SCAFFALE LECCHESE/210: la guida del lago di Como di Antonio Balbiani

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Del bellanese Antonio Balbiani (1838-1889) questa rubrica si è già occupata a proposito del bandito Lasco o dei figli di Renzo e Lucia , due dei libri, tra i tanti che scrisse, per i quali viene maggiormente ricordato. Ma c’è un’altra opera di particolare interesse: nonostante sia una guida turistica e pertanto sconti il trascorrere del tempo e il mutare dei luoghi, è ancora lettura straordinariamente accattivante. Tra l’altro, va riconosciuto come fosse una guida accuratissima e di una completezza fuori dal comune. 
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Stiamo parlando di “Como. Il suo lago, le sue valli, le sue ville” pubblicata dall’editore milanese Francesco Pagnoni nel 1877, ristampata un secolo dopo in più di una edizione anastatica. 

«Ella è cotesta una passeggiata simpatica – scrive lo stesso autore nella prefazione -, a cui s’invita il pubblico dalle quattro mura della città ai piani azzurri del più bel lago d’Italia; sotto un cielo che rivaleggia di sereno a quello di Nizza; a sponde dove lo zefiro profumato scherza tra le frondi di eterno verde dell’alloro e dell’olivo; ai villaggi che l’onda baciano, ai paeselli vagamente sparsi sul pendio della montagna; alla vetta aerea del più alto dei monti lombardi» e avanti ancora per molte righe con questa sorta di racconto poetico. 
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La descrizione è relativa al solo territorio strettamente lariano. Niente Brianza e “appendici”, dunque. Anche se Balbiani si concede uno sconfinamento nel Canton Ticino e non soltanto per le valli lariane che scavallano il crinale e scendono poi verso il lago di Lugano. L’itinerario ci conduce infatti fino a Locarno e a Bellinzona: «Chi lasciando ai “touristes” di cavarsi il costoso capriccio di visitare tutta la Svizzera in lungo e in largo, s’accontenta solo d’una gita fin nel Canton Ticino, dove il suono di nostra cara favella ci avverte di avervi dei buoni, bravi e liberi fratelli, meco venga». 

Va detto, inoltre, che delle circa 360 pagine, soltanto una quarantina è dedicata all’area lecchese, Ciò sorprende solo in parte. Vero che Balbiani è nato e morto a Bellano, ma è altrettanto vero che ha vissuto più tra Milano e la Tremezzina, animando in quest’ultima terra giornali e attività culturali. Senza dimenticare che è pur sempre la sponda comasca quella dalla maggior tradizione turistica: nell’Ottocento in cui scriveva Balbiani vi fiorivano i grandi alberghi quale tappa dei quel grand tour ancora praticato dai colti e ricchi stranieri. Tutto un movimento praticamente sconosciuto su quest’altra parte del Lario, frequentata ancora sporadicamente dai viaggiatori. 
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Non a caso, è raccontato dettagliatamente e con uno stile seducente il tragitto tra Milano e Como: «Chi, una volta, faceva il baule per recarsi da Milano a Como vedeva i suoi di casa rattristarsi, come se oggi si trattasse di andar a far una gita a Roma od a Napoli; e l’affezione non aveva tutti i torti, perché senza il pericolo di qualche masnada d’assassini c’era certo quello di un tedioso viaggio, che metteva a soqquadro i visceri». E uscendo dalla milanese Porta Comasina, impiega, tra digressioni e tappe lungo il percorso, una decina di pagine per arrivare al colle comasco del Baradello. Per il tragitto da Milano a Lecco sono invece sufficienti sei righe sei.

E dunque, parlando del Lario comasco, Balbiani si sofferma su molti aspetti anche della vita quotidiana: sulla pesca, per esempio, o sul “mistero” delle origini dell’anguilla: «Se mai imbattete in qualche pescatore, e impegnate discorso con lui sulle diverse qualità dei pesci, subito vi conterà meraviglie dell’anguilla che, secondo lui, nessuno sa come nasca, e vi farà credere che viene generata da altri pesci, assicurandovi che vi sono anguille nate della trota, dall’arborella, ecc.». 

Poi, leggende come La Buona Ghita o la Vergine di Torno. E la poesia sulle cipolle di Brunate o la novella di Antonio Picozzi, scrittore dialettale milanese e patriota risorgimentale ormai praticamente dimenticato. Ed escursioni e descrizioni altrui.

Si è parlato di guida accurata e completa. Dettagliate le informazioni pratiche: le tariffe della navigazione, quelle delle carrozze svizzere o dei treni da Milano, le distanze chilometriche tra i vari Comuni in riva al lago e naturalmente gli alberghi nei quali soggiornare e le trattorie in cui rifocillarsi. Non solo: Balbiani riporta, a volte in maniera quasi certosina e altre più sbrigativamente, l’elenco delle fabbriche (seterie, tintorie, officine meccaniche, fonderie…), dei negozi (dalle mercerie alle ferramenta, dai vetrai alle rivendite di sapone, di legname, di granaglie…), degli spedizionari, degli sportelli bancari, delle farmacie, degli osti e dei pasticcieri, dei sarti e dei parrucchieri. E sono nomi che, a noi lettori d’oggi, in alcuni casi dicono poco e in altri invece evocano epopee perdute, incuriosiscono e alimentano l’immaginazione. Vedi un po’, per Lecco, i fabbricatori di cera Bertarelli e Corti, Stoppani Giuseppe e Luigi fratelli. O i droghieri Gattinoni Stefano, Gilardi Tomaso, Morlini Antonio, Redaelli Oscarre, Stoppani Pietro, Valsecchi Fortunato…

Si passa poi ai cenni storici e ai luoghi da visitare e naturalmente il ricordo dei “figli illustri”, andando ben oltre le celebrità assolute per citare personalità oggi ormai cadute nell’oblio e non sappiamo quanto già lo fossero nel 1877.

Per esempio, a proposito della città di Lecco, accanto al sacerdote e geologo Antonio Stoppani e all’architetto Giuseppe Bovara, il nostro Balbiani elenca «Girolamo Longo, creato cardinale nel 1388. (…) Leon Crucejo, che visse nel XIV secolo e investigò le antiche vicende di Milano e del suo contado». E poi quel medico Francesco Gerosa di cui abbiamo parlato a proposito di uno studio di Franco Minonzio

E ancora il pittore Carlo Crespi detto il Crespino, il tipografo Girolamo Pencio trasferitosi a Venezia (di lui ci ha parlato nel 1988 Aroldo Benini nel suo “catalogo” degli stampatori lecchesi tra XV e XVI secolo) e Girolamo Morone che in realtà è un milanese morto a Firenze e nel 1513 nominato conte di Lecco.

Parlando di Barzio ci offre un notevole ritratto della poetessa Francesca Manzoni, oltre a ricordare Giovenale Sacchi, «dottissimo nella musica teoretica», Giacomo Sacchi «medico-chirurgo» e il fratello Battista «capitano d’artiglieria». Per Bellano, dopo una lunga dissertazione dedicata a Sigismondo Boldoni, si cita naturalmente Tommaso Grossi ma anche il sacerdote Giuseppe Vitali «scrittore purgato e gentile, già fondatore dell’ “Amico cattolico” in Milano». E poi le grandi famiglie, tra Lario e Valsassina: i Lorla, i Torriani, gli Spazzadeschi, i Mornico, gli Arrigoni e i Fondra…
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Come già detto, il capitolo lecchese è, per quanto esauriente, abbastanza scarno rispetto alla parte comasca del Lario. La stessa storia di Lecco è liquidata in un paio di avvenimenti. «Lecco, il cui commercio prosperava fin sotto il dominio de’ Carolingi, che fin d’allora aveva il suo mercato, ora il primo di Lombardia, fiorente e frequentato; Lecco, dico, sazio del giogo milanese, inalberava di nuovo lo stendardo della rivolta; ma un esercito milanese accorreva prontamente a combatterlo, e preso il dì 7 maggio 1272, veniva raso dalle fondamenta. Ora è diventato città e sottoprefettura con 7040 abitanti, e da per tutto fabbriche, alberghi nuovi, nuovi fondachi, un commercio vivo ogni giorno, ma più nei ricchi mercati del sabato. Qua un ospedale, qui in teatro elegante; qui riformata l’unica chiesa parrocchiale. Non è maniera d’arte o negozio cui non si volgano i destri lecchesi, ed il viaggiatore visiterà la bella manifattura de’ cotoni ed alcuno dei moltissimi setifizj, ove troverà nuovi incannatoi e addoppiatoi della seta, qui inventati a gran risparmio di tempo e di mani». 

In quanto al resto, due cenni al ponte Visconti e qualche riga ai “luoghi manzoniani”: il paesello di Lucia don Abbondio indicato ad Acquate, il convento di Pescarenico, il castello di don Rodrigo collocato a Pomerio e non allo Zucco di Olate, il castello dell’Innominato e la villa di Alessandro Manzoni al Caleotto. Dulcis in fundo, «a Barco acquistan nome le acque salino-solforose». E naturalmente il paesaggio, in grado di recar diletto «a chiunque si piace della poesia delle situazioni»: il Resegone, il monte Barro e i Corni di Canzo, mentre «all’ingiù si spinge l’Adda, che stagnando nei laghetti di Moggio e di Olginate (…) ripiglia poi corso fra le colline arenarie della Brianza, e porta le sue acque alla pingue Milano per canali navigli di Paderno e della Martesana; stupendi lavori, coi quali la Lombardia precedette di tanto tempo i canali di Linguadoca e Bridgevater.»

Balbiani ci accompagna poi lungo la Valsassina, «interessante per la storia naturale» e dove «la maggior parte degli abitanti è occupata a lavorare il ferro nelle fucine ed a far carbone, ed il minor numero traggono il vitto dai prodotti dei bestiami. Alcuni vanno a Venezia ad esercitar le arti del fabbro-ferrajo e di calderajo, altri a scavar miniere od a far lavori da mina negli stradali, alle quali arti sono riputatissimi» E poi, lungo il corso del Pioverna con il Paradiso dei cani alla cascata della Troggia di Introbio e il racconto della tragedia di Gero e Barcone, i due paesi sepolti dalla frana del 1762. E il lago: Olcio con lo scisto nero, il Fiumelatte, la Fonte Uga, l’Orrido di Bellano e sull’altra sponda i paesi teatro del “Marco Visconti” di Tommaso Grossi. Fino alla Valtellina e alla Valchiavenna, guardando al futuro: «Se presto lungo il lago avremo una strada ferrata che s’interni a Chiavenna, e di lì valichi lo Spluga, sarà l’Italia fornita del più breve tragitto dai porti di Venezia e di Genova al lago di Costanza.» Segno che, pur non essendoci ancora il collegamento ferroviario tra Lecco e Colico e oltre (sarebbe arrivato anni dopo) già si sognava il traforo dello Spluga che anche nella seconda parte del Novecento avrebbe avuto un’effimera ribalta.
Dario Cercek
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