SCAFFALE LECCHESE/220: un'immersione alla scoperta del "ferro" della Valsassina

Di miniere si è già parlato a proposito dei Piani Resinelli. Dove una parte della miniera “Anna” da vent’anni circa è aperta alle visite del pubblico. Mi si tratta solo di una delle tantissime un tempo scavate nelle viscere delle montagne lecchesi. Le attività estrattive interessavano infatti l’intera Valsassina, rappresentando per secoli la principale risorsa economica. Che, a pensarci oggi, pare impossibile. Del resto, soltanto negli ultimi vent’anni la “memoria mineraria” è stata risvegliata, dopo un lungo oblio.
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Nonostante l’ultimo colpo di piccone – diciamo così – non fosse poi così lontano, risalendo agli anni Cinquanta del Novecento. Parliamo naturalmente di minerali ferrosi. La cui estrazione spiega molto della nostra storia, della sua “vocazione metallurgica” e degli sviluppi della nostra industria. Appartengono invece a un altro “filone” storico e minerario, la miniera di barite a Cortabbio, avviata nell’Ottocento e attiva fino al 2012, ora aperta alle visite turistiche, ma anche la miniera di feldspato in Valvarrone, nata nei primi anni del Novecento e ancora operativa. la cui storia è documentata da un piccolo museo inaugurato a Tremenico nel 2020.
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A rispolverare le pagine di una vera e propria epopea era stato, mezzo secolo fa, Pietro Pensa, nel quale ci siamo già imbattuti (per esempio parlando di un breve romanzo che è un piccolo cameo come “La strada del viandante” oppure delle ricerche storiche su Lario e Adda). 

Nel 1976, Pensa pubblicava sulla “Rivista archeologica dell’antica Provincia e Diocesi di Como” uno studio, che la Comunità montana valsassinese avrebbe poi pubblicato in un fascicolo a parte, dedicato alla “Presenza militare dei Galli e dei Romani nel territorio orientale del Lario a guardia delle strade e delle miniere del ferro” e nel quale, tra le altre cose, si legge: «Si dovrebbe concludere che le miniere del Varrone fossero sfruttate dai Romani durante il II secolo avanti Cristo e durante parte del I. (…) Non è, poi, da escludere che i Romani avessero già trovato in atto quell’arte: i Galli, infatti, ben conoscevano la siderurgia; le miniere dell’Alto Varrone si aprono tutte verso la strada, da loro militarmente guardata, tra il passo della Croce dei Tre e la bocchetta di Trona; non difficile, quindi, poté essere stato da parte loro il rinvenimento della vena». 
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L’anno successivo, lo stesso Pietro Pensa curava un volumetto iconografico, pubblicato ancora dalla Comunità montana: “Il ferro della Valsassina e del Lecchese” che è una sorta di compendio storico sulla ricerca mineraria e la lavorazione del ferro nella nostra terra, partendo dall’antica leggenda secondo cui «i Romani facessero cavare la “vena” in Varrone da colonia di Insubri confinate a Premana dopo la sconfitta» per arrivare appunto alla Lecco industriale, «città del ferro per eccellenza» dove «si contano a decine e a decine aziende di ogni dimensioni: acciaierie, fucine, trafilerie, fabbriche di grossa carpenteria, di reti metalliche, di latte, scatolofici, minuterie, aghifici». In quel 1977, il paesaggio lecchese era ancora così
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E quando negli anni Novanta, venne ideata la “Dorsale orobica lecchese” (Dol), un sentiero escursionistico e storico che va dal Legnone a Bergamo, uno dei principali ideatori di quel progetto, il giornalista lecchese Angelo Sala, indicò due possibili “interpretazioni” del tragitto: da una parte i “Sentieri del latte” e cioè un itinerario alla scoperta dell’attività casearia valsassinese (della quale abbiamo parlato anche QUI) e dall’altra i “Sentieri del ferro” appunto per riscoprire i luoghi in cui fin dall’antichità si estraeva il ferro. 
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Proprio nella guida della Dol pubblicata nel 2000 dalla Comunità montana leggiamo «Per secoli, ma soprattutto tra il XVI e il XVIII secolo, le attività legate alla siderurgia interessarono gran parte della popolazione. Direttamente vi erano coinvolti i “fraini” che lavoravano a cottimo estraendo minerale anche in pieno inverno e ad altitudini vicine ai 2000 metri; poi vi erano gli addetti ai forni e alle fucine; poi vi erano i boscaioli e i carbonai quindi quanti erano impegnati nelle attività minori» e quando «il sistema minerario crollò sotto i colpi della concorrenza estera, sopravvisse l’arte della lavorazione del ferro che, nel volgere di pochi decenni, lasciò i caratteri artigianali per assumere quelli industriali».

Nel 2015, infine, è uscito lo studio più approfondito sulla storia mineraria valsassinese. Dal titolo un po’ dostoevskiano, “Memorie dal sottosuolo”, il libro è stato pubblicato dall’editore missagliese Bellavite nell’ambito di un progetto editoriale promosso ancora dalla Comunità montana e coordinato proprio da Angelo Sala assieme a Giacomo Camozzini. Autori dello studio, lo storico e archeologo Marco Tizzoni e i geologi Pierfranco Invernizzi e Matteo Lambrugo.
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La maggior parte delle miniere di ferro – leggiamo - vennero aperte e coltivate in alta Valvarrone, in Val Biandino, in Val Marcia e in alta Valsassina sul versante meridionale del Monte Muggio. Poi, i Piani d’Erna e appunto i Resinelli. 

Un inventario esaustivo delle miniere scavate nel corso del tempo, da qualche parte forse esiste anche, ma sarebbe comunque consultazione tediosa per il lettore comune: la mappa comprenderebbe poche gallerie penetrabili e magari solo per pochi metri, qualche altra crollata, molte del tutto perdute. Tenendo conto che in qualche caso si è anche scavato per poco tempo, abbandonando l’impresa vuoi perché appurata le scarse quantità o qualità del materiale da estrarre, vuoi per incidenti di percorso e complesse vicende proprietarie. Vero è che l’intero territorio era punteggiato di miniere, individuate anche in punti del tutto impervi come quel paio di “grotte” in cui si imbatte a quota elevata l’escursionista che percorre quel sentiero da stambecchi che sale da Parlasco ai sovrastanti Pizzi e scavalla in Val d’Esino. L’attività estrattiva, inoltre, ridisegnava il paesaggio disseminandolo di forni, forge e fucine, appunto all’origine delle fortune industriali di questa terra.

L’origine si perde davvero nel tempo. Alcuni ritrovamenti archeologici suggeriscono per la Val Biandino perforazioni addirittura nel XII secolo avanti Cristo, mentre per Erna si parla del periodo tra III secolo avanti Cristo e il I dopo Cristo, in Valsassina nell’alto medioevo, per la Valvarrone c’è documentazione relativa al XIII secolo dell’era cristiana. 
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«Dopo i ritrovamenti di Erna non abbiamo notizie di attività minerarie/metallurgiche nell’area della Valsassina sino all’altro Medioevo», ma è dopo l’anno Mille che il panorama si fa più chiaro, in particolare per il periodo di passaggio tra feudalesimo e autonomie comunali: «Questa lotta per il possesso delle vene metallifere fu molto aspra, i comuni cercavano di sottrarre al feudatario i diritti sui beni che essi consideravano “pubblici”, ciò era dovuto al fatto che non era ancora stata attribuita allo stato la proprietà del sottosuolo»
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Ricordiamo che Valsassina e Lecchese erano feudi del vescovo di Milano: «Sulle miniere di metalli nobili, i feudatari vescovili tentarono ancora per qualche tempo di mantenere il controllo, anche perché essendo questi i metalli usati per battere moneta vi erano attaccati con tutti i mezzi, avevano tuttavia dovuto lasciare gli altri metalli a disposizione delle comunità locali. (…) Per questo motivo abbiamo un’investitura vescovile per quanto riguarda la miniera di piombo argentifero di Camisolo, mentre è un contratto tra privati quello che riguarda le miniere di ferro del Varrone». Il vescovado perse il potere sui metalli ferrosi tra il 1223 e il 1291. E’ in questa seconda data, per l’esattezza nel giorno 10 giugno, che «le miniere di ferro della Valvarrone che verranno sfruttate ininterrottamente fino all’Ottocento vengono menzionate per la prima volta in una pergamena, per la precisione un atto di vendita tra privati, redatta a Cosio in Valtellina. 

Nel corso dei secoli, gli sviluppi hanno registrato alti e bassi. L’epoca più florida sembra essere stata il Quattrocento, quando a Milano si registrava «il massimo fulgore della produzione di manufatti metallici». Sappiamo, tra le altre cose, che proprio in quel periodo Milano era rinomata in tutta Europa per la produzione di armi. E sono anche le miniere valsassinesi a fornire metallo per le botteghe milanesi.

Nel XVI secolo «in Valsassina si ha il progressivo concentrarsi nelle mani di poche famiglie. Tale fenomeno si compie entro la fine del ‘500 e non solo causò lotte sanguinose, ma determinò l’espulsione dall’agone minerario/metallurgico di alcune famiglie, ad esempio i Grattarola di Margno. Le famiglie vincitrici nel corso del tempo tenderanno ad inurbarsi e ad acquisire distinzione (ad esempio i Denti di Bellano, i Mornico o i Fondra).

Per esempio – scrive Tizzoni - «nel 1599 avviene un fatto per il quale sono stati letteralmente versati fiumi di inchiostro: Rocco Fondra, segretario del Magistrato Straordinario di Milano, per tutelare i suoi discendenti nei loro possessi minerari dalla rapacità degli altri, nel suo testamento devolve al Fisco la sua quota nelle miniere del Varrone». Ne seguì una vicenda giudiziaria che si trascinò fino al 1780 e che registrò anche un assassinio, quello di Tomaso Fondra nel primo scorcio del Seicento. «Alla base di ciò – osserva Tizzoni – vi è un unico dato di fatto: il minerale veniva estratto dalle miniere del Varrone senza alcun permesso di concessione e senza che al Fisco venisse versata una lira. Se ciò poteva essere lecito nel Medioevo, non lo era più ora che lo Stato cercava di riaffermare la sua proprietà sul sottosuolo. Viene spontaneo chiedersi come le autorità ambrosiano-spagnole non si fossero chieste prima d’ora donde giungesse il metallo per le palle da cannone che commissionavano a Cipriano Denti nelle sue fucine di Bellano».

Nella Lombardia “spagnola” del XVII secolo, «il disperato bisogno di denaro spinge il governo del Ducato a infeudare la valle a Giulio Monti nel 1647, malgrado l’opposizione degli abitanti. Pensare che fosse per un desiderio di libertà da parte di costoro è un’idea romantica, semmai erano sobillati in tal senso dalle solite famiglie dei maggiorenti locali che mal vedevano l’avvento di un’autorità a loro superiore. Non a caso tra i più accesi oppositori all’infeudazione vi era la famiglia Manzoni che spadroneggiava nella valle» e che «che fece la curiosa affermazione secondo la quale tale evento avrebbe causato l’esodo delle maestranze siderurgiche. I Manzoni (…) avevano un’economia differenziata nella quale vi erano anche attività siderurgiche» e «avevano creato nella valle un clima di vera e propria intimidazione nei confronti di chiunque possedesse dei beni che potevano a loro interessare. Tale sistema criminale implicava l’eliminazione fisica di chiunque fosse d’ostacolo alle loro mire, anche in seno alla famiglia stessa»

E comunque, «sono proprio i Monti ad emulare i fasti metallurgici dei loro precursori, a fare costruire nel 1651 l’ultimo grande altoforno della valle, quello del Ponte del Chiuso, a cui 5 anni più tardi venne aggiunta una fucina».

Le tecniche di estrazione mineraria non mostrano grandi cambiamenti dall’età del Bronzo alla fine del XVII secolo, quando nell’area alpina si diffuse l’uso degli esplosivi negli scavi minerari. Fino ad allora si era proceduto con martelli e scalpelli, tecnica «poco traumatica per le rocce» e pertanto «non è un caso se ancor oggi le miniere scavate senza l’uso di esplosivo siano molto meglio conservate dalle altre, pur essendo più antiche». La polvere da sparo, «deflagrando sviluppa molto gas e quindi pressione. Diffondendosi l’onda d’urto crea fratture e distacchi tra gli strati rocciosi (…) e potevano causare inaspettati crolli». Poi «a partire dalla seconda metà dell’800 i progressi introdotti nella meccanica e nella fabbricazione dei macchinari portarono alla realizzazione di messi meccanici per gli scavi minerari: si tratta dei così detti martelli perforatori o perforatrici».

La ricostruzione storica complessiva non può comunque essere precisa, per la ramificazione dei siti, il succedersi delle società, la distruzione di molti archivi «per ignoranza e disinteresse» scrive Invernizzi che allude «alla volontaria distruzione dell’archivio della Società Anonima Acciaierie e Ferriere del Caleotto di Lecco e di quelle dei competenti uffici pubblici a seguito di traslochi, “riordini” ecc.». 
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Per quanto «ancora nel 1950 furono fatti tentativi per sfruttare i minerali metallici della valle», il settore minerario in Valsassina era in crisi da oltre un secolo. Già nell’Ottocento era cominciato il declino anche se «vi furono però alcuni che continuavano a illudersi sulla presenza di ricchi giacimenti di minerali metallici non ferrosi nascosti nel sottosuolo valsassinese» che offrirono occasione anche a qualche avventuriere e all’immancabile truffatore. Per esempio «nel 1862 nasceva la società per azioni chiamata “La Virginia d’Italia” che aveva lo scopo di ottenere la concessione di tutte le miniere di minerali metallici non ferrosi presenti nella valle. Lo storico Gabriele Rosa, che fu coinvolto nella vicenda, ci narra nel 1863 come nacque l’impresa. (…) Tomaso Arrigoni d’Introbio già “scavatore di miniere in Piemonte” aveva scoperto un giacimento metallifero in Val Bona (Introbio) ma non ne fece nulla. Dopo la sua morte, il figlio Pietro portò un campione del minerale a un certo conte Kantarowic, un polacco che sfruttava un giacimento di piombo in Valle Agogna. Costui visitò il sito nel 1861 e lo giudicò favorevolmente, associatosi quindi al visconte francese Sequeville, fondò a Bergamo nel gennaio 1862 una società denominata appunto “La Virginia d’Italia”. (…) Ad essa parteciparono personaggi quali il Rosa, l’ingegnere/storico Giuseppe Arrigoni e alcuni membri della ricchissima colonia di industriali svizzeri impiantata a Bergamo. (…) In breve tempo la società aveva già accumulato le concessioni minerarie di circa quaranta giacimenti metalliferi nella valle, peccato però che, o erano luoghi assolutamente impervi, o il minerale era presente in quantità così esigue da non esserne conveniente l’estrazione. (…) Inutile dire che, mentre del sedicente conte polacco non sappiamo ancora nulla, il visconte francese non era un visconte, bensì un truffatore internazionale già incarcerato a Londra. (…) Una volta che conte e visconte ebbero spennato per bene i loro polli, nel 1870 la ditta era in liquidazione». ( “L’ultima truffa del visconte di Secqueville” è il titolo di uno studio curato da Marco Tizzoni e Marco Sampietro e pubblicato dalla rivista “Archivi Lecco” nel secondo numero del 2016).

«L’abbandono delle ricerche minerarie in Valsassina – conclude Invernizzi - fu determinata da varie ragioni che possono essere così riassunte: esaurimento dei giacimenti di minerali ferrosi; (…) i giacimenti valsassinesi sono di un’entità così trascurabile da renderne lo sfruttamento antieconomico, crollo delle richieste sul mercato di alcuni metalli (…); la forte riduzione dei costi di trasporto ha permesso l’immissione sul mercato di minerali provenienti da altri paesi a minor costo; “scomparsa” della professione del minatore; maggiori vincoli e requisiti riguardo la tutela ambientale; mutamento dell’economia della valle che si sta indirizzando verso altre risorse».
Dario Cercek
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