SCAFFALE LECCHESE/185: le biografie di Ghislanzoni, a 200 anni dalla nascita

Archiviati i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, dimenticati quelli dell’architetto Giuseppe Bovara (morto nello stesso 1873), la nostra città si dovrebbe apprestare a celebrare nel corso di questo 2024 appena cominciato tre altri anniversari di non indifferente peso per la sua storia: il centenario della morte di Mario Cermenati (8 ottobre) come già ci ha ricordato il nostro Aloisio Bonfanti e il bicentenario delle nascite dell’abate Antonio Stoppani (15 agosto) e dello scrittore e giornalista Antonio Ghislanzoni (25 novembre). Chissà se i lecchesi avranno il tempo di ricordarsene. A proposito di Stoppani, tra l’altro, per quest’anno è annunciata l’uscita di una nuova edizione del “Bel Paese”: nella prestigiosa collezione Einaudi dei “Millenni”.
Da parte nostra, ci occupiamo di Ghislanzoni, avendo in passato già indugiato sia sulla biografia di Cermenati redatta da Aroldo Benini sia su quella di Stoppani scritta nel 1898 dal nipote Angelo Maria Cornelio (è invece del 2014 un ritratto più “moderno” a opera di Elena Zanoni per l’editore “Franco Angeli”).
Dopo la morte di Ghislanzoni, nel luglio 1893, non mancarono certo i tributi: subito fu avviata una sottoscrizione promossa da un comitato, con a capo lo stesso Mario Cermenati e Mauro Chiesa, per la realizzazione di un busto inaugurato nel 1895 e inizialmente collocato in piazza della Stazione per essere poi trasferito sul lungolago dove ancora si trova; nel 1896 gli venne intitolata una società di ginnastica destinata ad avere grande fortuna e ancora esistente; l’amministrazione pubblica non gli ha negato la dedica di una via. Complessivamente, però, se non si può forse parlare di oblio, certamente gli sono stati rivolti pensieri un po’ distratti. La stessa Maggianico scapigliata, che di Ghislanzoni fu indubbiamente creatura, fa parte dei miti lecchesi ma in un secolo non vi sono certo state attenzioni particolari. Il recente degrado al quale è stata condannata la Villa Ponchielli ne è struggente testimonianza.
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Ciononostante, gli ultimi trent’anni non sono passati del tutto invano: prima l’impegno e gli studi di Aroldo Benini, poi l’apertura dell’Officina Ghislanzoni a Caprino con Gianluca Baio, più recentemente la riscoperta e la ripubblicazione di alcuni romanzi da parte dell’editrice lecchese Polyhistor di Franco Minonzio, hanno tolto un po’ di polvere dal personaggio. A tutt’oggi, però, manca ancora una biografia esauriente in grado di restituirci a tutto tondo una vita movimentata e un impegno culturale ad ampio raggio per quanto con esiti non sempre felici. Punto di riferimento imprescindibile è il lavoro pubblicato proprio da Aroldo Benini nel numero monografico della rivista “Archivi di Lecco” dell’aprile-giugno 1993, in occasione del centenario della morte dello scrittore, lavoro appunto presentato come un primo studio «per la biografia di Antonio Ghislanzoni» con appendice sull’attività di librettista e con tanto di bibliografia delle opere di e su Ghislanzoni.
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Nell’autunno di quello stesso 1993, inoltre, tra Milano, Lecco e Caprino si tenne un convegno di studi su iniziativa del milanese Istituto per la storia del Risorgimento e della lecchese Associazione Giuseppe Bovara: “L’operosa dimensione scapigliata di Antonio Ghislanzoni”. Gli atti sarebbero stati pubblicati nel 1995.
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A queste opere va aggiunto il lavoro di Roberta Colombi che a Ghislanzoni ha dedicato un capitolo del suo “Ottocento stravagante” edito da Aracne nel 2011. In verità, già nel 1924, in occasione dunque del centenario della nascita, uscì per “La Rivista di Lecco” di Ettore Bartolozzi una breve biografia compilata dall’avvocato Armando Nava.
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Proprio Nava si interroga tra l’altro sull’esatto luogo di nascita di Ghislanzoni, se Lecco (nell’attuale via Roma, civico 66, come certificano i registri anagrafici e una targa marmorea) o a Barco (in quel palazzo di via Martelli che gli avi del Ghislanzoni costruirono nel XVI secolo); fu lo stesso Ghislanzoni ad alimentare tale incertezza avvalorando una fola diffusa fra gli abitanti della piccola frazione della “scapigliata” Maggianico.
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Da parte sua, Benini ricorda come lo stesso Ghislanzoni avesse promesso ai lettori della “Posta di Caprino” una propria autobiografia mai cominciata e probabilmente nemmeno mai pensata seriamente, ma come anche avesse disseminato la propria opera di non pochi accenni personali «che sarà il caso di utilizzare ai fini della ricostruzione della vita di un personaggio tutt’altro che semplice e lineare». Terzo di sei tra fratelli e sorelle, nato appunto nel 1824, ebbe tra gli amici di infanzia il coetaneo Antonio Stoppani. Dopo le scuole primarie, entrambi entrarono nel seminario. Ma la via religiosa, sulla quale Stoppani si sarebbe mantenuto, non era certo fatta per Ghislanzoni. Che dal seminario venne addirittura espulso. Di quell’esperienza parla egli stesso nelle “Memorie di un seminarista”.
«Il nostro giovanotto – scrive Nava -, lasciato finalmente l’abito sacerdotale e indossati gli abiti secolareschi, si diede furiosamente alla lettura, divorando ad insaputa dei parenti parecchie centinaia di volumi chiusi in un armadio, volumi che facevan parte di una biblioteca clandestina». Il padre Giovanni Battista, medico e dirigente dell’ospedale Lecco, voleva indirizzare pure il figlio verso la carriera medica. Ma nemmeno per questa professione, il giovane Antonio aveva l’opportuna vocazione, decidendo così di abbandonare gli studi per dedicarsi al bel canto e avviando una carriera da baritono che sembrava promettente e che in effetti, pur tra alti e bassi e con qualche pausa, durò una decina di anni. Fino al 1855 quando, al Teatro Carcano di Milano, vi fu il crollo: «Si provò a cantare – racconta Nava -, ma le contumelie, le grida, i fischi, che lo investirono, mentre egli adunava invano gli ultimi residui delle sue note agonizzanti, furono tremendi e gli intimarono di cedere le armi. La sua voce, la sua bella voce limpida, sonora, chiara, era stata corrosa dalle bronchiti che qua e là per il mondo l’artista s’era buscato spesso nell’impossibilità materiale di potersele curare a dovere, forse anche nelle strettezze finanziarie che gli imponevano ogni sorta di economia». Perché, nel frattempo, aveva girato l’Italia, era stato in Franca ed era passato anche per le galere. Erano gli anni delle lotte risorgimentali: Ghislanzoni scriveva su giornali battaglieri, era in contatto con gli ambienti mazziniani pur guardando soprattutto a Giuseppe Garibaldi, «l’eroe ammirato fino alla morte» come scrive Benini. Che prosegue: «Nel più volte citato progetto d’autobiografia, Ghislanzoni parla (…) di gesta militari, di diserzione, di capitolazione di Milano, città nella quale, dopo essere stato minacciato d’esser fatto a pezzi, viene acclamato capitano. Esce da Milano, tuttavia, e si reca a Chiasso, prende albergo al S. Michele e si incontra a Lugano con Mazzini, da cui ormai lo divide la valutazione della rivolta quarantottesca (…); parte a piedi con due amici per recarsi a Firenze, s’incontra con agitazioni e scompigli cui prende parte prima di raggiungere il successo ad Arezzo, dove vien “rimpannucciato a spese dei cittadini”. Lo scultore Della Torre lo assume per breve tempo come modello, quindi Ghislanzoni parte per Chieti, vien respinto al confine napoletano, trascorre venti giorni di vita monastica al convento di Grottammare, risolverebbe di farsi frate se non decidesse, alla vista d’una ragazza, di mutar vocazione e in grazia di quella di dare l’addio al convento. Attraversa quindi le Marche, giunge a Monterotondo, è diretto a Roma dove la Repubblica si difende contro molteplici eserciti stranieri, sotto la guida di Mazzini, Armellini, Saffi; ma vien fatto prigioniero dai francesi, conosce il carcere all’isola S. Margherita, vien seviziato e un beduino – addirittura – “tenta l’assalto alla pudicizia” dello scrittore che vien presto trasferito a Bastia». Dopo quattro mesi di prigionia Ghislanzoni restò a Bastia a cantare «per una stagione di sei mesi – ci informa Nava -, trascorsi i quali ebbe da un suo munifico protettore il denaro necessario per recarsi a Parigi. Lasciò la Corsica mel marzo 1850 e giunse nella capitale». Girò poi la Francia: nell’estate del 1853 si trovava a Nizza dove «faceva di tutto – scrive Nava -: libretti che non dovevano essere musicati, lezioni di canto a ricchi americani, corte spietata a graziose donnine innamorate delle sue belle virtù (un’avventura del genere gli fruttò una sfida a duello da un marito geloso)». Per poi proseguire associandosi «ad un certo Bianchi, violinista non oscuro, non foss’altro perché aveva percorso l’intera Europa, lasciando dietro di sé una striscia luminosa di debiti». Infine, il rientro in Italia, fino al fiasco del Teatro Carcano del 1855.
Scrive Benini: «Fischi, grida, contumelie avevano investito le note agonizzanti del baritono Ghislanzoni a Milano, ove qualche anno prima era stato acclamato. E nel momento della sconfitta era stato nientemeno che il Rovani ad augurargli, o a prometteglierli almeno, “gli allori più invidiabili nel campo delle lettere”». Il Rovani è Giuseppe Rovani, conosciuto per il romanzo “Cent’anni”. Evidentemente, annota Benini, aveva ben presente Ghislanzoni, «lo conosceva, ne aveva apprezzato i saggi che di quando in quando lo scrittore lecchese aveva pubblicato».
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Cominciò così la nuova vita di Ghislanzoni, quella di giornalista e letterato: «Scrive romanzi, novelle, racconti – recita il Dizionario storico illustrato di Lecco -, è cronista e poeta, quindi scopre “l’arte di far libretti” e redige circa un centinaio di tali opere con grandissima vena». Collabora con molti giornali, oltre a fondare giornali egli stesso. Osserva Mario Morini: «Poeta lirico e satirico, romanziere, saggista e critico, impresario di molteplici iniziative editoriali e giornalistiche nell’ambito della Scapigliatura lombarda, Antonio Ghislanzoni ebbe un suo pubblico che a lungo gli fu fedele; ma oggi lo si ricorda solo quale autore di “libretti”. E in particolare di quello dell’Aida che lega per sempre il suo nome al nome di Verdi».
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Tra l’altro, la gestazione del libretto dell’Aida fu abbastanza complessa. Ce ne parla Marco Spada in un intervento contenuto nel catalogo della mostra che nel 2022 il Museo egizio di Torino ha dedicato al capolavoro verdiano: «Chi oggi aprisse il libretto di Aida stampato in occasione della prima rappresentazione del Cairo del 24 dicembre 1871, troverebbe scritto “parole di A. Ghislanzoni”: in quello stampato da Ricordi per la prima milanese dell’8 febbraio 1872, modello per tutte le stampe successive, la dicitura muta leggermente in “versi di Antonio Ghislanzoni”. “Parole”, “versi”, ma non “poesia” o più semplicemente “libretto”». E c’è un motivo. Partita dal soggetto di Auguste Mariette, primo direttore del Museo Egizio del Cairo, l’elaborazione del testo vide al lavoro lo stesso Giuseppe Verdi con altri collaboratori per arrivare infine al nostro Ghislanzoni, con il quale la dialettica fu peraltro più che vivace. Il lecchese – conclude Spada – assecondò Verdi «sotto ogni aspetto e fu consapevole del ruolo ancillare che esercitò in questa collaborazione, ma anche della propria maturazione stilistica e del privilegio di associare il suo nome a quello del compositore più prestigioso della sua epoca». Scrivendo a Verdi nel settembre 1870, «Ghislanzoni si aprì con inusitata confidenza: “Siamo incamminati stupendamente. Dunque, non si affanni troppo. Abbia cura di sé stesso. Al pubblico, Ella darà sempre più di quello che esso meriti e si attenda, sebbene, come naturale si attenda moltissimo”. Per questo, con molta modestia e senza mai lamentarsi, accettò di essere ricordato come l’autore dei soli “versi” di Aida». Per quanto concerne il versante giornalistico, ci dice Roberta Colombi: «Occorre riconoscere che tanta profusione di impegno sia giustificabile solo all’interno di una concezione alta dell’attività giornalistica. Sebbene però Ghislanzoni sembra avere del giornalismo un’immagina positiva, un’immagine addirittura educatrice, non ignora di registrarne gli aspetti deteriori di cui ha sempre maggior consapevolezza. In ogni caso, nonostante sin dal ’59 attribuisce al giornalismo la definizione di “ghetto della letteratura”, e sapesse quanto ne esistesse una variante volgare al servizio del potere, anche di opposizione, la continuità e il carattere del suo impegno ribadiscono la “costante vocazione, o “propensione pedagogica” che per lui riveste quell’attività».
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Sul versante letterario, la produzione di Ghislanzoni è multiforme, spaziando dalla satira alla fantascienza, lasciando analisi taglienti della società contemporanea, di certi ambienti che egli aveva a lungo frequentato, della classe politica e anche della sua città d’origine con la quale i rapporti furono sempre problematici. Così Benini introduce il suo studio: «“Nel paesel, gli artefici/ del ferro e della seta,/ me per le vie salutano/ col titol di poeta/ insigne omaggio in patria/ davvero a me vien fatto!/ Poeta pe’ miei villici/ sinonimo è di matto!” Forse le parole meglio rispondenti a definirlo e a definirsi sono quelle – poste qui innanzi – che Antonio Ghislanzoni scrisse per sé, a proposito del fatto che nella sua Lecco egli veniva salutato poeta».
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E come poeta è celerato dalle lapidi e dal monumento cittadini. Proprio concludendo i lavori del convegno del 1993, Ernesto Travi ebbe a dire: «Di Ghislanzoni si è parlato troppo spesso solo come di un dilettante, dalla vocazione tardiva e perciò disordinata, dall’attività multiforme insoddisfatta, capace di far nascere oggi un giornale per poi domani seppellirlo, con la stessa “lieta furia” del suo concittadino Renzo Tramaglino».
Tuttavia «si può parlare di lui, della sua operosa attività anche serenamente, senza dire che tutto quanto ha scritto è ugualmente valido, ma complessivamente riconoscendo che la sua figura riempie veramente la vita letteraria ed artistica del secondo Ottocento milanese e lombardo».
Dario Cercek
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