SCAFFALE LECCHESE/23: il bandito della Valsassina, storia di Lasco (e di un plagio)
Dunque, Lasco: pare si voglia fare un parco letterario dedicato al “bandito della Valsassina”. Sperando sia cosa seria e non scimmiottamento di tradizioni altrui, rincorsa di giostre strapaesane, affastellarsi di chincaglieria o strazio da luoghi manzoniani.
Nel frattempo, vale la pena di riprendere in mano il romanzo di Antonio Balbiani, bellanese nato nel 1838, scrittore forse non eccelso e giornalista brillante, infaticabile, vulcanico, traduttore di Eugene Sue, idee progressiste e un’esistenza di gran travaglio che meriterebbe il racconto di una penna sopraffina, condannato in vita a sbarcare il lunario e in morte a un oblio quasi immediato. «Qui non si trova più nessuna traccia di quel povero diavolo» scrissero da Bellano ad Andrea Orlandi, già all’indomani della morte nell’agosto del 1889.
Fu autore prolifico: il compianto Luciano Lombardi, in una breve biografia pubblicata su “Archivi di Lecco” nel 1988, gli attribuì una cinquantina di opere. Alcune delle quali ebbero discreto riscontro. A partire proprio dal “Lasco” pubblicato per la prima volta a dispense dall’editore milanese Pagnoni nel 1871. Con successive edizioni. Nel nostro secolo, se ne ricordano quelle ridotte del 1938 dell’Editrice “Il Resegone”, del 1981 del “Giornale della Valsassina” di Luciano Baggioli e del 2007 curata da Marco Busi con stamperia a Cologno Monzese ma radici a Parlasco, paese il quale si è ormai votato alla memoria del “bandito” creando un percorso affrescato proprio con le scene del romanzo. Diventato anche testo teatrale e recentemente addirittura gioco di società.
La figura centrale è quella del conte di Marmoro, tale Sigifredo Falsandri, che aspira a infeudarsi la Valsassina ma deve cedere il passo, beffato da Giulio Monti, a sua volta insidiato dal ritorno sulla scena dei Torriani.
Il conte è un bel personaggino, non c’è che dire. Distribuisce elemosine e soccorre i bisognosi, accattivandosi così la benevolenza della popolazione che lo osanna chiamandolo “Buon Signore”. Al quale si affida affinché egli stesso liberi la valle dall’incubo del bandito Lasco, primula rossa che colpisce a destra e a manca e che nessuno sa dove possa trovare rifugio. Ma a metà racconto si scoprirà essere, il bandito Lasco, proprio il conte Falsandri il cui denaro generosamente elargito al popolo non è altro che «una vernice per parer galantuomo», bottino di ruberie e rapine compiute dalla masnada di sgherri al suo servizio. Masnada che la notte si scatena nella “caccia selvatica”: bravi sguinzagliati tra villaggi e alpeggi, accompagnati da mute di cani feroci, ringhianti e ululanti, che gettano nel terrore i valligiani, Nelle segrete del castello, intanto, sta rinchiuso un vecchio orafo rapito perché fondesse l’oro frutto dai misfatti: «ogni calice è un sacrilegio, ogni anello, ogni gemma un’aggressione, forse un’anima che in cielo grida vendetta».
Questa la sostanza. Balbiani curiosamente fa iniziare il proprio racconto dalla sera del 10 agosto 1688, quattro giorni dopo il miracolo delle lacrime della Madonna di Lezzeno, quando due scherani del conte si trovano intruppati nella processione che da Bellano sale al colle del prodigio ad ascoltare le parole dal parroco che lancia la sottoscrizione per la fondazione di un santuario.
Al conte Sigifredo si affiancano altri comprimari ciascuno con una propria storia personale, che consentono all’autore di fondere il racconto storico con la descrizione della vita popolare, l’eterno conflitto tra i signori e la povera gente, tra la ricchezza ostentata e la fame. Nasce tra queste pagine, per esempio, la leggenda della strega Bissaga di Tartavalle. La cui maledizione provocherà la tragica frana di Gero (che però è del 1762).
Tra i personaggi illustri a far da comparsa c’è anche lo scienziato Sigismondo Boldoni che, all’arrivo dei lanzichenecchi, mette in salvo dall’altra parte del lago libri e figlia. La quale figlia finirà poi con lo sposare proprio il conte Sigifredo, causa di una vita infelice e di una morte prematura. E naturalmente intrecci amorosi, felici o tragici, matrimoni imposti e ribellioni, bimbi che spariscono, altri che ricompaiono. Balbiani non rinuncia a nessuno degli artifizi narrativi a disposizione. Non mancano nemmeno personaggi dai nomi bizzarri come il medico dottor Tossico o tale fra’ Lasagna «con una filza di rosarj attaccati come ornamento al collo» e che guida il popolo – fino a un attimo prima pronto a difendere il “Buon signore” – nel saccheggio e nell’incendio della rocca di Marmoro. Proprio mentre il conte se ne sta fuggendo sui sentieri di montagna cercando raggiungere il confine veneto e salendo salendo s’avvede delle fiamme: «Fissò gli occhi e drizzò le orecchie a quella parte; e gli parve che il venticello della notte, che calava col suo nero manto sulla valle, gli portasse le voci di una folla briaca d’odio e vendetta. E alla luce sinistra dell’incendio, gli parve veder muoversi ombre gigantesche, che agitavano cento braccia nemiche. La coscienza gli rappresentava il Briareo della giustizia umana. Tenne lungamente gli sguardi fissi, finché il presentimento gli fece indovinare quello ch’era veramente, cioè l’incendio di Marmoro. Si morse le mani colla disperazione del conte Ugolino, poi, volto al cielo, che la notte andava seminando di stelle, gli volse un’ultima bestemmia».
Nel frattempo, vale la pena di riprendere in mano il romanzo di Antonio Balbiani, bellanese nato nel 1838, scrittore forse non eccelso e giornalista brillante, infaticabile, vulcanico, traduttore di Eugene Sue, idee progressiste e un’esistenza di gran travaglio che meriterebbe il racconto di una penna sopraffina, condannato in vita a sbarcare il lunario e in morte a un oblio quasi immediato. «Qui non si trova più nessuna traccia di quel povero diavolo» scrissero da Bellano ad Andrea Orlandi, già all’indomani della morte nell’agosto del 1889.
Fu autore prolifico: il compianto Luciano Lombardi, in una breve biografia pubblicata su “Archivi di Lecco” nel 1988, gli attribuì una cinquantina di opere. Alcune delle quali ebbero discreto riscontro. A partire proprio dal “Lasco” pubblicato per la prima volta a dispense dall’editore milanese Pagnoni nel 1871. Con successive edizioni. Nel nostro secolo, se ne ricordano quelle ridotte del 1938 dell’Editrice “Il Resegone”, del 1981 del “Giornale della Valsassina” di Luciano Baggioli e del 2007 curata da Marco Busi con stamperia a Cologno Monzese ma radici a Parlasco, paese il quale si è ormai votato alla memoria del “bandito” creando un percorso affrescato proprio con le scene del romanzo. Diventato anche testo teatrale e recentemente addirittura gioco di società.
La prima edizione del 1871
Lasco, dunque. Al netto di alcuni difetti innegabili del Balbiani (prolissità, ridondanza, sfoggio di erudizione, idolatria manzoniana), la trama ha tutta la dignità di un romanzo gotico. Imperniato su uno dei classici artifici letterari: il doppio.La figura centrale è quella del conte di Marmoro, tale Sigifredo Falsandri, che aspira a infeudarsi la Valsassina ma deve cedere il passo, beffato da Giulio Monti, a sua volta insidiato dal ritorno sulla scena dei Torriani.
Il conte è un bel personaggino, non c’è che dire. Distribuisce elemosine e soccorre i bisognosi, accattivandosi così la benevolenza della popolazione che lo osanna chiamandolo “Buon Signore”. Al quale si affida affinché egli stesso liberi la valle dall’incubo del bandito Lasco, primula rossa che colpisce a destra e a manca e che nessuno sa dove possa trovare rifugio. Ma a metà racconto si scoprirà essere, il bandito Lasco, proprio il conte Falsandri il cui denaro generosamente elargito al popolo non è altro che «una vernice per parer galantuomo», bottino di ruberie e rapine compiute dalla masnada di sgherri al suo servizio. Masnada che la notte si scatena nella “caccia selvatica”: bravi sguinzagliati tra villaggi e alpeggi, accompagnati da mute di cani feroci, ringhianti e ululanti, che gettano nel terrore i valligiani, Nelle segrete del castello, intanto, sta rinchiuso un vecchio orafo rapito perché fondesse l’oro frutto dai misfatti: «ogni calice è un sacrilegio, ogni anello, ogni gemma un’aggressione, forse un’anima che in cielo grida vendetta».
Questa la sostanza. Balbiani curiosamente fa iniziare il proprio racconto dalla sera del 10 agosto 1688, quattro giorni dopo il miracolo delle lacrime della Madonna di Lezzeno, quando due scherani del conte si trovano intruppati nella processione che da Bellano sale al colle del prodigio ad ascoltare le parole dal parroco che lancia la sottoscrizione per la fondazione di un santuario.
Al conte Sigifredo si affiancano altri comprimari ciascuno con una propria storia personale, che consentono all’autore di fondere il racconto storico con la descrizione della vita popolare, l’eterno conflitto tra i signori e la povera gente, tra la ricchezza ostentata e la fame. Nasce tra queste pagine, per esempio, la leggenda della strega Bissaga di Tartavalle. La cui maledizione provocherà la tragica frana di Gero (che però è del 1762).
Tra i personaggi illustri a far da comparsa c’è anche lo scienziato Sigismondo Boldoni che, all’arrivo dei lanzichenecchi, mette in salvo dall’altra parte del lago libri e figlia. La quale figlia finirà poi con lo sposare proprio il conte Sigifredo, causa di una vita infelice e di una morte prematura. E naturalmente intrecci amorosi, felici o tragici, matrimoni imposti e ribellioni, bimbi che spariscono, altri che ricompaiono. Balbiani non rinuncia a nessuno degli artifizi narrativi a disposizione. Non mancano nemmeno personaggi dai nomi bizzarri come il medico dottor Tossico o tale fra’ Lasagna «con una filza di rosarj attaccati come ornamento al collo» e che guida il popolo – fino a un attimo prima pronto a difendere il “Buon signore” – nel saccheggio e nell’incendio della rocca di Marmoro. Proprio mentre il conte se ne sta fuggendo sui sentieri di montagna cercando raggiungere il confine veneto e salendo salendo s’avvede delle fiamme: «Fissò gli occhi e drizzò le orecchie a quella parte; e gli parve che il venticello della notte, che calava col suo nero manto sulla valle, gli portasse le voci di una folla briaca d’odio e vendetta. E alla luce sinistra dell’incendio, gli parve veder muoversi ombre gigantesche, che agitavano cento braccia nemiche. La coscienza gli rappresentava il Briareo della giustizia umana. Tenne lungamente gli sguardi fissi, finché il presentimento gli fece indovinare quello ch’era veramente, cioè l’incendio di Marmoro. Si morse le mani colla disperazione del conte Ugolino, poi, volto al cielo, che la notte andava seminando di stelle, gli volse un’ultima bestemmia».
L'edizione del 1981
Si è già detto dell’idolatria manzoniana. Balbiani è qualcosa di più di un lettore del don Lisander: ne è praticamente rapito. Non è un caso che un anno dopo il Lasco, pubblicherà nientemeno che la continuazione dei “Promessi sposi con “I figli di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella”. Ed echi manzoniani si hanno anche in queste pagine valsassinesi. Ci infila, per esempio, due capitoletti un po’ appiccicaticci in cui liquidare lanzichenecchi e peste e si capisce che è un andar dietro al verbo manzoniano Basti dire che la discesa dei “lanzi”, quel manzoniano «passano…passano» che è brano grandioso, il Balbiani se lo ricopia quasi pedissequamente…. Strada facendo, ci si ricorda poi dell’Innominato e del Nibbio. E, ancora: in occasione di una truffa ordita da Lasco ai danni del curato di Margno, una donna si presenta alla perpetua con la scusa di saldare un debito (già sentito, vero?) del cognato che sta per andare nella Bergamasca a lavorare (pensa te) sotto Renzo Tramaglino.L'edizione del 2007
C’è anche un giallo attorno alla paternità del Lasco. Su Balbiani pesa infatti addirittura l’accusa di plagio: avrebbe fatta propria una storia scritta da Amatore Mastalli, figura già incontrata in questa rubrica, a proposito delle “Memorie di un soldato” pubblicate da Cletto Arrighi. Sostanzialmente, nel 1867 Mastalli passò la propria opera (“Lasco di Valsassina”) al Balbiani che se ne impadronì, quanto meno la rielaborò. Secondo uno studioso comasco, il risultato sarebbe stato completamente differente dalla storia di Mastalli, nonostante molti particolari e molti dei nomi – a cominciare dal conte Sigifredo Falsandri – siano rimasti i medesimi.Dario Cercek
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