SCAFFALE LECCHESE/155: la 'magia trasformatrice' nel trattato del medico Francesco Gerosa

Melissa, menta, maggiorana, finocchio: sono solo alcuni dei tanti ingredienti della “quint’essenza contro gli humori malinconici”, da miscelare alla quint’essenza di “vino perfettissimo” e al “Giuleppe” e cioè uno sciroppo «fatto con acqua di Fumoterra e di boragini e il tutto si lascerà per giorni quindici in una bozza ben chiusa, che non respiri». Ci sono poi la quint’essenza per la memoria e quella sonnifera.
Si sarà capito trattarsi di ricette alchemiche. A presentarle, un medico lecchese di un bel po’ di tempo fa. E cioè Francesco Gerosa, nato nel 1542 e morto chissà quando, non prima comunque del 1611, anno in cui diede alle stampe la seconda edizione del volume “La magia trasformatrice dell’huomo a miglior stato” che aveva pubblicato una prima volta tre anni prima, in entrambi i casi con la tipografia del bergamasco Comino Ventura, considerato uno dei più importanti stampatori lombardi dell’epoca.
A cavare dalle nebbie del tempo questo personaggio lecchese dimenticato è stato, ormai una trentina di anni fa, Franco Minonzio, all’epoca docente e oggi anche libraio ed editore. Nel 1994, curò per la “New Press” di Como, un’edizione moderna della “Magia trasformatrice” corredandola di un’introduzione che ci offre un ritratto di Francesco Gerosa, della cui vita peraltro molto è ancora in ombra.
Va detto subito che è lettura ardua, materia per studiosi e cultori della materia ben attrezzati. Anche se il curatore ci fornisce elementi utili alla comprensione e alla collocazione temporale e culturale del testo, è indubbio che non si tratti di un’opera da diletto.



“La magia trasformatrice è un «dialogo in volgare – spiega Minonzio – di magia naturale, un sapere che potremmo definire come la conoscenza dei modi nei quali realizzare effetti che trascendono l’umana comprensione, avvalendosi di forze naturali occulte, ma senza far ricorso al soprannaturale. Dietro le spalle di Gerosa un secolo, il Cinquecento, opportunamente definito come il secolo del dialogo». Con molti precedenti e punti di riferimento illustri. Da parte sua, Gerosa, però «guarda indietro non avanti, è cultura che arretra non cultura che avanza».
Personaggio centrale dell’opera è Giocondo (che rappresenta l’autore) sul punto di avviarsi a una serie di confidenze con un certo Chimisimplio: «Poiché adesso a noi fa ritorno la dilettevole Primavera de soavissimi fiori, e di verdeggianti herbette madre molto riguardevole, anch’io per conformarmi al corso della natura, voglio seco rallegrarmi, e narrarvi cose di non poco contento, Chimisimplio mio».
Senonché i due si vedono venire incontro «un uomo molto afflitto». E’ Tristano che così saluta e si presenta: «Pace a voi, saggio Giocondo, della Natura sagace Investigatore, e Protettor fedele de’ miseri mortali, pregovi che mi vogliate porgere l’aiuto possible poiché mi trovo in sì confuso labirinto dell’humane miserie, che quasi del tutto ho già disperso l’uscita: la brama de la pristina sanità e d’una lunga, e sana vita, m’ha condotto avanti di voi, unica speranza per la corporal salute mia».
Originario di Napoli, Tristano «ha abbandonato la patria – riassume Minonzio – e dimora da sette mesi tra quei monti: ingannato da un alchimista, alla ricerca di un metodo per la produzione dell’oro, ha dissipato quasi tutte le sue sostanze. Lo esclude dai contatti umani la vergogna, che sarebbe ancor maggiore, se egli lasciasse trasparire la nobiltà della sua condizione originaria: solo conforto è la lettura di libri di filosofia, medicina e teologia».
L’incontro alimenta dunque ragionamenti complessi e riflessioni filosofiche guidate da Giocondo il quale cerca di coniugare magia e pensiero cristiano, mentre Chimisimplio «è solo un nomen fictum la cui introduzione è finalizzata allo scopo di presentare ricette di quintessenze e lunghi elenchi di ingredienti».



Da parte sua, Minonzio sottolinea che Gerosa era sì lettore curioso «ma – l’inaccuratezza delle citazioni lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio – scarsamente dotato di sensibilità filosofica: tuttavia non so se sia il caso di rimproverarlo di avere male e poco rigorosamente citato gli autori cui si ispira, quando questo vizio è largamente condiviso dalla maggior parte di quanti in seguito hanno scritto di lui (con l’aggravante di una fortemente improbabile lettura). A suo merito forse il fatto che, se crede – come crede – nella “diabolica vessatione”, Gerosa tuttavia ha la lucidità di sostenere la distinzione tra la fede in Dio e la cura delle malattie, anche se rivendica la superiorità della prima sulla seconda. Niente da fare in lui con l’impiego di versetti della Bibbia in medicina o pratiche finalizzate a superar varie patologie con gli esorcismi».
Prima di lasciare a più arditi lettori l’avventura d’addentrarsi nelle pagine della “Magia” e approfondirne i contenuti, gettiamo un ultimo sguardo ad alcuni passi “lecchesi”, all’immancabile elogio per il paesaggio affidato alle parole di Tristano: «Questo paese è tanto bello e tanto diletevole, che per artificio de la Natura, e non de l’Arte pare sia fatto». L’occhio spazia sulle montagne, sulle pendici coperte di viti che danno vini squisiti, delicati e preziosi. E poi, su ulivi, mandorli, ciliegi. E su corsi d’acqua e sul lago d’acque chiarissime. Infine le miniere, gli allevamenti, i commerci, la ricchezza «Queste cose, dico, pare che le habbia date il Supremo Donatore a questo paese, accompagnato da un Ciel sì dolce, e proprio, per farvi verdeggiare una continua Primavera, la quale sgombra i ghiacci, e le nevi, e rasserena la mente sì nebulosa, e nera. Il che non poca contentezza apporta. Credo che quando la Natura formò questi luoghi, havesse animo di dimostrare un picciol schizzo de l’opre sue il gran valore».
E’ la terra dove Francesco Gerosa ha scelto di tornare a vivere – fa dire a Giocondo – dopo che «nella mia gioventù sono andato per lo mondo peregrinando, per veder diversi paesi, e varij costumi di genti, e per intender le cose che appaiono beneficio all’huomo».



Ed è appunto sulla vita di Gerosa che vogliamo soffermarci. Vita la quale – s’è già detto – molto è ancora in ombra e altre ombre, più che illuminarle, sembrano gettare i documenti storici. Basti pensare che in uno stato di famiglia del 1567, Francesco Gerosa ha 25 anni e vive con un servitore, mentre in un’altra casa dimora il padre Pietro di 40 con la moglie Elisabetta di 28. «Ad altri – chiosa il curatore – il compito di strologare sulla separazione dei nuclei abitativi tra Francesco e suo padre, di età forse sospetta, ed evidentemente convolato a seconde nozze».
Gerosa, come detto, «nacque a Lecco nel 1542, da una famiglia di speziali; non si addottorò prima di 25 anni (…) ma pare improbabile che la successiva assenza fosse dovuta al completamento degli studi. Può darsi che abbia speso quegli nei viaggi di formazione (…) ma già nel 1578 prestava la sua opera a Lecco, ove ancora nel 1583 è attestata la sua presenza».
E vi abitava senz’altro nei primi anni del Seicento quando fu anche investito di incarichi pubblici. Per uno dei quali passerà alla storia cittadina. Nel 1605, fu tra i procuratori che dovevano sancire la riconciliazione tra la Comunità di Lecco e il prevosto don Giovanni Stefano Bossi dopo un bel ventennio di attriti. Con Francesco Gerosa c’erano il fratello Tomaso e il governatore Francesco Hurtado del Mendoza.
Una vicenda che ci racconta Angelo Borghi nel secondo a cura degli ex alunni del liceo classico cittadino.


La Basilica di San Nicolò

La controversia non è estranea alla rivalità tra la parrocchia di San Gervaso e Protasio di Castello e quella di San Nicolò, già divise da una serie di questioni come quella del cosiddetto perdono conteso (la concessione dell’indulgenza plenaria per via della temporanea sepoltura concessa a Gabrio Medici, fratello del Medeghino, ne dovremo tornare a parlare). Del resto, «una serie di problemi – ricorda Borghi – non aveva consentito la realizzazione del progetto di unità plebana: ogni parroco o viceparroco tese a operare per conto proprio».
Bisogna ritornare al 1586, quando prevosto di Lecco fu nominato appunto Giovanni Stefano Bossi, di famiglia milanese. Preso possesso della sede, non gradì la sistemazione. Scrive Borghi: «Il Bossi, scontento della pur nobile casa di Lecco fornitagli dai sindaci, già nel 1586 si stabilì nella canonica di Castello, lasciando a Lecco un coadiutore e aprendo una controversia con i nobili del borgo che non soddisfacevano l’impegno assunto nel 1583 di predisporre una canonica di cinque dimore (…) Nel  1605 fu emanata la sentenza del vicario civile che chiudeva le cause vertenti tra il borgo e il prevosto Bossi, impegnandosi la comunità locale a realizzare entro il biennio la canonica presso San Nicolò che tornava a essere la sede plebana. Il 23 agosto 1605 il governatore e i procuratori (…) andarono a confermare a Castello il patto siglato dal cancelliere arcivescovile, accettando che il titolo comprendesse le due chiese, che la processione del Corpus Domini iniziasse a Castello e che intanto per la canonica si accettasse un caseggiato vicino al Pretorio».


La Parrocchiale di Castello

Secondo Minonzio sarebbe il 25 agosto, ma poco cambia. E’ da quella data, però, che prende le mosse per raccontarci la figura di Francesco Gerosa in maniera romanzata. «La sera del 25 agosto 1605- scrive - tre uomini salivano verso Castello sovra lecco. Si può quasi seguire la misurata lentezza dei passi. (…) Tra loro solo, di tanto in tanto, qualche parola. Il più titolato, il meno anziano peraltro, quasi a sottrarre ad un silenzio perplesso il ritmato scalpiccio, s’era accostato al compagno che recava un fascio di carte. L’altro seguiva, come assorto sulla cadenza elastica che nell’ora, men calda, bilanciava il volano stanco del suo passo. Avevano un mandato liberatorio, ma curiosamente nessuna fretta di affrettare il cammino. (…) Nella composta dignità dei suoi poco più che sessant’anni, Francesco Gerosa taceva, a nulla intento fuorché alle voltate del muretto. Diversamente dai compagni accaldati, egli sapeva, o pensava di sapere, l’origine del suo malumore. In un istante – poc’anzi – era come se gli si fosse snodata davanti, con dolorosa meraviglia, tutta la vita. Quel rogito notarile, cui amici l’avevano pregato di presenziare, era invero ai suoi occhi quasi privo d’importanza, ma allora solo – via via più irritante al pensiero – s’era fatta strada in lui la sensazione, esatta e disarmonica, di non essere altra cosa da quei volti, da quei minuti traffici di nulla: ad un ossequioso oscillare di gorgiere si svelava ristretto il senso intero degli anni trascorsi. Ve lo inchiodavano i suoi atti, la sua stessa presenza. Eppure, molto aveva visto in una giovinezza tuttora avvertita recente, e con intatte energie vissuto giorni operosi: ora alla sua mente il passato appariva stinto, come a forza redutto a buia, allucinata prolessi di un tardivo contratto – stipulanti un oltracotante ecclesiastico ed una municipalità neghittosa, inerte al punto di attendere vent’anni per rinunciare a molte delle sue prerogative. (…) Davanti alla casa prepositurale altre persone li attendevano. (…) Uscirono all’aria libera ch’era quasi notte. Francesco Gerosa sentì placarsi la morsura. Pure, discendendo verso la dimora della sua famiglia, tornò a pensare che v’erano state per lui altre sere, speranze in un tempo affidate a parole di cristallo, duracinate. Già: altrove. Qualcuno poteva ora asseverare ch’egli vi fosse stato? Pensò a suo figlio, alla replica dei destini, aleatorio passare dinnanzi agli stessi muri: scoperta stanca tra le ombre della sera. Il suo disagio: sapere che tutto era compiuto, che si va e si torna, e forse non si va mai interamente. Lontano, aveva in fondo avuto quanto s’era divisato, per poi ammarrare la sua barca – sconfitto no, ma pago di ciò ch’aveva visto. Ergo? Forse la salvezza, se c’era, poteva arrivare da un altrove inesperito. Se c’era… Tre anni più tardi (1608) Francesco Gerosa pubblicò (…) un dialogo filosofico che puntigliosamente riafferma il mito umanistico dell’uomo come microcosmo, fondamento della sua eccellenza e della sua dignità».



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Dario Cercek
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