SCAFFALE LECCHESE/180: la 'fiera e maschia figura' di Andra Brenta, patriota varennese
Teatro, la Valle Intelvi. Di là dal lago, dunque. Protagonista, un oste di San Fedele. Tra il 1848 e il 1849 fu alla testa di una rivolta popolare antiaustriaca, uno dei tanti moti fallimentari ispirati da Giuseppe Mazzini. Fucilato dopo un processo sommario, è ricordato tra i maggiori eroi risorgimentali comaschi. Già nel 1861, Felice Venosta, scrittore (e patriota) milanese di origini valtellinesi, ne raccontava le gesta in un libro dedicato ai “martiri della rivoluzione lombarda”.
Si parla di Andrea Brenta: era nato a Varenna, come ricorda una lapide sul muro del municipio. A Varenna aveva trascorso la giovinezza anche se di quel periodo non si sa praticamente nulla se non che nel 1829 ebbe qualche questione con un tal Giuseppe Lavelli. Accusato costui di percosse, insulti e ingiuria ai danni appunto di Brenta. Così ci racconta Vittorio Adami, un militare di carriera accasatosi a Varenna nella prima metà del Novecento e che di Varenna divenne lo storico “ufficiale”.
Il lavoro di Adami è fonte imprescindibile anche per i successivi biografi. Come lo storico Ariberto Mozzati che nel 1948 pubblicò, per il milanese Istituto tipografico editoriale, “Andrea Brenta e l’Insurrezione intelvese” (ristampato poi dall’amministrazione provinciale di Como nel 1972, in occasione del centenario della morte di Mazzini), ma anche la scrittrice Armanda Capeder, autrice del romanzo “L’uomo dei due laghi. Vita straordinaria di Andrea Brenta, patriota” uscito nel 1996 dalla lecchese “Periplo Edizioni” e ripubblicato nel 2008 dalla comasca “Dominioni”.
Andrea nacque appunto a Varenna il 3 gennaio 1813 da Giacomo Brenta, barcaiolo, e da Anna Maria Conca. Ventenne, si trasferì ad Argegno e poi in Valle Intelvi, esercitando il mestiere di oste e fornaio, mettendo su famiglia e diventando padre di ben nove figli.
«Con l’aiuto dei genitori aveva acquistato l’osteria chiamata “Dell’Usellino” – ci racconta ancora Capeder - In realtà il suo carattere avventuroso lo teneva spesso lontano dai fornelli e dal forno (…). La sua grande passione era la caccia, e con la scusa del procurare la selvaggina per i clienti era spesso in giro per la valle»
E quand’era a bottega, sembra che si unisse un po’ troppo ai clienti nell’alzare il gomito. Ce lo ricorda il giornalista Enzo Venini in un articolo pubblicato nel 1981 su quella sorta di zibaldone che andava sotto il nome di “Varena Insula Nova” e ideato dall’allora parroco don Lauro Consonni.
La storia accertata del Brenta, comunque, si condensa nei pochi mesi a cavallo tra il 1848 e il 1849. Degli anni precedenti nulla ci è praticamente raccontato.
Il marzo 1848 fu quello delle storiche Cinque giornate di Milano che galvanizzarono altre località lombarde. Anche a Como ci si mobilitò per scacciare gli austriaci. Andrea Brenta era in città tra gli insorti; successivamente si unì alle truppe sabaude partecipando alla prima guerra di indipendenza, andò poi con Garibaldi e infine espatriò in Canton Ticino, a Lugano. Dove incontrò Mazzini. Capeder ne immagina l’incontro: «“Sapresti far passare documenti e lettere da qui al territorio lombardo senza che cadano nelle mani delle guardie austriache e senza farti catturare? – aveva chiesto Mazzini – Mi hanno detto un gran bene di te: che sei ardito, deciso e affidabile”. L’emozione impediva ad Andrea di rispondere; aveva dinanzi a sé l’uomo nobile che rappresentava il simbolo degli ideali in cui credeva, colui che aveva abbandonato la sua casa, una vita tranquilla per buttarsi allo sbaraglio nella lotta contro le ingiustizie. Pensò per un istante che aveva gli stessi occhi misteriosi e profondi del Dio che spiccava sull’oro di un mosaico, in una immagine sacra appesa nella sacrestia della chiesa di San Fedele».A poco a poco, Brenta diventò una sorta di primula rossa. Distribuiva appelli alla rivolta e guidava incursioni armate contro le gendarmerie. Si tramandano gesti di generosità e atti di un’inaudita sfrontatezza. Come il “caso” del cappello: mentre era uccel di bosco, gli austriaci gli perquisirono casa e gli sequestrarono una coccarda tricolore e un “cappello alla calabrese”, vietato perché considerato segno di riconoscimento tra i ribelli. Brenta non si scompose facendosi restituire il “bottino”, dopo esplicite minacce al comandante della gendarmeria.C’è una data precisa per questo episodio, il 24 ottobre 1848, ed è data importante: «Felice del successo della sua impresa – scrive Mozzati - Brenta decide di estenderne le proporzioni anticipando così di qualche giorno l’insurrezione della Valle Intelvi che, nel piano di Mazzini, avrebbe dovuto iniziarsi alla fine di ottobre, contemporaneamente a quella di altre valli e città della Alta Lombardia. Infatti, nel pomeriggio di quello stesso giorno (…) scende ad Argegno, disarmando la gendarmeria ed incitando la popolazione dei paesi vicini a insorgere».
Brenta allargò la sommossa da Menaggio a Cernobbio, anche se non è chiaro quanta popolazione abbia avuto davvero dalla sua parte. Poca, immaginiamo.
Da parte sua, anche se colto alla sprovvista dall’accelerazione impressa da Brenta, Mazzini non si tirò comunque indietro e inviò tre squadre di fuoriusciti a dargli man forte. Una si perse strada facendo, le altre due scontarono invece la rivalità e i dissidi tra i comandanti.
Nel frattempo, la notte tra il 25 e il 26 ottobre, gli asburgici raggiunsero Argegno dove cercarono il parroco datosi alla fuga: i soldati si accamparono una notte nella chiesa parrocchiale e il mattino del 26, imboccarono la strada per la Valle Intelvi dove vennero accolti a fucilate da Brenta e i suoi uomini.
Mentre veniva costituito un comitato insurrezionale, tra il 31 ottobre e il 1° novembre bersaglieri tirolesi e fanteria occuparono la vetta del Bisbino. La battaglia di San Bernardo del 3 novembre decretò infine il fallimento dell’insurrezione. Scrive Mozzati: «Alla fine dovettero cedere. La notizia portata da Parigi da Carlo Cattaneo di niuna speranza per parte di quella Repubblica, essendosi sparse fra gli insorti, affrettò la fine di quell’insurrezione fomentata dall’errore, sorta dall’impulso rabbioso di pochi, distolta dai litigi e dalle stolide pretensioni dei capi e dal genio militare condotta malamente».
Le testimonianze, a questo punto, si fanno un po’ confuse. Secondo Adami, gli austriaci «rimasti padroni delle posizioni si dettero a devastare e saccheggiare le proprietà: la povera osteria del Brenta fu una delle prime a essere incendiata di modo che la sua famiglia si trovò sul lastrico».
Secondo Mozzati, il Brenta, sul quale venne posta una taglia di 300 lire, continuò nelle sue incursioni, con qualche eccesso: «Fiera e maschia figura, nobilissima nella sua rozzezza popolana, per indomito amor di patria e per generosi sensi ebbe anche il Brenta, tuttavia, umane pecche. Costretto talvolta dalla morsa di urgenti necessità, trascinato talaltra dalla propria natura impulsiva, orgogliosa e insofferente di contrasti, vittima talaltra ancora di quel deplorevole eccesso nel bere (…) credeva di poter sottoporre ai Comuni un contributo di guerra o taglie per il mantenimento dei suoi. Ne approfittarono gli austriaci per dipingerlo come bandito».
A un certo punto, comunque, il rivoluzionario intelvese fu costretto a riparare in Svizzera per venirne poi espulso.
Indomito, il 22 marzo 1849, Brenta era a Como, con la città nuovamente in subbuglio. Ma a fine mese, gli austriaci ripresero il controllo della situazione e al nostro eroe toccò cercare rifugio in Valle Intelvi. La latitanza durò pochi giorni. La notte di Pasqua, tra il 7 e l’8 aprile, venne arrestato con altri all’osteria del Fuino a Casasco. L’8 aprile venne condotto a Como e condannato a morte ancora prima del processo sommario di tre giorni dopo nel carcere della caserma di San Carpoforo a Camerlata.
Alla lettura della sentenza – scrive Adami - avrebbe sbottato chiedendo che ne sarebbe stato dei suoi nove figli. Secondo Mozzati, invece, avrebbe evocato i figli al momento dell’esecuzione, nello spiazzo davanti alla caserma: «Viva l’Italia e viva i miei nove…».
«Interrogati parenti del Brenta che vivono tuttora a Varenna ed i vecchi dal paese - ci dice Adami - si sono raccolte le seguenti scarse notizie che costituiscono la tradizione della famiglia. Il Brenta prima di morire avrebbe chiesto un sigaro ed avrebbe gridato tre volte “Vita l’Italia”. Dopo la sua fucilazione venne sepolto nel luogo del supplizio e cioè a Camerlata, ma dopo qualche giorno il suo corpo venne portato a Como. Aveva ancora il padre il quale si recò al luogo del disseppellimento ed avrebbe voluto portare con sé qualche oggetto del figlio, come ricordo, ma gli fu vietato».
Venne promossa una colletta per aiutare la famiglia (il maggiore dei nove figli aveva 14 anni). Ma non tutti i giornali pubblicarono l’appello – dice Mozzati - «e i soccorsi alla misera famiglia del Brenta non giunsero che in misure irrisorie, sì che per alcuni anni quei poveretti vissero esclusivamente della carità di pochi generosi. Le loro condizioni erano così pietose anche dopo la liberazione della Valle Intelvi che per indurre il governo a provvedere alla sventurata vedova venne pubblicata sul giornale “Il pungolo” del 29 dicembre 1859 una poesia intitolata “Lamento di una figlia del povero Brenta».
«Negli anni seguenti – continua Mozzati - i figli dell’eroe intelvese tornarono a stabilirsi a Varenna, dove tuttora vive qualche nipote, mentre alcune figlie rimasero a San Fedele contraendovi nozze. Altri discendenti si trasferirono a Milano. Degni di menzione sono pure un fratello di Andrea Brenta, di nome Pietro, arruolatosi nelle fila di Garibaldi e due suoi nipoti, Pietro e Andrea, figli di Giacomo, che nel 1866 fecero parte dei volontari garibaldini operanti in Trentino».
In Valle Intelvi c’era anche un museo privato dedicato ad Andrea Brenta, chiuso pare definitivamente (parte del materiale è stato affidato al Museo etnografico di Casasco che attende l’ampliamento della sede per esporlo).
Si parla di Andrea Brenta: era nato a Varenna, come ricorda una lapide sul muro del municipio. A Varenna aveva trascorso la giovinezza anche se di quel periodo non si sa praticamente nulla se non che nel 1829 ebbe qualche questione con un tal Giuseppe Lavelli. Accusato costui di percosse, insulti e ingiuria ai danni appunto di Brenta. Così ci racconta Vittorio Adami, un militare di carriera accasatosi a Varenna nella prima metà del Novecento e che di Varenna divenne lo storico “ufficiale”.
A Brenta, Adami dedicò uno studio pubblicato nel 1924 dal Periodico della Società Storica Comense: «Andrea Brenta – leggiamo - umile ed eroico martire del nostro risorgimento, trova origine da un’antica famiglia varennese del XIII secolo, oriunda dell’Isola Comacina. Essa aveva già avuto un rampollo illustre, nei primordi del 1500, nella persona di Nicolò Brenta, erudito stampatore a Venezia, Pesaro e Rimini».
Il lavoro di Adami è fonte imprescindibile anche per i successivi biografi. Come lo storico Ariberto Mozzati che nel 1948 pubblicò, per il milanese Istituto tipografico editoriale, “Andrea Brenta e l’Insurrezione intelvese” (ristampato poi dall’amministrazione provinciale di Como nel 1972, in occasione del centenario della morte di Mazzini), ma anche la scrittrice Armanda Capeder, autrice del romanzo “L’uomo dei due laghi. Vita straordinaria di Andrea Brenta, patriota” uscito nel 1996 dalla lecchese “Periplo Edizioni” e ripubblicato nel 2008 dalla comasca “Dominioni”.
L’opera di Mozzati è uno studio storico e, pur correggendo qualche dettaglio, non si discosta molto dalla traccia indicata da Adami. Quella di Capeder è invece un romanzo e come tale naturalmente romanza. Sugli aspetti “sentimentali”, per esempio: l’avventura con una vedova che poi sarebbe andata «favoleggiando con le vicine del grande amore che aveva nutrito per lei “un moro che era sceso dalle montagne del Comasco e aveva più fuoco in corpo di una vaporiera”»; le avances respinte di una giovane intelvese che se ne risente: «“Perché non mi vuoi, Andrea Brenta? Eppure a quanto si dice non sei tipo da schifare le donne. Lo sa anche la tua Rina che non ti accontenti del suo letto”. Andrea non la guardava. (…) Fissava un punto all’orizzonte e sembrava estrarre con fatica le parole: “Quello che si dice può anche essere vero, ma, vedi, io ho rispetto per mia moglie e mi sono posto una regola: nessuna dentro i confini della nostra valle”».
Andrea nacque appunto a Varenna il 3 gennaio 1813 da Giacomo Brenta, barcaiolo, e da Anna Maria Conca. Ventenne, si trasferì ad Argegno e poi in Valle Intelvi, esercitando il mestiere di oste e fornaio, mettendo su famiglia e diventando padre di ben nove figli.
«Con l’aiuto dei genitori aveva acquistato l’osteria chiamata “Dell’Usellino” – ci racconta ancora Capeder - In realtà il suo carattere avventuroso lo teneva spesso lontano dai fornelli e dal forno (…). La sua grande passione era la caccia, e con la scusa del procurare la selvaggina per i clienti era spesso in giro per la valle»
E quand’era a bottega, sembra che si unisse un po’ troppo ai clienti nell’alzare il gomito. Ce lo ricorda il giornalista Enzo Venini in un articolo pubblicato nel 1981 su quella sorta di zibaldone che andava sotto il nome di “Varena Insula Nova” e ideato dall’allora parroco don Lauro Consonni.
Ne accenna anche Capeder: «Da buon oste amava il vino, che doveva essere rosso, non importava se nuovo o invecchiato, purché gagliardo e forte, “da uomini”». E, rivolto alla figliolanza: «“Adesso siete ancora piccoli, ma ricordatevi che un giorno il vino sarà per voi un grande amico, che vi aiuterà a sopportare le fatiche e le pene della vita. Purché naturalmente lo usiate con moderazione, altrimenti vi si rivolta contro, e allora è capace perfino di condurvi alla rovina”. (…) Riteneva che fosse un ammaestramento doveroso, anche se sapeva bene che di quella raccomandazione avrebbe avuto bisogno soprattutto lui». Del resto, la notte dell’arresto nell’osteria di Casasco, era corso vino «in gran copia», ci informa Mozzati.
La storia accertata del Brenta, comunque, si condensa nei pochi mesi a cavallo tra il 1848 e il 1849. Degli anni precedenti nulla ci è praticamente raccontato.
Il marzo 1848 fu quello delle storiche Cinque giornate di Milano che galvanizzarono altre località lombarde. Anche a Como ci si mobilitò per scacciare gli austriaci. Andrea Brenta era in città tra gli insorti; successivamente si unì alle truppe sabaude partecipando alla prima guerra di indipendenza, andò poi con Garibaldi e infine espatriò in Canton Ticino, a Lugano. Dove incontrò Mazzini. Capeder ne immagina l’incontro: «“Sapresti far passare documenti e lettere da qui al territorio lombardo senza che cadano nelle mani delle guardie austriache e senza farti catturare? – aveva chiesto Mazzini – Mi hanno detto un gran bene di te: che sei ardito, deciso e affidabile”. L’emozione impediva ad Andrea di rispondere; aveva dinanzi a sé l’uomo nobile che rappresentava il simbolo degli ideali in cui credeva, colui che aveva abbandonato la sua casa, una vita tranquilla per buttarsi allo sbaraglio nella lotta contro le ingiustizie. Pensò per un istante che aveva gli stessi occhi misteriosi e profondi del Dio che spiccava sull’oro di un mosaico, in una immagine sacra appesa nella sacrestia della chiesa di San Fedele».A poco a poco, Brenta diventò una sorta di primula rossa. Distribuiva appelli alla rivolta e guidava incursioni armate contro le gendarmerie. Si tramandano gesti di generosità e atti di un’inaudita sfrontatezza. Come il “caso” del cappello: mentre era uccel di bosco, gli austriaci gli perquisirono casa e gli sequestrarono una coccarda tricolore e un “cappello alla calabrese”, vietato perché considerato segno di riconoscimento tra i ribelli. Brenta non si scompose facendosi restituire il “bottino”, dopo esplicite minacce al comandante della gendarmeria.C’è una data precisa per questo episodio, il 24 ottobre 1848, ed è data importante: «Felice del successo della sua impresa – scrive Mozzati - Brenta decide di estenderne le proporzioni anticipando così di qualche giorno l’insurrezione della Valle Intelvi che, nel piano di Mazzini, avrebbe dovuto iniziarsi alla fine di ottobre, contemporaneamente a quella di altre valli e città della Alta Lombardia. Infatti, nel pomeriggio di quello stesso giorno (…) scende ad Argegno, disarmando la gendarmeria ed incitando la popolazione dei paesi vicini a insorgere».
Brenta allargò la sommossa da Menaggio a Cernobbio, anche se non è chiaro quanta popolazione abbia avuto davvero dalla sua parte. Poca, immaginiamo.
Da parte sua, anche se colto alla sprovvista dall’accelerazione impressa da Brenta, Mazzini non si tirò comunque indietro e inviò tre squadre di fuoriusciti a dargli man forte. Una si perse strada facendo, le altre due scontarono invece la rivalità e i dissidi tra i comandanti.
Nel frattempo, la notte tra il 25 e il 26 ottobre, gli asburgici raggiunsero Argegno dove cercarono il parroco datosi alla fuga: i soldati si accamparono una notte nella chiesa parrocchiale e il mattino del 26, imboccarono la strada per la Valle Intelvi dove vennero accolti a fucilate da Brenta e i suoi uomini.
Mentre veniva costituito un comitato insurrezionale, tra il 31 ottobre e il 1° novembre bersaglieri tirolesi e fanteria occuparono la vetta del Bisbino. La battaglia di San Bernardo del 3 novembre decretò infine il fallimento dell’insurrezione. Scrive Mozzati: «Alla fine dovettero cedere. La notizia portata da Parigi da Carlo Cattaneo di niuna speranza per parte di quella Repubblica, essendosi sparse fra gli insorti, affrettò la fine di quell’insurrezione fomentata dall’errore, sorta dall’impulso rabbioso di pochi, distolta dai litigi e dalle stolide pretensioni dei capi e dal genio militare condotta malamente».
Le testimonianze, a questo punto, si fanno un po’ confuse. Secondo Adami, gli austriaci «rimasti padroni delle posizioni si dettero a devastare e saccheggiare le proprietà: la povera osteria del Brenta fu una delle prime a essere incendiata di modo che la sua famiglia si trovò sul lastrico».
Secondo Mozzati, il Brenta, sul quale venne posta una taglia di 300 lire, continuò nelle sue incursioni, con qualche eccesso: «Fiera e maschia figura, nobilissima nella sua rozzezza popolana, per indomito amor di patria e per generosi sensi ebbe anche il Brenta, tuttavia, umane pecche. Costretto talvolta dalla morsa di urgenti necessità, trascinato talaltra dalla propria natura impulsiva, orgogliosa e insofferente di contrasti, vittima talaltra ancora di quel deplorevole eccesso nel bere (…) credeva di poter sottoporre ai Comuni un contributo di guerra o taglie per il mantenimento dei suoi. Ne approfittarono gli austriaci per dipingerlo come bandito».
A un certo punto, comunque, il rivoluzionario intelvese fu costretto a riparare in Svizzera per venirne poi espulso.
Indomito, il 22 marzo 1849, Brenta era a Como, con la città nuovamente in subbuglio. Ma a fine mese, gli austriaci ripresero il controllo della situazione e al nostro eroe toccò cercare rifugio in Valle Intelvi. La latitanza durò pochi giorni. La notte di Pasqua, tra il 7 e l’8 aprile, venne arrestato con altri all’osteria del Fuino a Casasco. L’8 aprile venne condotto a Como e condannato a morte ancora prima del processo sommario di tre giorni dopo nel carcere della caserma di San Carpoforo a Camerlata.
Alla lettura della sentenza – scrive Adami - avrebbe sbottato chiedendo che ne sarebbe stato dei suoi nove figli. Secondo Mozzati, invece, avrebbe evocato i figli al momento dell’esecuzione, nello spiazzo davanti alla caserma: «Viva l’Italia e viva i miei nove…».
«Interrogati parenti del Brenta che vivono tuttora a Varenna ed i vecchi dal paese - ci dice Adami - si sono raccolte le seguenti scarse notizie che costituiscono la tradizione della famiglia. Il Brenta prima di morire avrebbe chiesto un sigaro ed avrebbe gridato tre volte “Vita l’Italia”. Dopo la sua fucilazione venne sepolto nel luogo del supplizio e cioè a Camerlata, ma dopo qualche giorno il suo corpo venne portato a Como. Aveva ancora il padre il quale si recò al luogo del disseppellimento ed avrebbe voluto portare con sé qualche oggetto del figlio, come ricordo, ma gli fu vietato».
Venne promossa una colletta per aiutare la famiglia (il maggiore dei nove figli aveva 14 anni). Ma non tutti i giornali pubblicarono l’appello – dice Mozzati - «e i soccorsi alla misera famiglia del Brenta non giunsero che in misure irrisorie, sì che per alcuni anni quei poveretti vissero esclusivamente della carità di pochi generosi. Le loro condizioni erano così pietose anche dopo la liberazione della Valle Intelvi che per indurre il governo a provvedere alla sventurata vedova venne pubblicata sul giornale “Il pungolo” del 29 dicembre 1859 una poesia intitolata “Lamento di una figlia del povero Brenta».
«Negli anni seguenti – continua Mozzati - i figli dell’eroe intelvese tornarono a stabilirsi a Varenna, dove tuttora vive qualche nipote, mentre alcune figlie rimasero a San Fedele contraendovi nozze. Altri discendenti si trasferirono a Milano. Degni di menzione sono pure un fratello di Andrea Brenta, di nome Pietro, arruolatosi nelle fila di Garibaldi e due suoi nipoti, Pietro e Andrea, figli di Giacomo, che nel 1866 fecero parte dei volontari garibaldini operanti in Trentino».
In Valle Intelvi c’era anche un museo privato dedicato ad Andrea Brenta, chiuso pare definitivamente (parte del materiale è stato affidato al Museo etnografico di Casasco che attende l’ampliamento della sede per esporlo).
Vi erano tra l’altro conservate alcune opere del pittore milanese Piero Gauli, oggi sostanzialmente dimenticato ma di non trascurabile valore e che ebbe un ruolo importante nel movimento di “Corrente”, sviluppatosi a Milano negli anni Trenta del Novecento. Gauli villeggiava a Verna e donò al museo alcune opere ispirate proprio a Brenta. Ce ne parla Chiara Boldorini in un libro (“Andrea Brenta. L’eroe intelvese nell’arte del Novecento”) pubblicato nel 2020 dallo stesso Museo etnografico di Casasco.
Dario Cercek