’ “confusi”. Già nel 1875, «scivola ad integrarsi nella Società ginnastica degli alpinisti tiratori. Si sottolineano i “moltissimi vantaggi derivanti da questa innovazione, giacché con le ventiquattro lire annue, [il socio] ha diritto ai Bollettini che si pubblicano dalla sede centrale di Torino, i quali sono corredati da panorami, carte topografiche, ipsometriche. (…) Ogni socio, ancora, può andare nella sala di ginnastica, per esercitarsi come gli aggrada, può usufruire delle lezioni di scherma. (…) Arrogi ancora che almeno due volte al mese si aprirà il bersaglio in compagnia”. (…) Non tutti dovevano però essere convinti, o quanto meno entusiasti, dell’avvenuta fusione. (…) Il matrimonio fra appassionati di tiro a segno, ginnastica e scherma con gli alpinisti entra in profonda crisi che si rende particolarmente grave dal 1878 al 1882. Sarà nel febbraio 1883 che, per iniziativa di “un gruppo di intraprendenti giovanotti” si rinnoverà la sezione del Club Alpino Italiano. Una riunione venne convocata presso il ridotto del Teatro della Società: si approvò lo statuto, si nominarono i nuovi dirigenti, si deliberò una quota sociale annua di ventiquattro lire».
Le cronache sezionali registrano uscite sempre più ardite. Perlopiù escursioni, certo, che oggi sono alla portata di molti, ma allora collegamenti e sentieri non erano quelli di oggi, segnaletica e punti di appoggio inesistenti, occorreva affidarsi a guide. Si trattava dunque di vere e proprie avventure. Per esempio, nella data dell’8 aprile 1876 viene registrata la prima escursione invernale sul Moncodeno e cioè il Grignone da parte si alpinisti lecchesi affiancati da tre guide locali: «Si trovarono di fronte a difficoltà non indifferenti essendo rimasti “nella neve per sette ore, la quale toccava sempre i nostri lombi e tal fiata le spalle”. La cronaca dell’escursione si conclude comunque sottolineando che “anche in aprile, anche in inverno non è impossibile guadagnare il pizzo di Montecodeno ma che però è uopo pernottare alle baite per essere lesti al mattino a compiere l’altro tratto di strada”». Del resto, servivano un paio di giorni per andare da Ballabio alla vetta del Resegone. Con partenza al pomeriggio da Ballabio, sosta a Morterone per rifocillarsi e partenza alle due di notte verso la cima».
E comunque – annota Bonfanti - «dal 1863 al 1880 l’alpinismo compie passi notevolissimi. L’uomo si abitua alle difficoltà, ai pericoli dell’altra montagna. Si diffonde l’uso della corda, affiorano le prime rudimentali tecniche di assicurazione e discesa, fanno la loro apparizione le picozze», Inoltre «La realizzazione delle linee ferroviarie avvicinava le montagne agli uomini della pianura. (…) Il clima doveva essere di grande entusiasmo se l’inquieto Antonio Ghislanzoni scriveva l’inno popolare degli alpinisti lecchesi ed il maestro Gomes s’impegnava a musicarlo. “In alto! In alto! L’Alpe ci grida; scabro è il sentiero, la roccia crepita di eterno gel; ma là, dai vertici, l’uman pensiero i mondi domina, spazia nel ciel”».
E si arriva all’assemblea del 5 gennaio 1890 quando alla presidenza viene eletto il non ancora ventiduenne Mario Cermenati, il quale «imprime subito alla sezione una svolta decisiva di vigore, di operosità, di partecipazione. Già nell’ottobre stesso del ’90 il numero dei soci registra un notevole aumento: da trentatré ad ottanta». Le gite sociali sono da Ballabio a Mandello attraverso i Roccoli Resinelli, poi al Magnodeno, ai Corni di Canzo e al Montealbano.
E anche sui monti lecchesi arrivano i primi rifugi. Dopo i milanesi, si mobilitano anche i lecchesi. Racconta Bonfanti: «La sezione lecchese del Cai, sin dai giorni della fondazione, aveva agitato il proposito di una capanna, di un ritrovo sul Resegone ma difficoltà finanziarie, organizzative, burocratiche, avevano sempre frenato la realizzazione del progetto. Nel 1883 si era presentata una favorevole occasione quando la sezione del Cai di Milano aveva atto costruire una capanna da collocare in Val Zebrù. Sopra Bormio. La costruzione era pronta ma sopraggiunte difficoltà consigliarono i dirigenti milanesi a sospendere l’iniziativa. Si trattava di una capanna scomponibile e ricomponibile con viti in poche ore. (…) Il presidente della sezione milanese, ing. Pippo Vigani, offrì la capanna agli amici lecchesi, richiedendo una cifra di tutto vantaggio. L’assemblea del 27 settembre 1883 fu di parere contrario all’acquisto: prevalse l’opinione che la sezione era già impegnata finanziariamente nella sistemazione della nuova sede sociale» .
E solo nel 1892 viene deliberata la costruzione di una capanna: naufragate le trattative per acquisire la baita Daina in Pian Serada, si vira sull’acquisto di un cascinale poco sopra Costa: i lavori iniziano nella primavera del 1895 e la nuova capanna viene inaugurata il 15 settembre 1895 e intitolata ad Antonio Stoppani. In oltre cent’anni è diventato un punto di riferimento per la città: non c’è lecchese che non vi sia andato. La costruzione oggi esistente risale al secondo dopoguerra: come gli altri rifugi, la Capanna Stoppani è stata infatti distrutta dai nazifascisti.
Cermenati resterà alla guida del Cai lecchese fino alla morte avvenuta nel 1924, superando anche la prima guerra mondiale: complessivamente trentaquattro anni, nove mesi, tre giorni, altro che record. E’ lecito chiedersi – si interroga il libro dei “120 anni” – se Mario Cermenati sia stato un buon presidente con tutti quegli interessi e quegli impegni, gli incarichi e altre presidenze, che lo tenevano lontano da Lecco. La risposta che ci viene data: «Premesso che “questa sua città, più che amarla, l’adorava, e con le opere e l’ingegno la esaltò e la illustrò” come scrisse l’avv. Ruggiero che fu suo segretario, si deve ritenere la risposta decisamente affermativa. Egli non fu un presidente onorario ma volle essere un presidente effettivo anche se, indubbiamente, ebbe la collaborazione di uomini assai validi».
Nel 1926, il Cai lecchese conta trecento soci, ma intanto siamo entrati nell’era fascista che cambierà la geografia associativa italiana. Ma soprattutto, arrivano gli anni Trenta che mutano nel profondo l’alpinismo lecchese. Sono gli anni in cui si forma la scuola dei grandi rocciatori lecchesi, primo fra tutti Riccardo Cassin che ha messo il cappello su un’intera stagione dell’alpinismo mondiale e che del Cai lecchese diventerà presidente nel 1973. Le sfide si fanno più difficili, i camminatori diventano funamboli: «Una apposita pubblicazione sarebbe necessaria – scrive Bonfanti – per elencare le sole conquiste che si registrarono, grosso modo tra il 1929 e il 1936, nel gruppo delle Grigne, del Resegone, dei Campelli, e che portano decisamente all’attenzione del mondo alpinistico e dell’opinione pubblica in generale i rocciatori lecchesi. Crollano le ultime salite vergini, la montagna intera perde i suoi ultimi segreti, i suoi angoli inviolati, le sue torri inaccessibili». Poi, lo sguardo spazia e arrivano le conquiste al di fuori del giardino di casa, come La conquista del Badile nel 1937 da parte di Cassin, Vittorio Ratti e Gino Esposito, pur funestata dalla morte di due alpinisti comaschi incontrati in parete. E poi le Dolomiti, il Monte Bianco.
Nel contempo, «aumentano gli appassionati – registra ancora Bonfanti - coloro che sognano le grandi imprese, le conquiste coraggiose» anche se «purtroppo non mancano gli sprovveduti, gli incompetenti, coloro che vogliono strafare non conoscendo la montagna e le sue insidie». E così gli alpinisti diventeranno anche soccorritori e più avanti nascerà il Soccorso alpino: nel 2008, Daniele Chiappa, il “Ciapin” del Cerro Torre, lo racconterà in una serie di storie raccolte nel libro “Nell’ombra della luna”, edito da Stefanoni.
Dopo la seconda guerra mondiale e la lotta di Resistenza, da quella scuola lecchese nasce il gruppo dei “Ragni”, protagonista di un’epopea che Alberto Benini e Serafino Ripamonti hanno raccontato in altri libri.
Ed è proprio nel secondo dopoguerra che si allargano gli orizzonti e arrivano le prime spedizioni internazionali: si comincia nel 1958 con il Gasherbrum IV nell’Himalya per arrivare al 1974 con il Cerro Torre passando per il McKinley in Alaska del 1961, se ci fermiamo al libro del centenario; per arrivare invece al 1994 con lo Shisha Pangma e la Patagonia di Casimiro Ferrari se consultiamo anche il libro dei 120 anni che elenca e ricostruisce dettagliatamente le spedizioni extraeuropee. E tutte quelle seguenti al 1994, quelle del nuovo millennio con un alpinismo ormai radicalmente trasformato rispetto non solo alle origini “ruspanti” ma anche alle grandi svolte del Novecento, imprese quest’ultime il cui racconto è disseminato in altre pubblicazioni sparse e che un giorno dovranno pur essere riordinate.
Il libro di Bonfanti è un lungo racconto che ci accompagna lungo i cento anni del Cai che vanno dal 1874 al 1974, il libro dei “120 anni” invece è una sorta di grande memoria: il racconto storico è limitato a poche pagine (proprio perché «il primo secolo è stato ampiamente descritto» da Bonfanti) per mettere in risalto alcuni aspetti «per far tesoro della storia, anche solo con dei semplici richiami, per cercare di capire chi ci ha preceduto». E allora le figure più significative del Cai lecchese: Antonio Stoppani e Mario Cermenati naturalmente, ma poi Riccardo Cassin, Carlo Mauri e Casimiro Ferrari; l’elenco delle imprese nel mondo e le prime ascensioni europee, i sottogruppi del Cai e i “Ragni”, le attività didattiche e quelle sociali.
Dario Cercek