SCAFFALE LECCHESE/227: Borghi e Scotti 'ricreano' il paesaggio lecchese con 127 tele

Ci sono il Ponte Vecchio e Pescarenico, naturalmente: sono i punti fermi nell’iconografia lecchese. Il Ponte da lunga data, come abbiamo visto anche a proposito di incisioni e vecchie stampe. Pescarenico invece ha conosciuto la gloria soprattutto dopo i “Promessi sposi” manzoniani. Ma uno scorcio tra i più frequentati è anche quello del lungolago con un incombente San Martino. E il mercato, alcune chiese, qualche panorama. Sarebbe proprio una gran bella mostra. Forse di arduo allestimento, articolata in opere disperse fra tante collezioni private. Accontentiamoci, dunque, di guardarli in piccolo formato, i quadri con i quali i pittori hanno dipinto la nostra città tra Otto e Novecento: sono 127 le tele e 57 gli artisti catalogati nel libro “Un paesaggio ricreato” curato da Angelo Borghi e Gianfranco Scotti, pubblicato dalla Casa editrice Stefanoni nel 1999.
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Alcuni sono quadri noti per essere stati già riprodotti in più pubblicazioni, ma per la gran parte si tratta di opere sconosciute ai più, facendo appunto parte di raccolte precluse al grande pubblico. Il libro di Borghi e Scotti ci apre dunque le porte su un patrimonio “segreto”, così come, vent’anni prima, era successo per “Lecco ‘800” di Giampaolo Daddi
Il libro è un percorso storico di Lecco nella pittura. Muovendo da un anonimo che, forse nel 1820, aveva dipinto una Veduta con il Ponte Vecchio in primo piano, «curiosamente reso a schiena di mulo, ancora munito della torre d’accesso per chi proveniva dalla strada di Milano, allora uno stretto sentiero fra boschi e campi».  
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Marco Gozzi, Veduta, 1827
Per proseguire poi con un’altra Veduta, quella del 1827 a opera del bergamasco-milanese Marco Gozzi, il quale «si era già cimentato nel 1809 (e quasi sicuramente ancora nei primi anni Venti) sul territorio di Lecco con un quadro perduto, nello stesso periodo in cui disegnatori e stampatori si occupavano di una nuova rassegna documentaria dei siti pittoreschi dello Stato». Il dipinto «fu esposto a Brera nel 1829 e venne acclamato per le maniere trasparenti e l’irto Resegone, che in verità corrisponde invece al San Martino. (…) Le mostre di Brera erano ormai un fatto mondano ma su di esse si fondavano sia un’ampia committenza, sia l’applicazione dei dilettanti aristocratici nella pittura di paesaggio, fra i quali troviamo il conte Rinaldo di Belgiojoso, che a Lecco possedeva un ampio tenimento»
Del resto, «ben prima che il Manzoni rendesse il senso dell’eterno della cerchia dei monti bizzarri di Lecco e il profondo canto nostalgico delle acque dell’Adda e del lago – scrivono Borghi e Scotti - il paesaggio del famoso ramo del Lario era stato colto nel suo respiro umido ed ampio, nel suo severo e pur tormentoso fascino, così che l’Appiani amava ripetere che questo lago era il più pittoresco di tutti». E il “pittoresco” fu dominante fin verso la metà del secolo XIX quando cominciò a prendere corpo un’altra concezione e alcuni artisti cominciarono a proporne il superamento con «l’immersione nella natura e nei suoi diretti valori coloristici. Dal 1860 la cattedra del paesaggio a Brera viene affidata a [Gaetano] Fasanotti, che introduce per gli allievi l’abitudine a dipingere direttamente sul luogo e all’aria aperta e a ricavare dallo studio degli elementi naturali un disegno più conforme al vero». E «nello stesso tempo appare una immagine di Pescarenico, che diventerà capostipite di una lunga visuale pittorica: nel 1862 Gerolamo Induno esponeva a Torino un quadro vibrante. (…) Da quei dipinti, il villaggio divenne un luogo costante di attrazione per una serie di artisti, probabilmente per le sue caratteristiche di villaggio tipico e non tanto, o non solo, per essere una importante citazione manzoniana». E comunque «le vedute lecchesi improntano gli ultimi due decenni dell’Ottocento in numerose esposizioni a Milano, Torino, Venezia, Napoli, dove aristocrazie a borghesia accolgono con attenzione quello che la stampa e la fotografia – pure costante ausilio dei pittori – non avevano ancora preso in considerazione o non avevano ancora fatto conoscere».
La modernità cambia anche lo sguardo del pittore, perché tra la fine dell’Ottocento e la Grande guerra, scavallando dunque nel XX secolo, si comincia a indugiare sulle officine, sulle fabbriche, sulla «verità dello sviluppo industriale e commerciale di Lecco» che fino ad allora era «rimasta sostanzialmente ignorata, sia nella pittura, sia nelle stampe se non per qualche rara evenienza, come nell’incendio del setificio Dell’Oro del 1861 o in alcune silografie per l’Illustrazione Italiana disegnate da Quintilio Michetti nel 1884: una documentazione più ampia che concerne – fors’anche in ragioni pubblicitarie – i maggiori opifici sparsi sul territorio, da quelli del centro a Castello e a Malavedo, si rintraccia già a partire dal 1882 nella fotografie e nelle cartoline, con una incidenza sempre maggiore all’inizio del Novecento. (…) Il fascino dell’ubicazione di Lecco era comunque immutato».
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Donato Frisia, Il Brick, 1926
Ma «una concezione più moderna della città si propone finalmente nel 1922, quando l’ingegner Giuseppe Riccardo Badoni, sovrastando la freddezza degli industriali, ebbe modo di inaugurare “la primavera del lavoro fecondo” con una Mostra agricola e industriale di prodotti locali, che non si teneva dal 1910. Badoni trovò allora come interprete il toscano Ettore Bartolozzi, il quale avviava nel 1924 la rassegna mensile “La Rivista di Lecco”, stimolo anche allo sviluppo culturale della assonnata città»
La mostra sarebbe poi diventata quella passata alla storia lecchese come Quinquiennale, vetrina del lavoro ma non solo. L’edizione del 1927 fu affiancata da una mostra d’arte che «ebbe come perno una grande retrospettiva di Carlo Pizzi. (…) Era l’occasione per rimeditare il portato della pittura ottocentesca e per riaffermare una “armonioso vitalità spirituale” della gente lombarda. (…) Carlo Pizzi diveniva il “pittore manzoniano”, come cantore vero e appassionato della “bellezza serena di Lecco”».
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Giovanni Trussardi, Veduta di Lecco,  1930
Nel 1930, Ettore Bartolozzi organizza, nelle sale del Dopolavoro, una grande esposizione «per lo più paesaggi (…) e soprattutto una lunga serie di “paesaggi manzoniani” di Orlando Sora. Ai quali viene poi dedicata l’anno seguente buona parte dei trenta quadri della sua personale alla Bottega d’Arte. In tale clima emergono dunque i paesisti che proseguivano una tradizione considerata lombarda ed anzi più classica e italiana di altre scuole». Ci sono, tra gli altri Luigi Pizzi, Giovanni Battista Todeschini, Donato Frisia.
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Ennio Morlotti, I due ponti, 1937
E si arriva alla quarta Quinquennale, anno 1937, quando viene organizzata la storica «Mostra del paesaggio lecchese», che pareva ormai consacrabile come fatto autonomo nell’ambito lombardo; e in questo si ebbe l’accordo fra mondo civile e accademico, stavolta aperti, sotto la personalità di Mario Cereghini, a “passatisti e modernisti” nel nome della divulgazione dell’arte. Esisteva pure una sorta di impalpabile preoccupazione, “alla vigilia forse di un mutamento radicale di questa città confusionista”, che premeva affinché, accanto all’incremento dell’iconografia, i pittori descrivessero la memoria della città dell’industria e del traffico». 
Si tratta della celebre mostra che vide l’esordio di Ennio Morlotti
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Orlando Sora, Veduta di Lecco, 1937
«Settanta artisti risposero con 154 tele, soggette a una giuria composta da Cereghini, Barbieri, Funi, Radice e Peroni, che assegnò premi a Ugo Bernasconi, Raffaele De Grada, Cesare Breveglieri, Angelo Del Bon, Umberto Lilloni e Orlando Sora. (…) In definitiva, questa mostra del 1937 segna un punto di arrivo decisamente innovativo nelle visuali lecchesi, con un ampio corpus che ben a ragione dovrebbe essere maggiormente considerato per lo studio delle motivazioni di un paesaggio ormai fortemente individuato, ma che nella sua variabilità sembra tanto distante da ogni interpretazione manzoniana».
Superata la seconda guerra mondiale, il racconto arriva fino al 1948, quando, sempre a margine della Quinquennale, viene allestita «una Mostra retrospettiva dell’Ottocento e Poma, Pizzi, Gozzi, Canella, Formis, Todeschini, Maffia, erano usciti ancora volta dall’oblio, per consolare con “aria sana e vivificatrice”, frase curiosamente ma logicamente accostabile alla linea antinovecentista propugnata venticinque anni innanzi da Bartolozzi».
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Amilcare Zelioli, Monte Barro, 1963
La città di quell’immediato secondo dopoguerra «era ancora percorsa da numerosi artisti, dai moduli diversi, sempre interessati al rinnovato respiro dei traffici, reso con neoimpressionismo lombardo in un anonimo “Mercato” del cui fermento vivono i caratteri palazzi del centro. Emergeva Franco Alquati, in soggetti religiosi, in nature morte, rievocazioni fantastiche, ed anche vedute veneziane e lecchesi. (…) Si provava nel paesaggio anche Gianni Secomandi, più noto per lo sperimentalismo dal clima informale allo spazialismo. (…) Prossimo alla poetica chiarista si mostrava lo scultore Mozzanica (…) che nel 1953 si proponeva in una sorta di candido classicismo. (…) Una vibrazione simile percorreva l’opera ormai matura di Giannina Baggioli. (…) Una via particolarissima seguiva fin dal 1942 Ampelio Bonora». E infine «come in un canto panteista si alza la fronte del “Monte Barro” nell’intellettivo quadro» del 1963 di Amilcare Zelioli.
Dario Cercek
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