SCAFFALE LECCHESE/244: Bruno Bianchi e il 'recupero' delle opere d'arte cittadine
Dovremmo pensare a cos’erano la nostra città e l’intera conca sotto il Resegone nel 1962. Per capire come il paesaggio stesse drammaticamente mutando e con esso i muri, i palazzi, le pietre. Le ruspe erano in movimento, era un gran lavorio di ristrutturazioni, rifacimenti, nuove edificazioni. L’occhio più sensibile coglieva in quella trasformazione il rischio di perdere pezzi di memoria. Una preoccupazione per la quale si era ritenuto opportuno una sorta di inventario delle opere d’arte esistenti in città. A redigerlo Bruno Bianchi, l’architetto che questa rubrica ha già incontrato mesi or sono. Introducendo quell’inventario pubblicato appunto nel 1962 (“Opere d’arte a Lecco”, editrice Stefanoni), Bianchi scriveva: «Questa raccolta di fotografie (perché non si tratta di un libro) sembrava prendesse origine ad un certo punto della sua compilazione, esclusivamente dalla paura; dal timore che sotto la spinta di un violento rinnovarsi della struttura urbana e nel costume stesso delle generazioni nuove, quanto andavo documentando finisse con lo scomparire, prima ancora di essere conosciuto».
A quel punto, Bianchi si chiedeva se valesse davvero la pena che si conoscesse quel patrimonio. «Mi pare si possa dire – si rispondeva – che in nessuno sorge il problema della conservazione di un quadro, perché un quadro, in genere, non disturba nessuno, non intralcia; il discorso è diverso per una architettura, di cui non si afferri più la ragione, il perché del suo permanere in una certa posizione, in un ambiente urbano ormai in violenta opposizione. E allora ecco le città e i paesi mangiarsi gli antenati; ecco dapprima le marmette sostituirsi alle beole sui pavimenti delle chiese, poi i portali sfondare le loro cornici per diventare vetrine, ed infine le strade storte raddrizzarsi ai danni di qualche palazzetto e di qualche chiesa settecentesca, nella convinzione che i problemi dello sviluppo si risolvano sfondando le vecchie strutture e non creandone delle nuove, fatte sulla scala dei nuovi problemi».
Il problema particolare di Lecco, inoltre era (è) costituito dall’assenza di autentici capolavori. E così «la mancanza del pezzo di eccezione mi sembra però abbia fatto trascurare quanto nel suo complesso, e sia pure in tono minore, costituisce invece un patrimonio validissimo ed una lezione attuale per i suoi valori di misura, di modestia e di perfetta ambientazione nel paesaggio, bellissimo, dei nostri dintorni».
Infine, dopo una veloce carrellata sulle varie epoche storiche, Bianchi si chiedeva quale fosse il modo di esprimersi del “nostro tempo” che era quello di ormai sessant’anni fa e perciò di un’altra era. E dunque, nei confronti del reperti del passato «o ci prende un feticismo cieco e sordo che sembra apprezzare solo le cose vecchie e non avvertire nel lavoro dei contemporanei la continuazione di un discorso iniziato molte generazioni or sono e mai perduto; oppure, vittime di un’altra forma di cecità e di sordità, ci sembra impossibile risolvere i nostri problemi di oggi senza la distruzione di tutti i “ruderi” che ci si parano davanti, quasi incolpando loro dei nostri errori e delle nostre insufficienze». Ed era dunque «per non perdere il filo» che aveva preso forma quell’inventario.
Il libro sarebbe poi stato ripubblicato nel 1979, da parte dell’Azienda di soggiorno e turismo. A quel punto, la trasformazione si era compiuta e, anzi, si era sulla soglia di un nuovo radicale mutamento, quello della deindustrializzazione. La città aveva praticamente saturato lo spazio a sua disposizione tra i monti e il lago.
La riedizione del libro era dunque l’occasione per riflettere sugli avvenuti cambiamenti: «Il corpo della nostra città – scriveva dunque Bianchi – è realmente cresciuto in modo smisurato, ossia oltre la sua misura logica e naturale e quindi anche per questo motivo è malato». Per quanto «l’amorosa attenzione e lo spirito di ricerca di molte persone civili, perché ancora ne esistono, ha consentito in questi anni di ricuperare una serie di testimonianze non secondarie». Però «di fronte alla presunzione e alla arretratezza che presiedono a certi interventi sulla nostra città e sul suo territorio ci si chiede se invece dei libri non occorra qualcosa di più persuasivo, forse di più violento: osservando la recentissima distruzione di uno dei nostri rari esempi di architettura razionalista, la casa Ponziani del lecchese Giuseppe Mazzoleni, di fronte alla improntitudine con cui si è distrutto il colle di Varigione col pieno consenso di tutti: cittadini indifferenti, tecnici selvaggi, consigli di quartiere occupati d’altro o conniventi; di fronte al colossale sfacelo delle falde del San Martino, che sta minacciando seriamente anche quegli abitati che finora questa povera montagna non aveva per niente messo in pericolo; di fronte a questi tre episodi, ci si sente scoraggiati e disarmati, constatando il peggioramento del livello civile del nostro paese».
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«E allora – la conclusione – vale la pena di occuparsi del Procaccini o contemplare gli archi ribassati di qualche chiesa barocca, misteriosamente salva, nonostante tutto? Allora diciamo subito che non si tratta di contemplazione o almeno non nel senso di qualcosa di passivo, si tratta piuttosto di trovare qualcosa di vero e di sano da cui cominciare.»
La prima edizione comprendeva 45 tavole, la seconda saliva a 65. Non è certo il caso, qui, di riportare l’elenco completo. Che comprende opere a portata di mano ad altre più nascoste. Ricordando comunque che nel 1962 e in certi casi anche nel 1979, alcuni monumenti oggi valorizzati erano anche poco considerati o addirittura trascurati.
Ci sono gli affreschi della chiesa del Beato Serafino a Chiuso ancora attribuiti a Giovan Pietro da Cemmo, l’icona bizantina dalla provenienza misteriosa conservata a Rancio, i polittici di Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari a Maggianico, gli affreschi dello scomparso convento di San Giacomo a Castello trasferiti nella chiesa della Vittoria, il cortile dell’ex Seminario di Castello che aveva un suo valore particolare: «Lecco – si legge infatti– ospitò parecchi conventi ma di nessuno è rimasta una traccia architettonica di qualche rilievo: quello di San Giacomo, posto dove è ora la via Roma, venne demolito nel XVI secolo perché, proprio per la sua posizione “fuori le mura” si prestava a riparo dei frequenti assalitori della città, quello di Santa Maria Maddalena a porta Santo Stefano non ha lasciato nessun segno: di quello di San Giacomo a Castello sono rimaste solo le pitture; di quello di Pescarenico è rimasto ben poco. Fa eccezione, con il suo chiostro quasi intatto, il palazzo dell’ex seminario di Castello, convento cistercense prima, poi delle suore benedettine fino al 1784. L’ampiezza del chiostro a due piani fa pensare a un nucleo religioso assai più notevole delle venti suore indicate in una visita pastorale dei primi anni del 1600». Il complesso è stato, oggi completamente ridisegnato, mantiene il chiostro restaurato e trasformato in un cortile condominiale.
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Ci sono poi il Sant’Antonio Abate dI Bernardo Zenale a Malavedo, la Natività acquatese attribuita a Palma il Vecchio e la Trinità del Cerano a Pescarenico. E c’è il Palazzo Secchi di Castello che la parrocchia ha recentemente recuperato (per l’occasione è stato anche pubblicato un libro che ne ripercorre la storia definita «una polifonia di storia, arte, industria e tradizione benefica”). Si volgeva poi l’attenzione a «un certo gruppo di chiese a Lecco e nei dintorni che esigerebbero un discorso complessivo: S. Marta a Lecco, S. Maria Nascente a Rancio, S, Nazaro e Celso a Castello, S. Carlo a Castione. Sono le chiese sorte dall’impulso dato da S. Carlo Borromeo e alla restaurazione degli edifici religiosi. (…) Si può dire che con le visite di S. Carlo si aprì nell’architettura religiosa lombarda il periodo barocco; demolendo quelle preesistenti furono rinnovate quasi tutte le chiese della nostra zona».
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E c’è anche la Cappella dei morti di Malgrate, non soltanto «una delle tante “cappelle dei morti” di cui è ricca tutta la Lombardia, ma è soprattutto una eccellente raccolta di elementi barocchi in proporzioni ridotte. (…) E dentro, come al solito, mucchi di ossa, disposti in funzione decorativa ma soprattutto voluti dallo spirito della controriforma». Proprio recentemente, tra l’altro, si è messo mano a un progetto di restauro. Nella prima edizione ci si soffermava infine su un affresco staccato dal muro esterno di una casa acquatese e all’epoca ancora conservato in una casa privata. Nella seconda edizione non se ne sarebbe più parlato. Se n’erano ormai perse le tracce? Chissà.
E comunque, nell’edizione del 1979, come detto, alle opere già catalogate nel 1962 se n’erano aggiunte alcune altre. Per esempio quelle recuperate nel corso dei restauri della basilica di San Nicolò avvenuti tra il 1967 e il 1968: gli affreschi del Battistero, il chiostro della canonica, antichi resti murari, un armadio di sagrestia. Vi sono ulteriori approfondimenti su Santa Marta, si “riscoprono” i deliziosi stucchi della chiesa di San Giovanni a Laorca (quella del cimitero). E compare il Teatro della Società dell’architetto Bovara. Teatro che, si ricorderà, nel 1962 era chiuso ormai da una decina d’anni e sembrava peraltro destinato addirittura all’abbattimento. Sarebbe stato recuperato e riaperto proprio nella seconda metà degli anni Sessanta.
E compare anche, nella nuova edizione, il riferimento a quella Casa Ponziani di Castello alla quale si accennava nella sconsolata introduzione. Venne realizzata negli anni Trenta su progetto dell’architetto Giuseppe Mazzoleni (1903-1940); negli anni Ottanta, venduta dalla famiglia Ponziani ad altri proprietari, la casa sarebbe stata completamente ristrutturata, «sfasciata e mostruosamente deturpata - per usare le parole di Bianchi -. Anche qui il denaro, l’ignoranza e la sicurezza dell’impunità hanno vinto» L’edificio era uno dei più pregevoli esempi di architettura razionalista in città. Scriveva proprio Bianchi: «Dal letto dove si trovava sofferente e dal quale non si sarebbe più alzato, il lecchese Giuseppe Mazzoleni continuava a dirigere i lavori di questa casa e ne preparava i disegni nel dettaglio: riusciva perfino a farsi portare, in barella, sul cantiere per seguirne da vicino l’esecuzione e parlare con gli operai. Morì quando la casa fu compiuta. Nel quadro del razionalismo europeo quest’opera si colloca nel vivo di una delle correnti più origiinali: quella dei comaschi Terragni e Lingeri, Dell’Acqua, Cattaneo e del lecchese Cereghini. (…) Ogni soluzione anche di dettaglio, fino all’arredo ed all’attrezzatura della casa, fu pensata, disegnata e curata con estremo scrupolo professionale, con amore e con l’entusiasmo tipico di un temperamento meraviglioso di creatore».
Se Casa Ponziani era ormai scomparsa, esisteva invece ancora il quattrocentesco soffitto ligneo di Casa Frigerio in via Mascari, le cui tavole dipinte – scriveva nel 1962 e replicava nel 1979 l’architetto Bianchi - «sono a tutt’oggi l’unico avanzo in Lecco di una singolare manifestazione di carattere artigianale. (…) L’ignoto pittore delle nostre tavole, se non è accostabile ai maestri che in quell’epoca si occupavano pure di lavori artigianali, può reggere molto bene il confronto con altri soffitti lombardi, certo più celebri».
Ma anche questo soffitto sarebbe scomparso. Alla fine degli anni Novanta, infatti, la casa sarebbe stata messa in vendita e le tavole lignee meglio conservate vendute a pezzi. Ne scrisse indignato Gianfranco Scotti in un articolo giornalistico ripreso dalla rivista storica “Archivi di Lecco” nel numero di aprile-giugno 1998: «Un’operazione che non ha bisogno di commenti, un gesto di rozza ignoranza e di totale insensibilità nei confronti di un manufatto rarissimo, anzi ormai unico a Lecco e nel territorio. (…) Ciò che sembra incredibile è che una simile rara, preziosa testimonianza artistica non fosse tutelata da alcun vincolo. Così vanno le cose in questa sfortunata città. Depredata, umiliata, svenduta».
Non era dunque infondato quell’iniziale timore di Bianchi, a proposito della scomparsa di molte opere d’arte lecchesi.
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Il problema particolare di Lecco, inoltre era (è) costituito dall’assenza di autentici capolavori. E così «la mancanza del pezzo di eccezione mi sembra però abbia fatto trascurare quanto nel suo complesso, e sia pure in tono minore, costituisce invece un patrimonio validissimo ed una lezione attuale per i suoi valori di misura, di modestia e di perfetta ambientazione nel paesaggio, bellissimo, dei nostri dintorni».
Infine, dopo una veloce carrellata sulle varie epoche storiche, Bianchi si chiedeva quale fosse il modo di esprimersi del “nostro tempo” che era quello di ormai sessant’anni fa e perciò di un’altra era. E dunque, nei confronti del reperti del passato «o ci prende un feticismo cieco e sordo che sembra apprezzare solo le cose vecchie e non avvertire nel lavoro dei contemporanei la continuazione di un discorso iniziato molte generazioni or sono e mai perduto; oppure, vittime di un’altra forma di cecità e di sordità, ci sembra impossibile risolvere i nostri problemi di oggi senza la distruzione di tutti i “ruderi” che ci si parano davanti, quasi incolpando loro dei nostri errori e delle nostre insufficienze». Ed era dunque «per non perdere il filo» che aveva preso forma quell’inventario.
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La riedizione del libro era dunque l’occasione per riflettere sugli avvenuti cambiamenti: «Il corpo della nostra città – scriveva dunque Bianchi – è realmente cresciuto in modo smisurato, ossia oltre la sua misura logica e naturale e quindi anche per questo motivo è malato». Per quanto «l’amorosa attenzione e lo spirito di ricerca di molte persone civili, perché ancora ne esistono, ha consentito in questi anni di ricuperare una serie di testimonianze non secondarie». Però «di fronte alla presunzione e alla arretratezza che presiedono a certi interventi sulla nostra città e sul suo territorio ci si chiede se invece dei libri non occorra qualcosa di più persuasivo, forse di più violento: osservando la recentissima distruzione di uno dei nostri rari esempi di architettura razionalista, la casa Ponziani del lecchese Giuseppe Mazzoleni, di fronte alla improntitudine con cui si è distrutto il colle di Varigione col pieno consenso di tutti: cittadini indifferenti, tecnici selvaggi, consigli di quartiere occupati d’altro o conniventi; di fronte al colossale sfacelo delle falde del San Martino, che sta minacciando seriamente anche quegli abitati che finora questa povera montagna non aveva per niente messo in pericolo; di fronte a questi tre episodi, ci si sente scoraggiati e disarmati, constatando il peggioramento del livello civile del nostro paese».
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La Casa Ponziani
«E allora – la conclusione – vale la pena di occuparsi del Procaccini o contemplare gli archi ribassati di qualche chiesa barocca, misteriosamente salva, nonostante tutto? Allora diciamo subito che non si tratta di contemplazione o almeno non nel senso di qualcosa di passivo, si tratta piuttosto di trovare qualcosa di vero e di sano da cui cominciare.»
La prima edizione comprendeva 45 tavole, la seconda saliva a 65. Non è certo il caso, qui, di riportare l’elenco completo. Che comprende opere a portata di mano ad altre più nascoste. Ricordando comunque che nel 1962 e in certi casi anche nel 1979, alcuni monumenti oggi valorizzati erano anche poco considerati o addirittura trascurati.
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L'icona bizantina a Rancio
Ci sono gli affreschi della chiesa del Beato Serafino a Chiuso ancora attribuiti a Giovan Pietro da Cemmo, l’icona bizantina dalla provenienza misteriosa conservata a Rancio, i polittici di Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari a Maggianico, gli affreschi dello scomparso convento di San Giacomo a Castello trasferiti nella chiesa della Vittoria, il cortile dell’ex Seminario di Castello che aveva un suo valore particolare: «Lecco – si legge infatti– ospitò parecchi conventi ma di nessuno è rimasta una traccia architettonica di qualche rilievo: quello di San Giacomo, posto dove è ora la via Roma, venne demolito nel XVI secolo perché, proprio per la sua posizione “fuori le mura” si prestava a riparo dei frequenti assalitori della città, quello di Santa Maria Maddalena a porta Santo Stefano non ha lasciato nessun segno: di quello di San Giacomo a Castello sono rimaste solo le pitture; di quello di Pescarenico è rimasto ben poco. Fa eccezione, con il suo chiostro quasi intatto, il palazzo dell’ex seminario di Castello, convento cistercense prima, poi delle suore benedettine fino al 1784. L’ampiezza del chiostro a due piani fa pensare a un nucleo religioso assai più notevole delle venti suore indicate in una visita pastorale dei primi anni del 1600». Il complesso è stato, oggi completamente ridisegnato, mantiene il chiostro restaurato e trasformato in un cortile condominiale.
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L'ex seminario
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Ci sono poi il Sant’Antonio Abate dI Bernardo Zenale a Malavedo, la Natività acquatese attribuita a Palma il Vecchio e la Trinità del Cerano a Pescarenico. E c’è il Palazzo Secchi di Castello che la parrocchia ha recentemente recuperato (per l’occasione è stato anche pubblicato un libro che ne ripercorre la storia definita «una polifonia di storia, arte, industria e tradizione benefica”). Si volgeva poi l’attenzione a «un certo gruppo di chiese a Lecco e nei dintorni che esigerebbero un discorso complessivo: S. Marta a Lecco, S. Maria Nascente a Rancio, S, Nazaro e Celso a Castello, S. Carlo a Castione. Sono le chiese sorte dall’impulso dato da S. Carlo Borromeo e alla restaurazione degli edifici religiosi. (…) Si può dire che con le visite di S. Carlo si aprì nell’architettura religiosa lombarda il periodo barocco; demolendo quelle preesistenti furono rinnovate quasi tutte le chiese della nostra zona».
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E c’è anche la Cappella dei morti di Malgrate, non soltanto «una delle tante “cappelle dei morti” di cui è ricca tutta la Lombardia, ma è soprattutto una eccellente raccolta di elementi barocchi in proporzioni ridotte. (…) E dentro, come al solito, mucchi di ossa, disposti in funzione decorativa ma soprattutto voluti dallo spirito della controriforma». Proprio recentemente, tra l’altro, si è messo mano a un progetto di restauro. Nella prima edizione ci si soffermava infine su un affresco staccato dal muro esterno di una casa acquatese e all’epoca ancora conservato in una casa privata. Nella seconda edizione non se ne sarebbe più parlato. Se n’erano ormai perse le tracce? Chissà.
E comunque, nell’edizione del 1979, come detto, alle opere già catalogate nel 1962 se n’erano aggiunte alcune altre. Per esempio quelle recuperate nel corso dei restauri della basilica di San Nicolò avvenuti tra il 1967 e il 1968: gli affreschi del Battistero, il chiostro della canonica, antichi resti murari, un armadio di sagrestia. Vi sono ulteriori approfondimenti su Santa Marta, si “riscoprono” i deliziosi stucchi della chiesa di San Giovanni a Laorca (quella del cimitero). E compare il Teatro della Società dell’architetto Bovara. Teatro che, si ricorderà, nel 1962 era chiuso ormai da una decina d’anni e sembrava peraltro destinato addirittura all’abbattimento. Sarebbe stato recuperato e riaperto proprio nella seconda metà degli anni Sessanta.
E compare anche, nella nuova edizione, il riferimento a quella Casa Ponziani di Castello alla quale si accennava nella sconsolata introduzione. Venne realizzata negli anni Trenta su progetto dell’architetto Giuseppe Mazzoleni (1903-1940); negli anni Ottanta, venduta dalla famiglia Ponziani ad altri proprietari, la casa sarebbe stata completamente ristrutturata, «sfasciata e mostruosamente deturpata - per usare le parole di Bianchi -. Anche qui il denaro, l’ignoranza e la sicurezza dell’impunità hanno vinto» L’edificio era uno dei più pregevoli esempi di architettura razionalista in città. Scriveva proprio Bianchi: «Dal letto dove si trovava sofferente e dal quale non si sarebbe più alzato, il lecchese Giuseppe Mazzoleni continuava a dirigere i lavori di questa casa e ne preparava i disegni nel dettaglio: riusciva perfino a farsi portare, in barella, sul cantiere per seguirne da vicino l’esecuzione e parlare con gli operai. Morì quando la casa fu compiuta. Nel quadro del razionalismo europeo quest’opera si colloca nel vivo di una delle correnti più origiinali: quella dei comaschi Terragni e Lingeri, Dell’Acqua, Cattaneo e del lecchese Cereghini. (…) Ogni soluzione anche di dettaglio, fino all’arredo ed all’attrezzatura della casa, fu pensata, disegnata e curata con estremo scrupolo professionale, con amore e con l’entusiasmo tipico di un temperamento meraviglioso di creatore».
Se Casa Ponziani era ormai scomparsa, esisteva invece ancora il quattrocentesco soffitto ligneo di Casa Frigerio in via Mascari, le cui tavole dipinte – scriveva nel 1962 e replicava nel 1979 l’architetto Bianchi - «sono a tutt’oggi l’unico avanzo in Lecco di una singolare manifestazione di carattere artigianale. (…) L’ignoto pittore delle nostre tavole, se non è accostabile ai maestri che in quell’epoca si occupavano pure di lavori artigianali, può reggere molto bene il confronto con altri soffitti lombardi, certo più celebri».
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Il soffitto ligneo disperso
Ma anche questo soffitto sarebbe scomparso. Alla fine degli anni Novanta, infatti, la casa sarebbe stata messa in vendita e le tavole lignee meglio conservate vendute a pezzi. Ne scrisse indignato Gianfranco Scotti in un articolo giornalistico ripreso dalla rivista storica “Archivi di Lecco” nel numero di aprile-giugno 1998: «Un’operazione che non ha bisogno di commenti, un gesto di rozza ignoranza e di totale insensibilità nei confronti di un manufatto rarissimo, anzi ormai unico a Lecco e nel territorio. (…) Ciò che sembra incredibile è che una simile rara, preziosa testimonianza artistica non fosse tutelata da alcun vincolo. Così vanno le cose in questa sfortunata città. Depredata, umiliata, svenduta».
Non era dunque infondato quell’iniziale timore di Bianchi, a proposito della scomparsa di molte opere d’arte lecchesi.
Dario Cercek