SCAFFALE LECCHESE/85: i tomi di Pietro Pensa sulle 'memorie' di Lario e Adda
La foto risale addirittura al 1917 e cristallizza una chiacchierata tra due vecchi contadini. Uno lo si distingue bene: ha la sua bella barba bianca e la pipa in bocca. L’altro purtroppo è un po’ nell’ombra, si perdono le sembianze del volto. Tutt’e due in camicia, gilet e cappello calcato sulla testa. Impressionata su una lastra crepatasi nel tempo, azzurrata per scelta editoriale, è una fotografia simbolica di un mondo che non c’è più. Ma i due non sono figuranti. Hanno identità precise: uno è Ambrogio Barindelli, classe 1868, e l’altro, quello un po’ più scuro, Giovanni Grassi, nato nel 1854, «uomo saggio che è stato anche sindaco». Entrambi di Esino. All’epoca della foto erano i «due informatori più cari» a Pietro Pensa che ancora portava i calzoni corti ma già raccoglieva le testimonianze di una civiltà al tramonto.
Di Pietro Pensa, nato nel 1906 e morto nel 1996, ingegnere e amministratore pubblico, ci siamo già occupati, parlando del romanzo “La strada del viandante”, e non torniamo quindi a tratteggiarne la biografia se non proprio per ricordare l’impegno di una vita nel recuperare la memoria di una terra e della sua gente, accumulando una grossa mole di materiale riversato poi in alcuni libri che ancora oggi costituiscono una risorsa straordinaria: “Noi gente del Lario” stampato nel 1981 dall’Editore Cairoli di Como su iniziativa della Comunità montana valsassinese e “L’Adda, il nostro fiume”, tre volumi usciti tra il 1990 e il 1997 per il Punto Stampa di Claudio Redaelli.
Pietro Pensa
«Il tempo in cui ferveva la vita che descrivo – premetteva Pensa a “Noi gente del Lario” - copre gli ultimi decenni del 1800 e i primi lustri del 1900. I villaggi, quelli montani soprattutto, incontravano allora una tremenda recessione, e vedevano schiere di emigranti partire per le Americhe. Finita con una pace discussa la prima guerra mondiale, i reduci, che erano venuti a contatto con altre realtà, frustrati dalle lunghe e vane tribolazioni nelle trincee, non vollero più accettare la miseria che avevano lasciato e cercarono affannosamente vie nuove. Si ebbe, così, una rottura con il passato: contestandolo, i giovani non credettero più nel mondo dei loro padri e lo rifiutarono; rifiutandolo, lo dimenticarono. Oggi chiederesti invano agli uomini di ottanta anni notizia sulla vita dei loro genitori, troveresti un vuoto. Diversamente fu per me. Nel 1918 frequentavo i primissimi corsi del ginnasio (…) ero felice quando potevo tornare al paese dei miei avi. Ogni piccola cosa di lassù mi interessava: chiedevo agli anziani sul presente e sul passato, e quelli erano lieti che ancora qualcuno, fosse pure un ragazzo, li ascoltasse. Mio padre, poi, durante l’estate, visitava i molti amici che aveva di qui e di là del lago, mi conduceva con sé, ed io guardavo, domandavo, annotavo. Arricchiti gli appunti di allora di tante notizie trovate nei diari di mio nonno, di mio padre e di loro amici, cerco di illustrare un folclore schietto (…) Documento i comuni ricordi».
Era l’epoca della pasoliniana “sparizione delle lucciole” uccise dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua (1975). L’epoca in cui il piemontese Nuto Revelli pubblicava “Il mondo dei vinti” (1977) a descrivere una condizione di stenti e di sofferenze che soltanto una successiva mitologia pubblicitaria avrebbe presentato come aurea. Eppure – ci dice Pensa – già allora gli “ultimi testimoni” se ne erano ormai andati: già allora, appunto, sarebbe stato vano chiedere a un ottantenne come avessero vissuto i genitori Troppo era stato ormai cancellato. Tra l’altro, mentre arrivavano nelle librerie i volumi di cui stiamo parlando, assistevamo già a un altro nuovo declino, quello del paesaggio industriale novecentesco, quello delle fabbriche dove erano andati a lavorare i contadini di quell’altra epoca precedente.
Come non è un caso, per esempio, che sia stato proprio il nostro autore, nel 1959 sindaco di Esino, a sistemare il Museo delle Grigne ideato una decina di anni prima dal parroco don Giovanni Battista Rocca: «Nel paese dove sono nato i fossili erano di casa: Antonio Stoppani, di cui mio nonno Pietro era amico, li cercava e li studiava; i Bertarini della casata Bartuela, che gli facevano da guida nei canaloni della Grigna, li estraevano dalla roccia per lui, e ne facevano anche commercio con i musei dell’Europa e dell’America; la gente comune se ne compiaceva perché rappresentavano un richiamo a turisti e scienziati nostrani e stranieri. Fu così che da ragazzetto me ne trovavo sempre qualcuno tra le mani».
Più complessa la genesi della “trilogia” dell’Adda., opera anche questa dedicata con amore ai giovani «perché conoscano l’Adda, l’amino e ne riportino le acque allo splendore di un tempo», ora «che preoccupa la triste condizione del territorio, tanto mutato dall’opera nostra nella vana illusione di portare avanti la civiltà».
In realtà, avrebbe dovuto essere un solo volume, quello appunto del 1990. Che infatti non è contrassegnato da un numero e ha un sommario esaustivo. I volumi successivi – editi nel 1992 e nel 1997 - ampliano i temi già trattati e sono probabilmente frutto di un rincrescimento per avere dovuto accantonare molti documenti. Tra l’altro, Pensa non poté vedere il compimento dell’opera: moriva infatti nel 1996, mentre era in fase di preparazione il terzo volume che infatti sarebbe uscito con un ricordo dell’autore da parte del figlio Carlo Maria. A completare la redazione fu quindi il giornalista Angelo Sala che già dal secondo volume aveva collaborato con Pensa nel riordinare il materiale.
Del resto, aveva confessato Pensa: «quando, ora che son vecchio, mi soffermo a fare una sintesi del mio passato mi rendo conto che l’Adda è stato il filo conduttore della mia vita».
Restituendoci l’immagine di un mondo scomparso, Pensa non nasconde una vena di tristezza: «Se brutta diventa la natura quando l’uomo l’avvilisce col cemento, altrettanto spiacevole si fa quando l’abbandona e la lascia alla sua disordinata vitalità. Soprattutto, però, mi ha reso malinconico la grande solitudine delle valli: ho camminato per ore senza incontrare anima viva, là dove un tempo era fervida la presenza dell’uomo, vuoi che fosse il richiamo di un capraio, o il tintinnio delle mandrie troppo affollate, o il batter su un tronco dell’accetta del boscaiolo».
Ma la speranza è proprio che la sua opera serva ai giovani, come afferma a proposito dell’Adda: «Da quegli scritti – ora che preoccupa la triste condizione del territorio, tanto mutato dall’opera nostra nella vana illusione di portare avanti la civiltà – ho tratto un riassunto che con amore dedico ai giovani perché conoscano l’Adda, l’amino e ne riportino le acque allo splendore di un tempo».
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Dario Cercek