SCAFFALE LECCHESE/3: Ripamonti aggiorna la storia dei Ragni, tra vette e 'pieghe'
Nel 1996, anno cinquantesimo del gruppo alpinistico dei Ragni di Lecco, usciva il volume di Alberto Benini dedicato alla storia di una delle più importanti esperienze italiane e non solo. Adesso è Serafino Ripamonti, origini meratesi e residenza genovese, “ragno” dal 2001, a ritessere il filo di un’epopea che sembrava dover volgere al termine e che invece ha ripreso quota e quote.
«Chi si dedica all’alpinismo per passione e diletto – osserva Ripamonti – certi sogni rischia di tenerli nel cassetto. Occorre una chiave per trarli fuori e questa chiave è il gruppo». Che è lecchese anche se ormai molti suoi componenti non sono più lecchesi, non sono cresciuti nelle contrade di questa città. E anche questo allargamento non fu visto a suo tempo di buon occhio, ci ricorda ancora l’autore. Cancellava – diciamo noi - quell’aura magica che era il crescere gomito a gomito, il veder fin da piccino qualcuno diventare grande e poi davvero Grande. Un allentamento di legami personali che quasi allenta i legami con la città. Si spiega così, probabilmente, il motivo per cui certe imprese dei Ragni non provocano più l’entusiasmo popolare degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando l’intera città si sentiva coinvolta. Ma questa è già un’altra riflessione.
E’ infatti uscito nelle scorse settimane, edito da Rizzoli, “I Ragni di Lecco, una storia per immagini” (256 pagine, euro 24,90). Storia per immagini perché il libro è impreziosito da una serie di foto straordinarie e impressionanti raccolte in vari archivi. Ma che a esse non si ferma. C’è anche un racconto accurato e il maglione rosso che indossa non ha condizionato Ripamonti nell’affrontare anche gli argomenti spinosi.
La copertina del volume
Il lavoro del ’96 di Benini si concludeva sostanzialmente con la spedizione al K2 e la morte di Loreno Mazzoleni. Quello di Ripamonti si apre con le parole del presidente dei Ragni, Matteo della Bordella, a ricordo di Matteo Bernasconi, pure maglione rosso e compagno di tante imprese, morto il 12 maggio di quest’anno travolto da una valanga in Valtellina. Lorenzo Mazzoleni aveva 30 anni, Matteo Bernasconi 38. Due lapidi, «a rammentare – come scriveva all’epoca Benini – che gioia e dolore possono trovarsi a breve distanza e che l’alpinismo resta un’attività pericolosa, per quanto si cerchi di limitarne i rischi».E’ naturalmente impossibile sintetizzare nelle nostre poche righe a disposizione oltre settant’anni di imprese a sette zampe (tante quelle dei Ragni della Grignetta), partendo dai famosi esordi dei “Sempre al verde” per via di una strana tessere ritrovata nel 1946 lungo un sentiero. Impossibile elencare nomi e imprese, raccontare epica, albori e traguardi centrati o mancati, racchiusi nel libro: la palestra della Grignetta, l’incubatoio degli anni Trenta del Novecento, la rinascita del secondo dopoguerra, il lungo e per anni vano corteggiamento all’ambizione degli Ottomila himalayani, la Patagonia di Casimiro Ferrari e gli altri vessilli della “montanarietà” lecchese (permetteteci il neologismo): Riccardo Cassin e Carlo Mauri, per esempio, ma quanti altri nomi ci sarebbero da inanellare l’uno all’altro per rivivere vite e vie e vette che hanno lasciato il segno. Vi lasciamo alla lettura per riandare a momenti trionfali e ad altri drammatici o tragici. A personaggi che meriterebbero ognuno un cameo.
L'autore Serafino Ripamonti (foto ragnilecco.com)
L’importanza dell’aggiornamento di Ripamonti alla storia di una delle massime glorie lecchesi sta nella lettura data proprio agli ultimi vent’anni, ai traumi che il gruppo ha vissuto. Già in Benini c’era, naturalmente, la clamorosa fuoriuscita nel 1978 di alcuni maglioni rossi che avrebbero poi dato vita ai Gamma, allontanandosi dal Cai e avvicinandosi all’Uoei. E già c’era la storia del sassismo, delle falesie, dell’arrampicata libera, i Condor di don Agostino Butturini e le “mattane” del ragno Marco Ballerini («Questi sono acrobati, non alpinisti, dovrebbero esibirsi nei circhi» disse nel 1981 al Corriere della Sera il vicepresidente degli accademici del Cai Nino Oppio). Ma era solo l’inizio di una rivoluzione in arrivo che avrebbe contrapposto giovani e vecchi in maniera drammatica, quasi come se il movimento del Sessantotto fosse arrivato anche sui monti. Perché non era più la tradizionale commediola dei giovani scriteriati magari anche un po’ sfrontati guardati con sufficienza dagli anziani, i quali mantenevano ben custoditi i loro segreti, ci racconta Ripamonti.
Un gruppo di giovani Ragni della Grignetta durante il campeggio del 1948 ai Piani dei Resinelli (foto archivio Ragni)
E la rivoluzione arriva proprio in quel 1996 di cinquantesimo. Scrive l’autore: «Le celebrazioni per i cinquant’anni si focalizzano sulla sola vicenda del K2 e quando tutto è concluso nel modo vittorioso e tragico, qualcuno sente il bisogno di fare un bilancio. Sono otto Ragni tra i più attivi – Paolo Vitali, Sonja Brambati (compagna di Vitali e prima donna maglione rosso, ndr), Dario Spreafico, Marco Ballerini, Norberto Riva, Umberto Villotta, Maurizio Garota e Floriano Castelnuovo, fratello di Pinuccio, presidente in carica – a esternare il proprio dissenso rispetto all’operato della dirigenza e a dare le dimissioni. Lo fanno pubblicamente con una lunga e durissima lettera trasmessa anche ai giornali». L’accusa è che il gruppo abbia tradito la propria vocazione inseguendo soltanto la popolarità e puntano l’indice contro quelli che ritengono essere conflitti d’interesse. Una lettera deflagrante «perché tocca un nervo scoperto non solo dei Ragni ma dell’intero alpinismo italiano». Gli otto fuoriusciti prenderanno ciascuno la propria strada. E, oggi, Ripamonti commenta: «Volendo guardare a questa vicenda come a una lotta fra due anime interne al gruppo, è certo che il tempo e le scelte in campo alpinistico fatto dalle generazioni successive dei Ragni daranno alla fine ragione alle istanze portate avanti dai dimissionari, anziché a quelle della frazione allora maggioritaria».Perché l’alpinismo era ormai cambiato e cambierà ancora anche negli anni successivi quando i maglioni rossi firmeranno altre pagine memorabili come il “Progetto Egger” o sentimentali come la questione in sospeso con il Cerro Piergiorgio in Patagonia (Ripamonti ce le racconta: andate a leggervele).
Matteo dela Bordella, attuale presidente, durante l'apertura della via sul versante Ovest della Torre Egger (foto archivio Ragni)
«Chi si dedica all’alpinismo per passione e diletto – osserva Ripamonti – certi sogni rischia di tenerli nel cassetto. Occorre una chiave per trarli fuori e questa chiave è il gruppo». Che è lecchese anche se ormai molti suoi componenti non sono più lecchesi, non sono cresciuti nelle contrade di questa città. E anche questo allargamento non fu visto a suo tempo di buon occhio, ci ricorda ancora l’autore. Cancellava – diciamo noi - quell’aura magica che era il crescere gomito a gomito, il veder fin da piccino qualcuno diventare grande e poi davvero Grande. Un allentamento di legami personali che quasi allenta i legami con la città. Si spiega così, probabilmente, il motivo per cui certe imprese dei Ragni non provocano più l’entusiasmo popolare degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando l’intera città si sentiva coinvolta. Ma questa è già un’altra riflessione.
Dario Cercek