SCAFFALE LECCHESE/206: le barche lariane nella letteratura
Lecco ebbe anche un bucintoro, termine che ci ricorda l’imbarcazione con cui il doge veneziano celebrava le nozze con il mare. Il nostro si chiamava “Barca di Lecco” e venne costruito a Como nel 1838 quale tributo dei lecchesi all’imperatore austriaco Ferdinando I, in visita sul Lario nell’agosto di quell’anno. E’ definito “bucintoro” in una storia delle imbarcazioni lariane: “Breva e tivano, motori naturali”, pubblicata dalla varennese Associazione Scanagatta nel 1999 a cura di Gianpaolo Brembilla, Roberto Brembilla, Giancarlo Colombo e Silvia Granatelli Ongania. Si tratta del primo volume di una ideale trilogia sui trasporti lariani edita dalla stessa associazione in un lungo arco di tempo: nel 2008 sarebbe uscito “Carbone bianco” dedicato alla ferrovia Lecco-Sondrio e nel 2018 quello sulla strada austriaca verso lo Stelvio.
Una gondola veneziana vera e propria – pur con qualche variante - e non una gondola lariana che è tutta un’altra barca: fu costruita sul lago di Como, probabilmente nel 1860, da artigiani veneziani. Era ormeggiata nella darsena della celebre villa del Balbianello di Lenno e a suo tempo era stata utilizzata per quelle gite di piacere “inventate” quando il lago divenne terra di ricche villeggiature e l’andar per acqua diventava svago, dopo che per secoli ebbe altri fini: il trasporto delle merci e la pesca, ma anche le esigenze militari.
Della gondola veneziana del Balbianello ci parla il volume “Le barche a remi del Lario” pubblicato in quello stesso anno 1999 da “Leonardo arte” e curato da Massimo Gozzi, Gianfranco Miglio e Gian Alberto Zanoletti che abbiamo già incontrato parlando di battelli
Dunque, una storia affascinante, pressoché dimenticata ai giorni nostri quando il trasporto via acqua è ormai scomparso. Eppure, per secoli, fu la forma di trasporto più economica e sicura ed era fortuna trovarsi sulle rotte. La fortuna millenaria del mercato lecchese che ha caratterizzato l’anima commerciale della nostra città e dei suoi abitanti ne è lampante testimonianza.
Non c’erano solo gondole e comballi, ma tante altre barche: il batel, per esempio, che chiamiamo “lucia” per via dell’Addio Monti manzoniano. E poi i navet. i canot, i quatrass. E poi la “spingarda” utilizzata per la caccia alle anatre o il traghetto che sopravvive a Imbersago come attrazione turistica e che a lungo è stato utilizzato in diversi punti dell’Adda per trasportare i carri da una sponda all’altra.
E c’erano anche le barche del contrabbando, i “barchitt” a due o quattro remi, costruite appositamente: economiche e semplici da manovrare, erano velocissime. A contrastare i “barchitt” c’erano le “bissone” delle guardie doganali che «in un crepaccio della roccia, solevano nascondersi (…) per sorprendere i contrabbandieri all’atto che passavano alla punta di Bellagio, per portare il carico a Lecco, e ciò accadendo s’impegnava tra loro una corsa sfrenata che talvolta si protraeva fino all’Adda, al di sotto del ponte di Lecco».
E naturalmente ci sono i maestri d’ascia, quelli che le barche le costruiscono. Giovan Battista Giovio, alla fine del Settecento registrava che a Carate Urio «mantiensi quasi per retaggio l’arte del costruire le barche» che pertanto doveva essere attività ben antica. Proprio a Carate, Ferdinando Taroni, originario di Venezia, nel 1790 aprì uno “squero navale”. (…) I Taroni costruirono barche fino a tempi recenti (…) e il vecchio cantiere Taroni costituì una specie di scuola in cui furono formati i fondatori dei più fiorenti cantieri esistenti sul lago. I Cadenazzi, i Timossi, i Cranchi, i Galli, i Mostes, gli Abbate pare abbiano appreso qui l’arte di costruire imbarcazioni. I cantieri furono ubicati in diversi centri del lago, da Laglio a Brienno, da Lenno a Mezzegra, a Tremezzo, a Lezzeno, a Griante, a Como ed a Lecco».
Il richiamo veneziano, del resto, non è poi fuori luogo. Per esempio, «nel 1625 i Francesi, al fianco dei Grigioni contro la Spagna, chiesero ai veneziani delle barche, ma considerando le difficoltà del loro trasporto attraverso paesi montuosi, si decise poi di costruirle in loco. Venne da Venezia un certo Gramolin, maestro costruttore navale, con al seguito un buon numero di operai (arsenalotti) il quale portò con sé tecniche e linee navali venete». Inoltre, al museo della barca lariana di Pianello è esposta «la più antica e importante gondola esistente al mondo».
Una gondola veneziana vera e propria – pur con qualche variante - e non una gondola lariana che è tutta un’altra barca: fu costruita sul lago di Como, probabilmente nel 1860, da artigiani veneziani. Era ormeggiata nella darsena della celebre villa del Balbianello di Lenno e a suo tempo era stata utilizzata per quelle gite di piacere “inventate” quando il lago divenne terra di ricche villeggiature e l’andar per acqua diventava svago, dopo che per secoli ebbe altri fini: il trasporto delle merci e la pesca, ma anche le esigenze militari.
Della gondola veneziana del Balbianello ci parla il volume “Le barche a remi del Lario” pubblicato in quello stesso anno 1999 da “Leonardo arte” e curato da Massimo Gozzi, Gianfranco Miglio e Gian Alberto Zanoletti che abbiamo già incontrato parlando di battelli
Il libro edito da Leonardo è più discorsivo, quello dell’Associazione Scanagatta più schematico, quasi a configurare una sorta di manuale, pur non trascurando le curiosità. Pescando in entrambi i libri ci si imbatte in una serie di spunti e suggestioni. E ci permettiamo di mescolare passi dell’uno e dell’altro.A cominciare dalla storia: «La navigazione sul lago di Como ha avuto uno sviluppo sistematico, probabilmente, soltanto con l’arrivo sul Lario dei romani», ma «è nell’inoltrata età di mezzo che cominciano a delinearsi le forme di imbarcazioni, destinate poi a durare sul Lario fino alla nostra epoca. Due sono i tipi di naviglio, di una certa dimensione, che vengono usati per il trasporto di persone e merci. C’è in primo luogo quella che verrà in seguito chiamata abitualmente la “gondola”, uno scafo a guscio, dai fianchi elevati con il cassero a poppa attrezzato in modo da offrire riparo. E c’è poi il “comballo”: una imbarcazione dalle stesse dimensioni della gondola, ma a fondo piatto e dai fianchi non rilevati, adatta per il trasporto di merci ingombranti. (…) Erano a remi, ma potevano alzare entrambi una grande vela rettangolare per sfruttare i venti del lago».
Tra l’altro, «il fondo del lago custodisce parecchi esemplari di comballi, affondati con il loro carico, per l’avidità dei barcaioli che, fidando sulla calma dei venti, arrischiavano a sovraccaricare le imbarcazioni (…) Non sapremo mai quanti relitti giacciono sul fondo del lago. A nostri giorni, tuttavia, grazie allo svilupparsi delle attività subacquee è stato possibile documentare fotograficamente alcune di queste disgrazie: è il caso della gondola “Colico” carica di sabbia, rinvenuta a 40 metri di profondità al largo di Santa Maria Rezzonico. A Tremezzo giace una gondola carica di sacchi di gesso, mentre a Piona è stato ritrovato un carico di sassi di Moltrasio destinati alla costruzione della stazione ferroviaria».
«Del resto, per il loro fondo piatto, i comballi passavano agevolmente dal lago all’Adda e ai suoi canali, e portavano materiale edilizio fino in Milano. Il granito bianco di San Fedelino, di cui sono orlati i marciapiedi della capitale lombarda, ha fatto quel percorso. (…) Poiché le rapide dell’Adda impedivano ai barconi del Lario di raggiungere il Naviglio della Martesana, fu aperto un canale navigabile che, superando le rapide presso Paderno, permise di collegare l’emissario del lago di Como con il Naviglio della Martesana. (…) Fu così che il granito di Novate, chiamato “sanfedelino” perché allora estratto nei pressi dell’antica chiesetta di San Fedelino, cominciò ad affluire a Milano per lastricare le strade del capoluogo».Dunque, una storia affascinante, pressoché dimenticata ai giorni nostri quando il trasporto via acqua è ormai scomparso. Eppure, per secoli, fu la forma di trasporto più economica e sicura ed era fortuna trovarsi sulle rotte. La fortuna millenaria del mercato lecchese che ha caratterizzato l’anima commerciale della nostra città e dei suoi abitanti ne è lampante testimonianza.
Non c’erano solo gondole e comballi, ma tante altre barche: il batel, per esempio, che chiamiamo “lucia” per via dell’Addio Monti manzoniano. E poi i navet. i canot, i quatrass. E poi la “spingarda” utilizzata per la caccia alle anatre o il traghetto che sopravvive a Imbersago come attrazione turistica e che a lungo è stato utilizzato in diversi punti dell’Adda per trasportare i carri da una sponda all’altra.
E c’erano anche le barche del contrabbando, i “barchitt” a due o quattro remi, costruite appositamente: economiche e semplici da manovrare, erano velocissime. A contrastare i “barchitt” c’erano le “bissone” delle guardie doganali che «in un crepaccio della roccia, solevano nascondersi (…) per sorprendere i contrabbandieri all’atto che passavano alla punta di Bellagio, per portare il carico a Lecco, e ciò accadendo s’impegnava tra loro una corsa sfrenata che talvolta si protraeva fino all’Adda, al di sotto del ponte di Lecco».
Nel Settecento, inoltre, le barche “statali” effettuavano anche servizio postale. Per esempio «della barca corriera di Como, entrata in servizio nel novembre 1762, si sa che era governata da quattro barcaioli e poteva trasportare quindici persone e fino a trenta soldi di mercanzia. Si rivive la storica epopea del “corriere di Lindò”, un servizio settimanale di trasporto di corrispondenza, merci e passeggeri protrattosi per oltre due secoli tra Lindau, importante nodo di comunicazione sul lago di Costanza, e Milano. L’itinerario seguito prevedeva l’attraversamento dei Grigioni lungo la valle del Reno superiore, il passaggio dello Spluga e la discesa verso Chiavenna attraverso la valle di san Giacomo, per raggiungere il lago di Mezzola a Riva di Chiavenna e dare inizio al tratto navigato verso Como. Legato a questa vera e propria istituzione ritroviamo il lavoro e l’impegno di uomini e famiglie intere, come quella di Andrea Brenta, nativo di Varenna». Patriota fucilato dagli austriaci «egli sfidò per parecchi anni, con il padre e i fratelli, le intemperie del lago, conducendo da un capo all’altro di esso il proverbiale corriere».
Inoltre, all’inizio del Novecento, l’ingegner Pietro Caminada «progettava un’idrovia dal Tirreno al lago di Costanza. Partendo da Genova, un canale avrebbe attraversato l’Appennino ai Giovi, all’altezza di 200 metri s.l.m., con una galleria lungo 3 km e, passando per Milano, avrebbe raggiunto a Lecco il lago di Como; all’altro capo del lago, un secondo canale sarebbe arrivato fino allo Spluga e lo avrebbe attraversato». (…) Per superare i dislivelli, il Caminada faceva affidamento su una conca di sua invenzione, detta “chiusa tubolare”», procedimento abbastanza macchinoso che non stiamo a riassumervi.
E naturalmente ci sono i maestri d’ascia, quelli che le barche le costruiscono. Giovan Battista Giovio, alla fine del Settecento registrava che a Carate Urio «mantiensi quasi per retaggio l’arte del costruire le barche» che pertanto doveva essere attività ben antica. Proprio a Carate, Ferdinando Taroni, originario di Venezia, nel 1790 aprì uno “squero navale”. (…) I Taroni costruirono barche fino a tempi recenti (…) e il vecchio cantiere Taroni costituì una specie di scuola in cui furono formati i fondatori dei più fiorenti cantieri esistenti sul lago. I Cadenazzi, i Timossi, i Cranchi, i Galli, i Mostes, gli Abbate pare abbiano appreso qui l’arte di costruire imbarcazioni. I cantieri furono ubicati in diversi centri del lago, da Laglio a Brienno, da Lenno a Mezzegra, a Tremezzo, a Lezzeno, a Griante, a Como ed a Lecco».
Dario Cercek