SCAFFALE LECCHESE/208: l'Atlante di emozioni di Bianchi, per una città 'non-perduta'
Molti ritengono che la nostra sia una città ormai “perduta”: cresciuta disordinatamente (e voracemente), non lascia ormai più spazio ad alcun ripensamento, a una riflessione, a un tentativo di sviluppo differente. E ciò da un bel po’ di tempo. Buttata alle ortiche l’ultima occasione, quando a fine Novecento la dismissione delle grandi fabbriche restituì aree di vasto respiro subito soffocato.
Non si tratta in verità di un saggio urbanistico compiuto. Raccoglie infatti brevi riflessioni scritte in periodi differenti, ma comunque negli ultimi anni della sua vita. Pagine dalle quali traspaiono da un lato lo slancio che Bianchi ancora aveva per questa città e dall’altro la convinzione che non tutto fosse perduto. E quindi che, passati dieci anni da quella mostra, tutto non sia ancora perduto per una città dalla conformazione del tutto particolare nonché straordinaria e impagabile, compresa tra il lago e una cerchia di montagne imponenti e vertiginose che ne determinano aspetto e destino.«La chiusura delle montagne – scriveva Bianchi - questo “recinto” come lo chiamava la Elena (la figlia, ndr), cercando con gli occhi azzurri un po’ irati una apertura, una breccia attraverso la quale si potesse scorgere il mare, questa chiusura quasi completa benché articolata e dal profilo estremamente volubile, casuale per noi ignoranti ma piena di logica per i geologi, costituisce la vera costante del paesaggio lecchese, tanto importante e perentoria da costringerci a sorvolare i tetti delle case per seguire con l’occhio, come i bambini col dito sul sillabario, il profilo arcinoto del Resegone e quello meno celebrato ma più misterioso del San Martino: grandi masse di dolomia e calcare, sempre per i geologi. Ci ritroviamo ancora prigionieri delle manzoniane “due catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno…” Sfondo di tante volonterose e monotone cartoline. (…) Perfino il ponte visconteo, onnipresente nelle vedute da Pescate o da San Michele, più che scavalcare il fiume con le sue zoppicanti falcate ineguali, sembra collegare le due catene di monti e chiudere l’unico varco in quel “recinto” dal quale i sogni vorrebbero fuggire».Del resto, non bisogna accontentarsi di guardarla. Occorre anche ascoltarla, una città, riconoscerne il suono: «Forse è lecito ai tre pilastri dell’urbanesimo aggiungerne un quarto. Quello della musica: è certo che tutto cambia con un suono, prende un altro valore e impercettibilmente ci trasporta in un altrove più cordiale e carico di poesia. Anche la nostra, pur ferocemente criticata, può allora diventare una “città che si ascolta come un verso” e un suono o una voce amica che ci chiama da lontano fanno capire che non siamo mai soli. La notte di Natale del 1904 la conca di Lecco, i rioni, le valli e il lago cambiarono dimensione: un suono nuovo li aveva fatti nascere una seconda volta. Le nove campane di S. Nicolò, suonano “a concerto” e inventano di nuovo il paese. Un suono mai sentito prima aveva costruito uno spazio non solo musicale: Laorca. Germanedo, Chiuso, Malgrate, il lago e il recinto delle montagne, da quella notte magica sono avvolti in questo liquido sonoro, ormai componente ineludibile della loro atmosfera».
Che poi, anche ascoltare non basterebbe: «Abbiamo forse bisogno di osservare la nostra città: amata e tradita, cantata e criticata, oggetto frequente di nostalgia; osservarla senza accontentarci di vederla; guardarla con il “terzo occhio”, quello del cuore che dà la capacità di stupirci di fronte al quotidiano. Sempre guardando in alto e saltando le vetrine di biancheria del piano terreno, corso Martiri squaderna un campionario di facciate sapienti e accurate anche se spesso travolte dalle cattive compagnie. (…) Le scoperte non mancheranno una volta assunto uno stato d’animo d’attenzione, di curiosità oziosa, di piacere per la scoperta. (…) Le tracce dell’Arte a Lecco fortunatamente non sono concentrate nei musei e quindi non possono essere riservate a un momento e a dei luoghi speciali. Tutte le comunità, da Laorca a Chiuso, portano i segni del valore che ognuna di esse attribuiva al proprio luogo e al manufatto più significativo, la chiesa, luogo di fede e di identificazione della comunità stessa, ancorché piccolissima. (…) Segnale di affermazione della presenza di questa comunità e del suo riconoscersi e distinguersi, del suo dare un senso alla famiglia allargata che è il paese». E dopo alcune riflessioni generali sul “pensare” una città e uno spazio urbano, Bianchi continua: «Il cuore attivo di Lecco non penso sia concentrato nei bar di piazza XX Settembre o nella semidefunta piazza Garibaldi, ma piuttosto in quel grande spazio compreso tra viale Valsugana, via Achille Grandi, corso Promessi Sposi e via Ghislanzoni, dove c’è una presenza intensissima di attività produttive; dalle aziende con due addetti a quelle più consistenti: quante sono queste imprese? Censiamole e andiamo a vedere come riescono a operare e a muoversi in un tessuto cresciuto spontaneamente».
Su questo fronte, nel 2008 annotava: «Un luogo comune, frutto di scarsa attenzione ai vari mutamenti, assegnava alla nostra città un ruolo vagamente terziario, quasi dando per scontata la fine dell’attività produttiva, come se il citato terziario (talvolta gratificato col titolo di “avanzato”) potesse svilupparsi per moto proprio, come per partenogenesi, senza il terreno di coltura del lavoro: si può terziarizzare il nulla? Le cose a Lecco stanno andando, per fortuna, ben diversamente. La voglia di impresa, la capacità di lavorare e l’orgoglio di “far lavorare” cercano di restituire a Lecco e al suo territorio il ruolo che li caratterizzava fino a pochi decenni fa. La scomparsa di gran parte delle grandi realtà produttive (…) ha fatto pensare che accanto a queste realtà dovesse scomparire anche quel tessuto produttivo fitto e diffuso che dopo tutto era sempre stato il supporto indispensabile di quelle realtà maggiori e ne era al contempo la filiazione». Nel suo atlante emozionale, l’architetto lecchese ci lascia qualche suggerimento. Per esempio a proposito di quel porticciolo che periodicamente, almeno da mezzo secolo ma forse di più, torna alla ribalta: «Lecco: città di lago. La carenza di posti barca è un problema a livello provinciale che interessa la sponda del nostro lago fino a Colico; non essendo dunque un problema esclusivamente lecchese è inutile incancrenirsi a ficcare dei posti barca là dove manca materialmente lo spazio, col risultato non già di creare un servizio, bensì di aggiungere alle Caviate e alla città problemi già esistenti». Più avanti: «Si dia al problema della navigazione lacuale la sua dimensione giusta invece di incancrenirsi a parlare solo di Lecco dove esistono i limiti e le incompatibilità che tutti sappiamo: da Lecco a Novate Mezzola ci sono più di quaranta chilometri di costa.»
Tra le altre proposte, quella di piantare alberi sulle rotatorie e nei parcheggi: «Solamente negli spazi delle rotonde e in altri ritagli si può ipotizzare la piantumazione di qualche centinaio di alberi, con un programma totalmente a carico di enti e associazioni private. L’albero della rotonda assume anche un valore segnaletico e di orientamento. Alberi nei parcheggi: è possibile pianarne uno ogni quattro macchine».E come non cogliere l’attualità di una considerazione, ora che siamo alle prese con i lavori per il cosiddetto quarto ponte tra Pescate e il Bione. Quale occasione migliore per dare finalmente un’identità a una zona periferica ma che in realtà è l’autentica porta d’ingresso alla città: «Si arriva a Lecco attraversando uno spazio degradato, usufruendo di strutture viarie efficienti e indispensabili e viene spontanea una riflessione: ma qui i lavori non sono finiti! Un progetto che preveda la creazione di una nuova immagine ottenuta sia con la natura che con i colori dei manufatti che distinguano ed evidenzino le varie direzioni. E’ certamente possibile trasformare questo insieme di svincoli in un luogo gradevole: un vero ingresso alla città. Ma non è compito dell’Anas? Può darsi, ma la città è nostra e il degrado ce lo godiamo noi e chiunque esce ed entra a Lecco.»
A proposito di un altro ponte, quello Vecchio, l’auspicio di Bianchi sembra diventato realtà visto che parlava della necessità di restaurare il Ponte visconteo restituendogli «la sua funzione di passaggio pedonale e ciclabile, al massimo un senso unico per i veicoli». Che è quanto ha fatto l’attuale giunta comunale attirandosi non poche critiche e contumelie. Ma c’è di più. Che dire infatti dell’invito a riappropriarsi «delle sponde dei tre torrenti, che sono all’origine fisica del suolo da cui è nato l’abitato di Lecco. Gerenzone, Caldone e Bione sono le tre spine verdi che collegano la città alla montagna, Nonostante le manomissioni, le coperture incongrue e gli oltraggi di vario genere: esiste una loro forte potenzialità a livello di natura (vegetazione e acqua), di possibili percorsi pedonali e di interruzione del costruito: una pausa attiva accompagnata dal suono dell’acqua»? Anche di questo si è parlato nei mesi scorsi a proposito di quello che è stato definito il masterplan per una città ecologica.
Infine, l’installazione di pale eoliche sul Ponte Nuovo così che breva e tivano possano tornare ad avere l’importanza che avevano quando sospingevano i comballi.
In quanto agli oltraggi – e tanti ne ha subiti questa città – Bianchi faceva rilevare che «nove volte su dieci l’oltraggio all’ambiente, alla natura e alle nostre città, è provocato dal superfluo, più che da una necessità primaria e ineludibile. Si potrebbe un po’ semplicisticamente dire che “l’inutile è nemico della bellezza e che è il superfluo, purché redditizio, a spingere avanti i mostri”, dietro “il grasso che cola” stanno in agguato i capitali in cerca di impiego». E allora hanno un significato tutto particolare le parole che qualche decennio fa pronunciò un consigliere comunale lecchese e cioè che «Lecco ha la sfortuna di avere il lago da una parte e le montagne dall’altra e quindi non può crescere». Per le quali, la chiosa di Bianchi è la seguente: «La storia più recente dimostra che soprattutto nei centri minori sono stati possibili e si sono realizzati (perché si sono voluti) interventi di avanguardia».
Però ci sono anche gli ottimisti. Che invece credono si possa ancora metter mano al groviglio di cemento della nostra terra, alla possibilità di giocarsela un’altra volta. C’erano, almeno. Tra questi Bruno Bianchi, architetto lecchese dalla grande passione civile, morto nel 2012 all’età di 86 anni. Senza riuscire a vedere la mostra alla quale stava lavorando e che il Comune di Lecco allestì poi in sua memoria nella primavera del 2013. Mostra della quale ci resta “Lecco. Atlante di emozioni”, una sorta di catalogo preparato dallo stesso architetto e pubblicato dall’Editoria Grafica Colombo.
Non si tratta in verità di un saggio urbanistico compiuto. Raccoglie infatti brevi riflessioni scritte in periodi differenti, ma comunque negli ultimi anni della sua vita. Pagine dalle quali traspaiono da un lato lo slancio che Bianchi ancora aveva per questa città e dall’altro la convinzione che non tutto fosse perduto. E quindi che, passati dieci anni da quella mostra, tutto non sia ancora perduto per una città dalla conformazione del tutto particolare nonché straordinaria e impagabile, compresa tra il lago e una cerchia di montagne imponenti e vertiginose che ne determinano aspetto e destino.«La chiusura delle montagne – scriveva Bianchi - questo “recinto” come lo chiamava la Elena (la figlia, ndr), cercando con gli occhi azzurri un po’ irati una apertura, una breccia attraverso la quale si potesse scorgere il mare, questa chiusura quasi completa benché articolata e dal profilo estremamente volubile, casuale per noi ignoranti ma piena di logica per i geologi, costituisce la vera costante del paesaggio lecchese, tanto importante e perentoria da costringerci a sorvolare i tetti delle case per seguire con l’occhio, come i bambini col dito sul sillabario, il profilo arcinoto del Resegone e quello meno celebrato ma più misterioso del San Martino: grandi masse di dolomia e calcare, sempre per i geologi. Ci ritroviamo ancora prigionieri delle manzoniane “due catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno…” Sfondo di tante volonterose e monotone cartoline. (…) Perfino il ponte visconteo, onnipresente nelle vedute da Pescate o da San Michele, più che scavalcare il fiume con le sue zoppicanti falcate ineguali, sembra collegare le due catene di monti e chiudere l’unico varco in quel “recinto” dal quale i sogni vorrebbero fuggire».Del resto, non bisogna accontentarsi di guardarla. Occorre anche ascoltarla, una città, riconoscerne il suono: «Forse è lecito ai tre pilastri dell’urbanesimo aggiungerne un quarto. Quello della musica: è certo che tutto cambia con un suono, prende un altro valore e impercettibilmente ci trasporta in un altrove più cordiale e carico di poesia. Anche la nostra, pur ferocemente criticata, può allora diventare una “città che si ascolta come un verso” e un suono o una voce amica che ci chiama da lontano fanno capire che non siamo mai soli. La notte di Natale del 1904 la conca di Lecco, i rioni, le valli e il lago cambiarono dimensione: un suono nuovo li aveva fatti nascere una seconda volta. Le nove campane di S. Nicolò, suonano “a concerto” e inventano di nuovo il paese. Un suono mai sentito prima aveva costruito uno spazio non solo musicale: Laorca. Germanedo, Chiuso, Malgrate, il lago e il recinto delle montagne, da quella notte magica sono avvolti in questo liquido sonoro, ormai componente ineludibile della loro atmosfera».
Che poi, anche ascoltare non basterebbe: «Abbiamo forse bisogno di osservare la nostra città: amata e tradita, cantata e criticata, oggetto frequente di nostalgia; osservarla senza accontentarci di vederla; guardarla con il “terzo occhio”, quello del cuore che dà la capacità di stupirci di fronte al quotidiano. Sempre guardando in alto e saltando le vetrine di biancheria del piano terreno, corso Martiri squaderna un campionario di facciate sapienti e accurate anche se spesso travolte dalle cattive compagnie. (…) Le scoperte non mancheranno una volta assunto uno stato d’animo d’attenzione, di curiosità oziosa, di piacere per la scoperta. (…) Le tracce dell’Arte a Lecco fortunatamente non sono concentrate nei musei e quindi non possono essere riservate a un momento e a dei luoghi speciali. Tutte le comunità, da Laorca a Chiuso, portano i segni del valore che ognuna di esse attribuiva al proprio luogo e al manufatto più significativo, la chiesa, luogo di fede e di identificazione della comunità stessa, ancorché piccolissima. (…) Segnale di affermazione della presenza di questa comunità e del suo riconoscersi e distinguersi, del suo dare un senso alla famiglia allargata che è il paese». E dopo alcune riflessioni generali sul “pensare” una città e uno spazio urbano, Bianchi continua: «Il cuore attivo di Lecco non penso sia concentrato nei bar di piazza XX Settembre o nella semidefunta piazza Garibaldi, ma piuttosto in quel grande spazio compreso tra viale Valsugana, via Achille Grandi, corso Promessi Sposi e via Ghislanzoni, dove c’è una presenza intensissima di attività produttive; dalle aziende con due addetti a quelle più consistenti: quante sono queste imprese? Censiamole e andiamo a vedere come riescono a operare e a muoversi in un tessuto cresciuto spontaneamente».
Su questo fronte, nel 2008 annotava: «Un luogo comune, frutto di scarsa attenzione ai vari mutamenti, assegnava alla nostra città un ruolo vagamente terziario, quasi dando per scontata la fine dell’attività produttiva, come se il citato terziario (talvolta gratificato col titolo di “avanzato”) potesse svilupparsi per moto proprio, come per partenogenesi, senza il terreno di coltura del lavoro: si può terziarizzare il nulla? Le cose a Lecco stanno andando, per fortuna, ben diversamente. La voglia di impresa, la capacità di lavorare e l’orgoglio di “far lavorare” cercano di restituire a Lecco e al suo territorio il ruolo che li caratterizzava fino a pochi decenni fa. La scomparsa di gran parte delle grandi realtà produttive (…) ha fatto pensare che accanto a queste realtà dovesse scomparire anche quel tessuto produttivo fitto e diffuso che dopo tutto era sempre stato il supporto indispensabile di quelle realtà maggiori e ne era al contempo la filiazione». Nel suo atlante emozionale, l’architetto lecchese ci lascia qualche suggerimento. Per esempio a proposito di quel porticciolo che periodicamente, almeno da mezzo secolo ma forse di più, torna alla ribalta: «Lecco: città di lago. La carenza di posti barca è un problema a livello provinciale che interessa la sponda del nostro lago fino a Colico; non essendo dunque un problema esclusivamente lecchese è inutile incancrenirsi a ficcare dei posti barca là dove manca materialmente lo spazio, col risultato non già di creare un servizio, bensì di aggiungere alle Caviate e alla città problemi già esistenti». Più avanti: «Si dia al problema della navigazione lacuale la sua dimensione giusta invece di incancrenirsi a parlare solo di Lecco dove esistono i limiti e le incompatibilità che tutti sappiamo: da Lecco a Novate Mezzola ci sono più di quaranta chilometri di costa.»
Tra le altre proposte, quella di piantare alberi sulle rotatorie e nei parcheggi: «Solamente negli spazi delle rotonde e in altri ritagli si può ipotizzare la piantumazione di qualche centinaio di alberi, con un programma totalmente a carico di enti e associazioni private. L’albero della rotonda assume anche un valore segnaletico e di orientamento. Alberi nei parcheggi: è possibile pianarne uno ogni quattro macchine».E come non cogliere l’attualità di una considerazione, ora che siamo alle prese con i lavori per il cosiddetto quarto ponte tra Pescate e il Bione. Quale occasione migliore per dare finalmente un’identità a una zona periferica ma che in realtà è l’autentica porta d’ingresso alla città: «Si arriva a Lecco attraversando uno spazio degradato, usufruendo di strutture viarie efficienti e indispensabili e viene spontanea una riflessione: ma qui i lavori non sono finiti! Un progetto che preveda la creazione di una nuova immagine ottenuta sia con la natura che con i colori dei manufatti che distinguano ed evidenzino le varie direzioni. E’ certamente possibile trasformare questo insieme di svincoli in un luogo gradevole: un vero ingresso alla città. Ma non è compito dell’Anas? Può darsi, ma la città è nostra e il degrado ce lo godiamo noi e chiunque esce ed entra a Lecco.»
A proposito di un altro ponte, quello Vecchio, l’auspicio di Bianchi sembra diventato realtà visto che parlava della necessità di restaurare il Ponte visconteo restituendogli «la sua funzione di passaggio pedonale e ciclabile, al massimo un senso unico per i veicoli». Che è quanto ha fatto l’attuale giunta comunale attirandosi non poche critiche e contumelie. Ma c’è di più. Che dire infatti dell’invito a riappropriarsi «delle sponde dei tre torrenti, che sono all’origine fisica del suolo da cui è nato l’abitato di Lecco. Gerenzone, Caldone e Bione sono le tre spine verdi che collegano la città alla montagna, Nonostante le manomissioni, le coperture incongrue e gli oltraggi di vario genere: esiste una loro forte potenzialità a livello di natura (vegetazione e acqua), di possibili percorsi pedonali e di interruzione del costruito: una pausa attiva accompagnata dal suono dell’acqua»? Anche di questo si è parlato nei mesi scorsi a proposito di quello che è stato definito il masterplan per una città ecologica.
Infine, l’installazione di pale eoliche sul Ponte Nuovo così che breva e tivano possano tornare ad avere l’importanza che avevano quando sospingevano i comballi.
In quanto agli oltraggi – e tanti ne ha subiti questa città – Bianchi faceva rilevare che «nove volte su dieci l’oltraggio all’ambiente, alla natura e alle nostre città, è provocato dal superfluo, più che da una necessità primaria e ineludibile. Si potrebbe un po’ semplicisticamente dire che “l’inutile è nemico della bellezza e che è il superfluo, purché redditizio, a spingere avanti i mostri”, dietro “il grasso che cola” stanno in agguato i capitali in cerca di impiego». E allora hanno un significato tutto particolare le parole che qualche decennio fa pronunciò un consigliere comunale lecchese e cioè che «Lecco ha la sfortuna di avere il lago da una parte e le montagne dall’altra e quindi non può crescere». Per le quali, la chiosa di Bianchi è la seguente: «La storia più recente dimostra che soprattutto nei centri minori sono stati possibili e si sono realizzati (perché si sono voluti) interventi di avanguardia».
Dario Cercek