SCAFFALE LECCHESE/204: Giovanni Pozzi e le sue 'memorie mediche'
In questi giorni di festeggiamenti per i 150 anni di fondazione della sezione lecchese del Club alpino, si ricorda naturalmente la figura di Giovanni Pozzi (1850-1889) autentico promotore dell’associazione e primo effettivo presidente, subentrando in un batter di ciglia a un Antonio Stoppani eletto ad honorem ma già alla testa del Cai milanese. Nel 1883, inoltre, Pozzi pubblicò la prima guida escursionistica dei nostri monti.
Non c’è però solo un aspetto “alpinistico” a cui guardare. Giovanni Pozzi fu infatti personaggio multiforme. Sulle orme del fratello Ernesto, fu volontario garibaldino: soltanto sedicenne partecipò alla campagna trentina del 1866. Dai lecchesi è anche ricordato per i suoi “Cenni storici delle città di Lecco e Barra”, un volume del 1884 da considerarsi il primo tentativo di redigere una storia della città.Nella quotidianità, Pozzi era un medico condotto e nel 1873, proprio nell’anno in cui cominciava a esercitare la professione, pubblicava con la lecchese “Tipografia del Commercio di A. Piantini” le “Memorie mediche intorno a Lecco e suo territorio” con uno sguardo particolare rivolto alle condizioni lavorative nelle fabbriche della città.
A descriverci l’uomo ci rimangono le parole di un giovane e non ancora illustre Mario Cermenati che il 12 gennaio 1890, poche settimane dopo la morte di Pozzi, ne tenne la commemorazione ufficiale alla sede sezionale del Cai che provvide poi a stampare la relazione in un opuscoletto uscito di lì a poco dalla tipografia dei Fratelli Grassi. Tornato dalla terza guerra d’indipendenza – ci tramanda Cermenati – l’acquatese Giovanni Pozzi «proseguiva nella lunga carriera degli studi, tutto inteso nelle difficili ed intricate questioni della medicina. In chirurgia specialmente acquistò tosto la reputazione di valente operatore» tanto che il professor Vanzetti dell’Università di Padova «lo pregò più volte di rimanere presso di lui in qualità di assistente. Ma il Pozzi, una volta laureato, preferì ritornare al suo paese natio, ad esercitarvi l’arte medica nella cerchia modesta della condotta di Castello sopra Lecco, alla quale aggiunse più tardi anche quella di Malgrate. (…) Vorrei avere la necessaria competenza per parlarvi degnamente della sua profonda coltura medica e della sua riconosciuta abilità chirurgica. (…) Scrisse dapprima le pregiate “Memorie mediche intorno a Lecco e suo territorio”, edizione attualmente esaurita.In seguito, per ordine ministeriale, dettò una elaborata relazione sulle principali infermità che per un decennio furono constatate nelle leve militari della nostra provincia. (…) Ma il suo lavoro più importante di medicina è quello che riguarda le “Diagnosi differenziali delle malattie del sistema nervoso, del petto e dell’addome” (Lecco, 1877). E’ un utilissimo manuale dove sono esposte con ordine e chiarezza tutte le questioni che ogni giorno si possono presentare a un medico».Ci siamo soffermati sul ritratto del Pozzi medico, perché proprio delle “Memorie mediche” vogliamo parlare: si tratta di un breve studio che ci offre un quadro della Lecco industriale della seconda metà dell’Ottocento. Ed è quadro non proprio idilliaco.
Certo, «a larga mano profuse la natura le sue bellezze nel territorio di Lecco» dove l’atmosfera è limpida, «carica di molto ozono», il clima «non mai troppo freddo, né troppo caldo e «il suolo così stupendamente accidentato», tutti elementi che consentono «un invidiabile soggiorno». I lecchesi, naturalmente, sono molto, troppo, concreti: «In generale gli abitanti sono faceti, attivi, e intraprendenti non di leggieri si intimoriscono degli ostacoli che loro si parano innanzi, ma li sfidano, e molte fiate li superano. Concetto ed aspirazione della pluralità è quello del guadagno e, per esso s’affaticano, e si adoperano a tutt’uomo, sì che, è d’uopo confessarlo, non vengono, qual si dovrebbe, coltivati gli studi, né esistono le dolci consuetudini di geniali convegni e conversari, né lo spirito d’associazione, i quali importano più di quanto si creda allo sviluppo fisico e morale dell’uomo. Sarebbe questo un argomento psicologico degno di trattazione, non superficiale ma severa; un argomento di grande interesse anche per il medico».
Il quale medico guarda allo sviluppo della città con un occhio particolare.
«Il commercio – scrive Pozzi - qui è tutto; gli stabilimenti industriali si seguono, e si accavallano, tant’è la loro frequenza; ma se l’economista a buon diritto scorge in essi un grande progresso, il medico, pur ammirando le grandi opere e lo sviluppo mercantile, e riconoscendo che in tale guisa la condizione sociale di molti è migliorata, si rattrista se tutto ciò considerato dal lato igienico, dal lato sanitario».Basterebbe pensare alla vallata del Gerenzone che ancora nel 1902 la guida turistica del Touring club definitiva un’autentica bolgia insalubre.
Pozzi rileva come nella vallata di San Giovanni «spulezzano molti corpi stranieri, prodotti della combustione, i quali in seno ai venti sono trasportati a grandi distanze. E’ uno spettacolo, in certe giornate d’inverno, vedere la neve, appena caduta, coprirsi di un nero manto prodotto da questi carboniosi polviscoli» che creano guasti anche «su apparato digerente e polmonare».
Per non parlare delle acque dei torrenti «ed in ispecie del Caldone e del Gerenzone, le quali sovente si vedono scorrere intorbidate, giallastre per le materie eterogenee ed insalubri, che impunemente vi vengono gettate dai conduttori delle fucine (…) e s’aggiunga poi che non da per tutto esistono fontane, dove lavare i vestiti, o raccogliere l’acqua da bere o per altri usi domestici in genere, per la qual cosa molti sono costretti a servirsi dell’acqua del fiume naturalmente impura e qui resa spesso dannosa dall’arte. Le biancherie e gli abiti, che in quell’acqua guasta si lavano, ben tosto mutano colori e agevolmente si lacerano». E ancora, si ricordano un cavallo avvelenato per aver bevuto l’acqua del Gerenzone e un ragazzo sentitosi male dopo essersi dissetato alla pubblica fonte a Castione: «E’ scandaloso che un farmacista debba tenere sotto chiave certi veleni, mentre non si ha riguardo di sorta per le materia venefiche, che senza opposizione di privati e di autorità si fanno attraversare il territorio colle acque dei fiumi. Udii come il locale consiglio sanitario discusse una volta tale negozio, ma fin’ora non fu preso provvedimento di sorta».
Dovranno passare altri cent’anni e più perché Caldone e Gerenzone tornino a scorrere limpidi (contestualmente – occorre dire – con il declino industriale della città).
Ecco quindi queste “memorie” come un’indagine sanitaria: «Percorriamo assieme gli opifici di questi paraggi (…) fermiamo la nostra attenzione puramente intorno ad alcune forme morbose, e cerchiamo per quanto è possibile di tracciare a grandi pennellate la storia di patologia speciale di questi paesi» passando in rassegna i vari mestieri e quelle che molti decenni dopo saranno chiamate le malattie professionali.
L’esame comincia coi fucinieri e gli operai addetti alle fornaci di calce, alle macine di cementi, di barite e di zolfo, che lavorano in «grandi cameroni dei quali l’atmosfera appare fitta nebbia di piccole particelle volitanti, le quali lasciano vedere gli operai come attraverso un fosco cristallo e sfuggono persino tra i capillari e anfrattuosi meati di umide spugne, che talora si applicano alla bocca e alle narici. (…) Si visitano dei robusti giovani e dopo non molto tempo che sono addetti ai mestieri di cui ora tengo parola» si riscontrano problemi allo stomaco, deperimento nella nutrizione: «la malattia come il ladro fra le tenebre, ha ormai preso stanza nel loro organismo, e modifica, altera tutti i tessuti senza manifestarsi con sintomi rilevanti. E’ lento il lavoro che compie, ma lascia in modo inatteso profonda ferita» .Vengono poi setifici e filatoi, nei quali i rischi non sono solo di carattere sanitario, ma anche morale: «Negli stabilimenti serici affluisce grande quantità e di uomini e di donne. Inutile è il rammentare che vi regna la corruzione, benché non come negli stabilimenti di Manchester o di Lione, e inutile è il ricordare il grave danno che deriva dalla riprovevole consuetudine d’impiegarvi teneri ragazzi e fanciulle»: mal nutriti e calzati, costretti a respirare aria confinata e a stare quieti «il che non è naturale ai giovinetti» ma anche «ad udire discorsi, i quali fanno nascere in loro il vizio».
Patologie diffuse sono scrofola, rachitismo, forme tumorali, mestruazioni precoci, “isterismo”, problemi polmonari e all’apparato digestivo. Del resto, le filandiere vanno in fabbrica con qualsiasi tempo e se strada facendo si bagnano poi lavorano per l’intero giorno con gli abiti inzuppati, usano zoccoli che si rivelano dannosi anche perché sono costrette a stare in piedi, tengono a lungo le mani in acqua, sono soggette a repentino passaggi dal freddo al caldo. E infine, appunto, la «morale non troppo illibata» con le giovanissime operaie insidiate pressoché a ogni passo. E dunque «la società, continuando in tal modo, non può che deperire».
Vi sono poi i barcaiuoli, «in genere persone forti, basta guardare come si gettano sui remi per capire come vi siano tutte le circostanze propizie all’enfisema polmonare». Malattie: ipertrofia muscolare, ipertrofia cardiaca, reumatismi. E sul lago si incontrano anche le lavandaie, «inginocchiate, col tronco curvo all’innanzi, colla testa bassa e col torace e l’addome compresi», una posizione che certamente «non può garbare a nessuno».
Infine, Pozzi si occupa di problemi medici generali, raccomandando alla famiglie che, a proposito di matrimonio e di baliatico, non pensino «solo alle ricchezze ma anche allo stato fisico degli sposi», soffermandosi sul problema delle nozze endogamiche, della prima educazione da impartire agli infanti, delle bevande alcoliche, del tabacco e infine del ricorso al salasso al quale la medicina ricorreva ancora abbondantemente nella seconda metà dell’Ottocento, probabilmente in maniera un po’ sconsiderata. Scrive infatti il nostro medico: «Se la triste abitudine delle bevande alcooliche è fonte molte volte di inattesi malori, altra peggiore per noi è l’abitudine delle frequenti sottrazioni sanguigne. Colleghi! Non imprecate (…) vi invito a ragionare placidamente».
Non c’è però solo un aspetto “alpinistico” a cui guardare. Giovanni Pozzi fu infatti personaggio multiforme. Sulle orme del fratello Ernesto, fu volontario garibaldino: soltanto sedicenne partecipò alla campagna trentina del 1866. Dai lecchesi è anche ricordato per i suoi “Cenni storici delle città di Lecco e Barra”, un volume del 1884 da considerarsi il primo tentativo di redigere una storia della città.Nella quotidianità, Pozzi era un medico condotto e nel 1873, proprio nell’anno in cui cominciava a esercitare la professione, pubblicava con la lecchese “Tipografia del Commercio di A. Piantini” le “Memorie mediche intorno a Lecco e suo territorio” con uno sguardo particolare rivolto alle condizioni lavorative nelle fabbriche della città.
A descriverci l’uomo ci rimangono le parole di un giovane e non ancora illustre Mario Cermenati che il 12 gennaio 1890, poche settimane dopo la morte di Pozzi, ne tenne la commemorazione ufficiale alla sede sezionale del Cai che provvide poi a stampare la relazione in un opuscoletto uscito di lì a poco dalla tipografia dei Fratelli Grassi. Tornato dalla terza guerra d’indipendenza – ci tramanda Cermenati – l’acquatese Giovanni Pozzi «proseguiva nella lunga carriera degli studi, tutto inteso nelle difficili ed intricate questioni della medicina. In chirurgia specialmente acquistò tosto la reputazione di valente operatore» tanto che il professor Vanzetti dell’Università di Padova «lo pregò più volte di rimanere presso di lui in qualità di assistente. Ma il Pozzi, una volta laureato, preferì ritornare al suo paese natio, ad esercitarvi l’arte medica nella cerchia modesta della condotta di Castello sopra Lecco, alla quale aggiunse più tardi anche quella di Malgrate. (…) Vorrei avere la necessaria competenza per parlarvi degnamente della sua profonda coltura medica e della sua riconosciuta abilità chirurgica. (…) Scrisse dapprima le pregiate “Memorie mediche intorno a Lecco e suo territorio”, edizione attualmente esaurita.In seguito, per ordine ministeriale, dettò una elaborata relazione sulle principali infermità che per un decennio furono constatate nelle leve militari della nostra provincia. (…) Ma il suo lavoro più importante di medicina è quello che riguarda le “Diagnosi differenziali delle malattie del sistema nervoso, del petto e dell’addome” (Lecco, 1877). E’ un utilissimo manuale dove sono esposte con ordine e chiarezza tutte le questioni che ogni giorno si possono presentare a un medico».Ci siamo soffermati sul ritratto del Pozzi medico, perché proprio delle “Memorie mediche” vogliamo parlare: si tratta di un breve studio che ci offre un quadro della Lecco industriale della seconda metà dell’Ottocento. Ed è quadro non proprio idilliaco.
Certo, «a larga mano profuse la natura le sue bellezze nel territorio di Lecco» dove l’atmosfera è limpida, «carica di molto ozono», il clima «non mai troppo freddo, né troppo caldo e «il suolo così stupendamente accidentato», tutti elementi che consentono «un invidiabile soggiorno». I lecchesi, naturalmente, sono molto, troppo, concreti: «In generale gli abitanti sono faceti, attivi, e intraprendenti non di leggieri si intimoriscono degli ostacoli che loro si parano innanzi, ma li sfidano, e molte fiate li superano. Concetto ed aspirazione della pluralità è quello del guadagno e, per esso s’affaticano, e si adoperano a tutt’uomo, sì che, è d’uopo confessarlo, non vengono, qual si dovrebbe, coltivati gli studi, né esistono le dolci consuetudini di geniali convegni e conversari, né lo spirito d’associazione, i quali importano più di quanto si creda allo sviluppo fisico e morale dell’uomo. Sarebbe questo un argomento psicologico degno di trattazione, non superficiale ma severa; un argomento di grande interesse anche per il medico».
Il quale medico guarda allo sviluppo della città con un occhio particolare.
«Il commercio – scrive Pozzi - qui è tutto; gli stabilimenti industriali si seguono, e si accavallano, tant’è la loro frequenza; ma se l’economista a buon diritto scorge in essi un grande progresso, il medico, pur ammirando le grandi opere e lo sviluppo mercantile, e riconoscendo che in tale guisa la condizione sociale di molti è migliorata, si rattrista se tutto ciò considerato dal lato igienico, dal lato sanitario».Basterebbe pensare alla vallata del Gerenzone che ancora nel 1902 la guida turistica del Touring club definitiva un’autentica bolgia insalubre.
Pozzi rileva come nella vallata di San Giovanni «spulezzano molti corpi stranieri, prodotti della combustione, i quali in seno ai venti sono trasportati a grandi distanze. E’ uno spettacolo, in certe giornate d’inverno, vedere la neve, appena caduta, coprirsi di un nero manto prodotto da questi carboniosi polviscoli» che creano guasti anche «su apparato digerente e polmonare».
Per non parlare delle acque dei torrenti «ed in ispecie del Caldone e del Gerenzone, le quali sovente si vedono scorrere intorbidate, giallastre per le materie eterogenee ed insalubri, che impunemente vi vengono gettate dai conduttori delle fucine (…) e s’aggiunga poi che non da per tutto esistono fontane, dove lavare i vestiti, o raccogliere l’acqua da bere o per altri usi domestici in genere, per la qual cosa molti sono costretti a servirsi dell’acqua del fiume naturalmente impura e qui resa spesso dannosa dall’arte. Le biancherie e gli abiti, che in quell’acqua guasta si lavano, ben tosto mutano colori e agevolmente si lacerano». E ancora, si ricordano un cavallo avvelenato per aver bevuto l’acqua del Gerenzone e un ragazzo sentitosi male dopo essersi dissetato alla pubblica fonte a Castione: «E’ scandaloso che un farmacista debba tenere sotto chiave certi veleni, mentre non si ha riguardo di sorta per le materia venefiche, che senza opposizione di privati e di autorità si fanno attraversare il territorio colle acque dei fiumi. Udii come il locale consiglio sanitario discusse una volta tale negozio, ma fin’ora non fu preso provvedimento di sorta».
Dovranno passare altri cent’anni e più perché Caldone e Gerenzone tornino a scorrere limpidi (contestualmente – occorre dire – con il declino industriale della città).
Ecco quindi queste “memorie” come un’indagine sanitaria: «Percorriamo assieme gli opifici di questi paraggi (…) fermiamo la nostra attenzione puramente intorno ad alcune forme morbose, e cerchiamo per quanto è possibile di tracciare a grandi pennellate la storia di patologia speciale di questi paesi» passando in rassegna i vari mestieri e quelle che molti decenni dopo saranno chiamate le malattie professionali.
L’esame comincia coi fucinieri e gli operai addetti alle fornaci di calce, alle macine di cementi, di barite e di zolfo, che lavorano in «grandi cameroni dei quali l’atmosfera appare fitta nebbia di piccole particelle volitanti, le quali lasciano vedere gli operai come attraverso un fosco cristallo e sfuggono persino tra i capillari e anfrattuosi meati di umide spugne, che talora si applicano alla bocca e alle narici. (…) Si visitano dei robusti giovani e dopo non molto tempo che sono addetti ai mestieri di cui ora tengo parola» si riscontrano problemi allo stomaco, deperimento nella nutrizione: «la malattia come il ladro fra le tenebre, ha ormai preso stanza nel loro organismo, e modifica, altera tutti i tessuti senza manifestarsi con sintomi rilevanti. E’ lento il lavoro che compie, ma lascia in modo inatteso profonda ferita» .Vengono poi setifici e filatoi, nei quali i rischi non sono solo di carattere sanitario, ma anche morale: «Negli stabilimenti serici affluisce grande quantità e di uomini e di donne. Inutile è il rammentare che vi regna la corruzione, benché non come negli stabilimenti di Manchester o di Lione, e inutile è il ricordare il grave danno che deriva dalla riprovevole consuetudine d’impiegarvi teneri ragazzi e fanciulle»: mal nutriti e calzati, costretti a respirare aria confinata e a stare quieti «il che non è naturale ai giovinetti» ma anche «ad udire discorsi, i quali fanno nascere in loro il vizio».
Patologie diffuse sono scrofola, rachitismo, forme tumorali, mestruazioni precoci, “isterismo”, problemi polmonari e all’apparato digestivo. Del resto, le filandiere vanno in fabbrica con qualsiasi tempo e se strada facendo si bagnano poi lavorano per l’intero giorno con gli abiti inzuppati, usano zoccoli che si rivelano dannosi anche perché sono costrette a stare in piedi, tengono a lungo le mani in acqua, sono soggette a repentino passaggi dal freddo al caldo. E infine, appunto, la «morale non troppo illibata» con le giovanissime operaie insidiate pressoché a ogni passo. E dunque «la società, continuando in tal modo, non può che deperire».
Vi sono poi i barcaiuoli, «in genere persone forti, basta guardare come si gettano sui remi per capire come vi siano tutte le circostanze propizie all’enfisema polmonare». Malattie: ipertrofia muscolare, ipertrofia cardiaca, reumatismi. E sul lago si incontrano anche le lavandaie, «inginocchiate, col tronco curvo all’innanzi, colla testa bassa e col torace e l’addome compresi», una posizione che certamente «non può garbare a nessuno».
Infine, Pozzi si occupa di problemi medici generali, raccomandando alla famiglie che, a proposito di matrimonio e di baliatico, non pensino «solo alle ricchezze ma anche allo stato fisico degli sposi», soffermandosi sul problema delle nozze endogamiche, della prima educazione da impartire agli infanti, delle bevande alcoliche, del tabacco e infine del ricorso al salasso al quale la medicina ricorreva ancora abbondantemente nella seconda metà dell’Ottocento, probabilmente in maniera un po’ sconsiderata. Scrive infatti il nostro medico: «Se la triste abitudine delle bevande alcooliche è fonte molte volte di inattesi malori, altra peggiore per noi è l’abitudine delle frequenti sottrazioni sanguigne. Colleghi! Non imprecate (…) vi invito a ragionare placidamente».
Dario Cercek