SCAFFALE LECCHESE/120: vita di una leggenda, di libro in libro. I volumi dedicati a Riccardo Cassin
Nato in salita, già. In tal modo Carlo Mauri spiegava il suo essere diventato alpinista, quasi un destino segnato per chi appunto nasce alle falde scoscese di una parete strapiombante. Nel suo caso, il paese di Rancio e la Corna di Medale. Nascere in salita, già. Però, Riccardo Cassin che è mito non solo lecchese ma universale, era nato in una pianura proprio piatta. Eppure «si ha un bel nascere in mezzo alla pianura – scriveva egli stesso - dove le Alpi appaiono come un lontano profilo (…), se si è nati per la montagna, presto o tardi ci si sente attirati». Tra l’altro, nel 1931 quando Mauri aveva solo un anno di vita, era stato proprio Cassin a tracciare, non senza difficoltà e dopo due tentativi a vuoto, la prima via sulla Medale, ancora oggi una “classica”, rito di passaggio imprescindibile per i giovani alpinisti. Cassin, dunque. Uno dei grandissimi dell’alpinismo mondiale, protagonista di una stagione straordinaria, tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento e poi indomito “grande vecchio”, punto di riferimento per generazioni non solo italiane.
Di lui molto si è scritto, naturalmente, anche in maniera agiografica. Molto, inoltre, egli ha raccontato: tanti volumi ne raccolgono le testimonianze. A cominciare da “Dove la parete strapiomba” che fu la sua prima autobiografia, pubblicata nel 1958 da Baldini e Castoldi con la collaborazione di Aurelio Garobbio. Seguì, nel 1977 dall’editore Dall’Oglio, “Cinquant’anni di alpinismo”. Il primo raccoglie i ricordi di una vita fino al 1953, a quella che sarebbe stata poi definita la “grande delusione”, vale a dire l’esclusione dalla spedizione al K2 da parte di Ardito Desio.Il secondo volume si concentra soprattutto sulle imprese alpinistiche, dai primi contatti «con la mia montagna» e dalla prima via aperta sulla Guglia Angelina nel 1931 fino alla sfortunata spedizione al Lhotse nel 1975. Si tratta di due libri che nel 2001 l’editrice Vivalda decise di fondere sotto un unico titolo – “Capocordata. La mia vita di alpinista” – con qualche aggiustamento e la curatela di Matteo Serafin. Infine, nel 2013, la lecchese “Alpine Studio” ha riproposto una nuova edizione di “Dove la parete strapiomba”.
Naturalmente, non vogliamo ricostruire la bibliografia completa, limitandoci ad alcuni titoli particolarmente significativi. A quelli già citati, si aggiunge il fondamentale “Cassin. Vita di un alpinista attraverso il ‘900”, pubblicato nel 2001 ancora da Vivalda e scritto da Guido Cassin e Daniele Redaelli e che racconta più l’uomo che le imprese sportive.
Di fatto Redaelli, scomparso nel 2017, può ritenersi il biografo più accreditato, avendo raccolto per anni le parole di Cassin e avendo potuto accedere a documenti anche privatissimi, diremmo intimi. Nel 2019, nel decennale della morte di Riccardo, il libro è stato ripubblicato, purtroppo senza lo straordinario corredo fotografico della prima edizione, da “Alpine Studio” con l’integrazione sulla nascita della Fondazione intitolata al grande alpinista e la cui genesi è raccontata da Anna Masciadri: «Sono i primi anni Duemila. Riccardo ha circa novant’anni ma la sua forza e la sua passione sono ancora indomabili. I problemi alle gambe iniziano a farsi sentire, così il figlio Guido diventa il suo fidato “secondo” per eventi e conferenze in giro per l’Italia e per il mondo. Un giorno, i due parlano dell’immenso patrimonio di ricordi, oggetti, fotografie e filmati dell’alpinista e si chiedono cosa sarà di tutto questo quando [Riccardo] non ci sarà più. Donare tutto al Museo della montagna di Torino? Il grande Riccardo è dubbioso, nonostante l’enorme stima nei confronti del Cai sente che così facendo lascerebbe andare via la sua vita molto lontano dal suo amatissimo Resegone e dalle sue Grigne». E così che, nel 2002, nasce la Fondazione Cassin.
Nel 2010, un anno dopo la morte dell’alpinista deceduto nel 2009, Daniele Redaelli pubblicava poi sempre per Alpine Studio, quella che viene presentata come la biografia ufficiale: “Cento anni in vetta. Riccardo Cassin: romanzo di vita e alpinismo”. A questo già corposo elenco si può aggiungere la lettura di “Cassin. C’era una volta il sesto grado” firmato dall’alpinista francese Georges Livanos (1923-2004) e uscito nel 1983 (in Italia per Dall’Oglio con la traduzione di Alessandro Giorgetta).
Quasi cinquant’anni prima, nel 1938, Livanos era un ragazzino di 15 anni che il 31 luglio «si trovava con i suoi genitori in gita sul ghiacciaio del Leschaux (Monte Bianco, ndr)» e incrociò due cordate: «Poiché la zona non era molto frequentata, è quasi certo che quel ragazzino aveva incrociato uno di coloro che avrebbe poi venerato come dei», vale a dire Cassin che con Ugo Tizzoni stava tornando al rifugio Torino dopo essere stato a dare un’occhiata da vicino alla Punta Walker che avrebbe attaccato e conquistato nei giorni seguenti e che è pagina storica nella storia dell’alpinismo. All’epoca – ecco spiegato il titolo – la classificazione delle difficoltà arrivava al sesto grado: il settimo sarebbe stato introdotto ufficialmente solo nel 1978. E così «ai nostri giorni – parole di Livanos – si fa un gran parlare del “settimo grado”. Se esiste, è quello del coraggio, dell’energia, della forza»
Cassin, dunque. Che nasce il 2 gennaio 1909 nella pianura friulana, a San Vito del Tagliamento (per la precisione nella frazione di Savorgnano). Che resta presto orfano del padre Valentino, nel 1913 vittima di un infortunio sul lavoro in Canada dove era emigrato come molti altri friulani e italiani, personaggi di una storia che abbiamo voluto dimenticare. Soltanto nel 1998, il bambino Riccardo ormai alla vigilia del novantesimo compleanno riuscirà a trovare la tomba del genitore in circostanze quasi rocambolesche, con ciò aggiungendo magia a una lunga vita di per sé già avventurosa: «Riccardo avanza con la sua caratteristica camminata curva – così Redaelli descrive quel momento in “Vita di un alpinista” - ma ancora piena di forza. Calpesta le foglie d’acero che macchiano il prato di rosso e di giallo. E’ infastidito dall’ombrello piegato dal vento che tramuta in aghi di ghiaccio la pioggia fine. E’ freddo, quest’autunno del British Columbia, ma il vecchio non lo sente: il duvet e la giacca del vestito slacciati, procede verso il cancello, sosta per un attimo ad osservare la lapide all’ingresso: “Dedicate to the Memory Pioneers”. Sì, suo padre era un pioniere. E lui sta andando a incontrarlo».
La mamma di Riccardo, Emila Battiston, è una donna forte, fa studiare il figlio finché possibile, con di mezzo la prima guerra mondiale e la rotta di Caporetto che in quei luoghi incide profondamente e i ragazzi sono costretti a crescere in fretta. Per esempio, un giorno del novembre 1917 «sull’argine del fiume [Riccardo] vede spuntare un paio di scarponi, si avvicina di soppiatto, li afferra e tira. Sono attaccati a un paio di gambe! Il cadavere di un soldato, Italiano o austriaco “non saprei dirlo, non guardai neppure la divisa, mi feci forza, slacciai le stringhe e gli sfilai gli scarponi, Di certo a casa avrebbero potuto scambiarli con qualcosa da mangiare”».Cassin nel 1926
Ed è proprio per aiutare la famiglia che Riccardo Cassin, nel 1924 abbandona la scuola per lavorare come fabbro e falegname: «Intanto Bepi Minett, un compagno di classe e fraterno amico di Riccardo, si trasferisce in cerca di lavoro a Lecco. (…) Cassin gli scrive, chiede se c’è lavoro sulle rive del Lario. Bepi gli risponde che sì, il lavoro non manca, ma l’unica cosa da fare è andare là a vedere. E’ la tarda primavera del 1926. Riccardo prende il treno a San Vito. (…) A Lecco c’è un lago che gli strappa un sorriso (…) e soprattutto, la città è dominata da montagne».Il giovane Cassin trova pressoché subito lavoro: «Ero apprendista fabbro, ma la fabbrica che mi avrebbe assunto, la Possenti, che faceva macchina per insaccati, era in costruzione alla Galandra. Così per quasi due anni feci il bocia di muratore nella ditta che la stava costruendo».
Intanto, però, comincia a salire sui monti. Arrivato a Lecco, «la prima domenica Emilio Possenti, uno dei tre fratelli soci della ditta, porta Bepi e Riccardo in gita sul Resegone. E’ il primo contatto con la montagna. Con tanto entusiasmo, poca attrezzatura e un sacco di pane già divorato prima di arrivare in vetta».
A Lecco, il giovane Riccardo, «non ricco ma ben curato» incontra anche l’amore della sua vita: «Dalla fine del 1934 nota ogni tanto (…) una sartina magra, bruna, dal portamento elegante. Con lei scambia qualche sguardo, al massimo un breve cenno di saluto». E il 6 febbraio 1935 le scrive: «Gentile Signorina, non avendo con lei alcuna confidenza di poterle dire a voce ciò che con semplice sincerità mi permetto di dirle su questo foglio. Da diverso tempo anche solo al fuggevole sguardo dell’incontro, al semplice saluto, nutro per lei una viva simpatia che oltrepassa i limiti dell’amicizia e che si chiama amore». Lei si chiama Irma Ceroni, si sposeranno nel 1940. Vivranno assieme oltre sessant’anni, avranno tre figli e una schiera fra nipoti e bisnipoti.
In quanto allo sport, inizialmente Cassin vorrebbe dedicarsi al pugilato. I primi combattimenti sul ring sono anche promettenti. Fino a quando, nel 1929, è costretto a scegliere e «la boxe perdeva un puglie decoroso, ma come ce n’erano tanti. L’alpinismo guadagnava una leggenda».
A questo punto, ci toccherebbe snocciolare il lungo elenco di imprese firmate Cassin: complessivamente più di 2500 ascensioni e un centinaio di prime assolute: le guglie e le torri delle Grigne con una progressione impressionante, una raffica di nuove vie, salendo «i gradini quattro per volta» come dice Livanos. E poi le Dolomiti, il Monte Bianco, le Alpi valtellinesi e le spedizioni all’estero, toccando le rocce di dodici paesi dall’Alaska al Giappone.
Ne citiamo poche, pochissime, tra quelle entrate a far parte della storia. Per esempio, la parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo: agosto 1935, con Vittorio Ratti e soffiata per un attimo a una fortissima cordata tedesca.
Per esempio, la Nord-Est del Pizzo Badile: luglio 1937, con Gino Esposito e Vittorio Ratti, un’impresa vittoriosa ma nel contempo tragica per la morte di due comaschi. Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, unitisi alla cordata lecchese e morti di stenti; su quella parete ci tornerà altre volte e nel 1987, per celebrare il cinquantesimo dell’impresa, il quasi ottantenne Cassin ripeterà la via in luglio e in agosto.
Per esempio, la Punta Waker alle Grandes Jorasses: agosto del 1938, con Gino Esposito e Ugo Tizzoni: è un ripiego visto che l’obiettivo dell’anno, era la Nord dell’Eiger in Svizzera e qui si entra nell’epica. Ma sull’Eiger ci arrivano prima i tedeschi: «Il Nazismo [aveva schierato] le sue forze migliori per aggiudicarsi questa prima ascensione. La corsa ai “tre grandi problemi delle Alpi” era iniziata con il successo tedesco sulla Nord del Cervino (…) nel 1931. Ora l’assalto all’Eiger». Il terzo grande problema era appunto la Punta Walker come il giornalista e alpinista Vittorio Varale aveva scritto a Cassin in una lettera con allegato lo schizzo della parete che la leggenda avrebbe poi trasformato in una fotografia. E quella volta i lecchesi arrivano prima dei tedeschi che pure erano già in movimento.
«Ma perché dovrei negare di essere stato fascista? – dirà l’alpinista anni dopo - Prima di tutto negarlo sarebbe una bugia: ho vestito la divisa, ho ricevuto i premi e i riconoscimenti per quanto facevo in montagna, addirittura la sezione di Lecco pagò a me e a Ratti le spese di viaggio, quando andammo su a Misurina per la prima ascensione sulla Nord della Lavaredo. C’era concorrenza con i tedeschi e il regime era interessato a una nostra vittoria. Ma noi mica arrampicavamo per il partito!».
All’indomani dell’8 settembre 1943, la scelta di Cassin è comunque per la Resistenza alla quale partecipa con la Brigata Rocciatori, è impegnato nella battaglia finale in città e vede morire, tra gli altri, gli amici e compagni di scalate Giovanni Giudici detto “Farfallino” e Vittorio Ratti, uccisi dai fascisti.
Poi, «sembra giunto – scrive ancora Redaelli – il momento di tornare in montagna senza il timore di sentire un “Alto là” o un “Mani in alto”. Ma Cassin deve rinviare la sua aspirazione. Prima gli tocca difendere gli amici della Rocciatori (…) dalla denuncia, ridicola, di un gruppo di partigiani (…) che avanzano dubbi sulla suddivisione del materiale lanciato dagli Alleati. (…) E’ il segno delle prime divisioni politiche fra chi, fino ad allora, aveva combattuto fianco a fianco».
«Tutte le bufere finiscono – scrive Livanos - Dopo quegli anni di incertezza gli alpinisti di Lecco sentono la necessità di essere ancora più uniti, tanto più che il Club Alpino è diviso dalle conseguenze del conflitto. (…) Nel 1946 fondano il Gruppo Ragni. (…) In quegli anni [Cassin] si occuperà della riorganizzazione del Cai, molto fascistizzato ai tempi di Mussolini, della ricostruzione dei rifugi».
Intanto, decide di mettersi in proprio, dopo che già da tempo fabbricava per sé e per i suoi amici chiodi e martelli: «Fino a ora – scrive ancora Livanos – Cassin era stato in testa solo in montagna. Nella vita professionale aveva avuto sempre uno sopra di lui, un caposquadra, un caporeparto, un direttore, il padrone stesso. Adesso, il padrone sarà lui. Decide di metter su una bottega di articoli sportivi. (….) Il marchio “Cassin”, portabandiera dell’alpinismo italiano non tarda a diffondersi e la clientela prima locale si trasforma in nazionale. Ma siccome per il momento non può bastare, deve tenere anche altri articoli più commerciali, più vendibili. Ho visto il piccolo negozio di piazza XX Settembre, con le sue vetrine incorniciate di verde scuro. C’erano anche chiodi e moschettoni, ma soprattutto fucili e attrezzature per cacciatori, in Grigna più numerosi degli alpinisti, e anche il materiale necessario ai pescatori del lago di Lecco, a loro volta più numerosi dei cacciatori. (…) Ben presto passa a un livello superiore, alla fase industriale e il marchio “Cassin-Italy” decolla. Apre un nuovo negozio, più grande, in via Cavour, a due passi dal bar-quartiere generale dei Ragni. Nasce una tradizione: gli stranieri che si recano alle Dolomiti vanno a trovarlo, per fare la sua conoscenza o incontrarlo di nuovo ed equipaggiarsi».
Tornando alle imprese alpinistiche, della “grande delusione” per l’esclusione dalla spedizione al K2 del 1954 abbiamo detto, ma Cassin si prende la rivincita nel 1958 guidando l’assalto vittorioso al Gasherbrun IV nel Karakorum, la cui vetta è raggiunta da Walter Bonatti e Carlo Mauri. E restando in ambito internazionale, nel 1961 c’è la conquista della parete Sud del McKinley (Denali) in Alaska e nel 1975 la sfortunata spedizione al Lhotse in Hymalaya: della partita anche un certo Reinhold, astro luminosissimo della stagione alpinistica successiva a quella di Cassin.
E’ ancora Livanos a spiegare cosa significhi il nome di Cassin: «In tutti i tempi ci sono stati uomini di un’audacia senza frontiere. Scrutavano viso a viso, senza abbassare gli occhi, i mondi misteriosi, gli oceani, le montagne, lo spazio. Forti, molto forti, sfidavano l’infinita potenza della natura e degli dei; Riccardo Cassin, nel campo dell’alpinismo, è stato uno dei loro successori più degni di considerazione. Uomo nel senso più completo e più bello della parola. Cassin non era uno scalatore eccezionale, era un essere eccezionale» Curioso che ne parli al passato, essendo nell’83 Cassin ancora vivo e ben vispo come avrebbe dimostrato sul Badile quattro anni dopo. E visto anche che Cassin sarebbe sopravvissuto allo stesso Livanos. E comunque: «Gli orologi a pendolo non si sono fermati all’ “ora Cassin”, ma senza voler andare a ingrossare le fila di bigotti idolatri, credo che se, tra gli alpinisti di tutti i tempi, ce ne sia qualcuno degno della più grande ammirazione, ebbene, Cassin si colloca al più alto livello. E’ stato ricordato a proposito delle sue vittorie folgoranti il mai troppo logo “veni, vidi, vici”. E’ una frase adatta a ben definire l’indelebile marchio a fuoco dello stile Cassin». (…) Non si tratta più di alpinismo, di scalata, ma è il Circo Barnum, il numero dei “Cassin’s”». Per dirla con Giusto Gervasutti, Cassin «è un uomo che non torna mai indietro una volta che stabilito la sua meta»
Nell’estate del 2009, ci racconta Redaelli, «Riccardo è ai Resinelli con la sua famiglia. (…) Però quest’estate è un po’ diversa dalle altre, il nonno non è più nel suo giardino seduto a indicare alle nipoti le guglie della Grignetta con i loro nomi, guglie che conosce come le sue tasche e che ha salito quasi tutte per primo. (…) Riccardo tra fine luglio e inizio agosto 2009 è a letto, ha 100 anni e 7 mesi, le sue condizioni di salute sono peggiorate e viene accudito dalla famiglia che ha deciso di non portarlo in ospedale, ma di fargli vivere gli ultimi tiri della sua vita nella casa che ama accanto ai suoi cari. (…) Accanto al suo letto c’è Marta, la nipote, che gli legge incessantemente la guida delle Grigne, è il suo rosario personale che gli scorre nelle vene: quei torrioni proteggono Riccardo e la sua casa, su quelle rocce c’è tutta la sua vita. 100 anni di vita sulle montagne di tutto il mondo, ma ogni spedizione è partita ed è stata preparata in Grignetta. E’ giovedì 6 agosto 2009. (…) Alle 22, 45 [il cuore] cede. E così Cassin lascia per sempre la sua Grignetta».
Dario Cercek