SCAFFALE LECCHESE/61: le prime guide escursionistiche, tante mete e consigli... 'sempreverdi'

La “scoperta” della montagna come luogo di svago, si sa, risale all’Ottocento. Nella seconda metà del secolo è un vero e proprio “movimento”. Non è ancora turismo di massa, quello arriverà molto più avanti. Ma già sorgono le prime associazioni alpinistiche ed escursionistiche. E, in qualche modo, nasce anche l’editoria di montagna. Quanto meno, arrivano le prime pubblicazioni. E Lecco – che sull’andare in montagna produrrà vanti e retorica – non è da meno. Perché chi va per sentieri ha anche bisogno di indicazioni e istruzioni. Si cominciano pertanto a pubblicare guide escursionistiche.


Giovanni Pozzi

La prima guida lecchese è quella realizzata da Giovanni Pozzi, medico acquatese dalla non lunga vita: nasce nel 1850 e muore nel 1889. Combattente garibaldino in gioventù, è anche un appassionato alpinista e nel 1874 è tra i fondatori della sezione lecchese del Cai, il cui presidente sarebbe Antonio Stoppani, ma quello dell’abate è mero ruolo onorifico. A tirare la carretta è lui, Pozzi, il quale dopo non molto viene investito ufficialmente del massimo incarico.
Già nel 1881, redige il capitolo dedicato alle “escursioni alpine” nella prima guida turistica lecchese, quella compilata da Giuseppe Fumagalli ed edita da “Vincenzo Andreotti detto Busall”. Tre anni dopo, nel 1883, dà alle stampe appunto la prima “Guida delle Prealpi di Lecco” con tanto di “carta topografica”. Edita dallo stesso “Busall”, ma su iniziativa delle sezioni Cai di Bergamo e Milano.



Nella prefazione, Pozzi dice di non avere «la pretesa d’avere scritto una guida interessante» pur nella vivida speranza di «fare un alpinista di più, uno solo ma che sia come il pulviscolo di neve che diventa valanga, un alpinista che ne trascini cento e sappia suscitare un esercito di esploratori delle prealpi di Lecco, oggidì poco note o mal note, e lasciate in ingiusta dimenticanza».
Spiega d’essere invero solo un «povero medico di campagna che vive tra tormenti e tormentati», assistendo «a dolorose nascite e a più dolorose morti», ed è quindi solito fuggire «su per i monti in cerca di “più spirabili aere” ove il grandioso spettacolo della sublimità del creato mi faccia dimenticare per un istante le dure realtà dell’esistenza. Allora, abbandonata la zavorra de’ tristi pensieri e gettandomi a corpo perduto negli sconfinati ideali, mi sembra di nuotare nell’immensità dell’infinito; i polmoni respirano aria purissima ritemprando le forze dei muscoli e del cervello, e disponendomi così a sostenere nuove fatiche e nuove battaglie per l’avvenire».


In alto il Legnoncino e l'Albergo Monte Codano a Esino
Sotto il Pizzo Tre Signori e il Resegone

Da “povero medico”, Pozzi annota alcuni “appunti igienici di alpinismo” che altro non sono se non le raccomandazioni che ritroviamo ancora nelle guide moderne. Da allora, ed è passato quasi un secolo e mezzo, l’impostazione di fondo non è quindi sostanzialmente mutata.
Vale comunque la pena soffermarsi sugli “appunti igienici”. Il primissimo suggerimento: «Camminando in salita, non fate mai il passo né troppo breve né troppo lungo, ché vi stanchereste subito». Dopo di che, Pozzi consiglia di usare guanti di filo di Scozia nel caso si usi il “bastone alpino” che è poi l’alpenstock, quasi un reperto archeologico scomparso e ai tempi nostri “resuscitato” in forma di bacchette d’alluminio; consiglia inoltre di usare “occhiali affumicati”, i nostri occhiali da sole, se ci si trova su un ghiacciaio e un nevaio; di ungersi mani e viso «non di glicerina ma d’olio di mandorla» in caso di vento rigido; di «non mettere in bocca dei fiori, che come quelli dell’acònito, dello stramonio, della cicuta, del ranuncolo scellerato, potrebbero sconcertare il vostro organismo e io ebbi a curare più d’una volta i tristi effetti di tali imprudenze».


In alto Lecco e il San Martino, il Monte Albano e il Monte Domane
Sotto l'Albergo Manzini a Maggianico, Lecco e il Magnodeno

Per l’esattezza, sono 25 i consigli: si beva pure strada facendo «ancorché sudati, a patto però di mettervi subito nuovamente in cammino». Acqua, naturalmente, perché «chi fa molto uso di liquori non è un buon alpinista»: però vengono utili, i liquori, quando si è stanchi o, addirittura, «si deve superare un punto erto e difficile». E via elencando: l’attenersi a parchi pranzi; fare attenzione al rischio di indigestioni e «se vi sentite un peso sullo stomaco, vi consiglio di eccitarvi il vomito con il cacciarvi un dito in gola» e ciò magari lo si sa, non però che si debba a ciò far «seguire un sorso d’acquavite o di liquore equivalente» schivando «così disturbi intestinali, mal di testa e lungo malessere». E oltre: la cura delle piaghe, le vertigini e il mal di montagna, ma anche il guado di acque ghiacciate.


Il Monte San Primo

Infine, i colpi di sole per i quali vanno applicate «sulla fronte delle pezzuole bagnate d’ammoniaca». Ma meglio dell’ammoniaca «serve in questo caso la così detta Idroleucia (Acqua di Lecco): specialità recentissima preparata dal chimico signor Giuseppe Fumagalli in Lecco». Viene da sorridere a noialtri lettori di un secolo e passa dopo. Non ci trovassimo tra le mani un libro di seria reputazione, la prenderemmo per una burla: l’Idroleucia. E chissà poi per quanto sarà stata in commercio.
Sorvoliamo sulle “generalità orografiche” e i “cenni di scienze naturali” con la flora, gli insetti, le “conchiglie” e cioè le chiocciole, diffusi sui nostri monti. E magari qualche ingenuità come quella a proposito del monte San Martino dove «hanno vita feconda le vipere che riescono assai ben sviluppate e più velenose che altrove».
Complessivamente, gli itinerari segnalati sono sedici (con qualche variante) e si tratta già delle “grandi classiche”, delle passeggiate che accomunano generazioni lecchesi in oltre cent’anni di scarpinate. Raccontate con tanto di notizie storiche a cominciare dalla leggendaria città di Barra che si guadagna una lunga digressione, per arrivare all’interesse degli etnografi per i «bizzarri costumi specialmente ad Esino ed a Premana».


La vista dal Barro

Si tratta di “passeggiate” - come lo stesso Pozzi le definisce - che, in questa guida del 1884, prevedono Lecco come partenza e come arrivo. Imprese significative, pertanto: lunghe marce e grandi dislivelli. Tutto a piedi, calcolando quindi eventuali tappe intermedie: i trasporti sono quelli che sono, i rifugi alpini sono di là dall’essere soltanto immaginati e ci si deve appoggiare su alberghi, locande, stanze private. A Morterone, per esempio, «l’alpinista, quando abbisognasse di schiarimenti o di qualche altro letto, potrà rivolgersi al prete, gioviale e buono».
La stessa “mappa escursionistica” è ancora tutta da inventare: il reticolo dei sentieri è quello frequentato da contadini e pastori, con altre finalità che non il raggiungere una vetta o compiere un anello per semplice diletto. Del resto, se oggi siamo abituati a percorsi segnalati, allora ci si deve ancora affidare a chi la montagna la conosce. Non per niente, il libro riporta un elenco di guide alpine a cui rivolgersi con tanto di tariffe «convenute da una associazione di alpinisti».
Una decina di nomi, qualcuno a buon mercato e qualcuno che si fa ben pagare, un paio di osti, un falegname nonché un «distinto cacciatore» al quale chiedere informazioni. Prezzi diversi secondo meta e guide: otto lire per salire sul Resegone o sul Legnone, dieci per le Grigne (ma tale Celestino Invernizzi detto Laveg di Pasturo ne chiede 17 per il Grignone, mentre Angelo Locatelli di Ballabio si accontenta di 5 per la Grignetta).


Il panorama dal Legnoncino

Mete semplici come il Monte Barro o il San Genesio in Brianza, i Corni di Canzo o il Monte San Primo. Naturalmente, il Resegone con l’inevitabile riferimento manzoniano e che «è il Righi, il Generoso, il Motterone del territorio di Lecco»: comparazione di cui oggi ci offenderemmo. E poi mete più impegnative: il Legnone, il Pizzo dei Tre Signori. Ovviamente le Grigne che «non sono già due, ma tre e così nominate: quella nordica, più alta delle altre, e in pari tempo più importante, la diremo Grigna Settentrionale o di Pasturo, oppure monte Codano; l’altra Meridionale è detta Grigna Pelada, o Grignetta o Grigna di Ballabio. Senonché queste due sono fra loro congiunte dalla Grigna di mezzo, la quale è chiamata monte Campione». Per tutte, o quasi, si indicano anche le ore di cammino. Che ci sembrano, in verità, un po’ sbalorditive.
Le mete, dunque. Il Monte Barro, abbiamo detto: «una bellissima montagna, quantunque vista da Lecco, si presenta meno estetica delle altre sue sorelle». Per salirci, si imbocca la via «che più aggrada», passato il ponte sull’Adda: l’itinerario consigliato tocca San Michele, il Sasso della Vecchia, l’eremo allora non ancora sanatorio e quindi la vetta delle Tre Croci («perché un giorno, non molto lontano, era ornata da tre grandi croci che il tempo distrusse completamente») e poi la discesa verso Galbiate «per una larga strada mulattiera molto ripida e facile a sdrucciolare» e poi da Galbiate alle Torrette «lungo un ampio stradone recentemente costruito, bellissimo, romantico, e assai somigliante a quelli alpestri della vicina Elvezia».
Oltre Galbiate, verso la Brianza, il San Genesio, monte «frequentemente visitato dagli alpinisti e persino dal gentil sesso, essendoci poche difficoltà a superarsi e di nessun conto; infine perché non presenta per nessuna via il più piccolo dei pericoli».


La Val Biandino, ai piedi del Pizzo Tre Signori

In quanto al Resegone, «vi sono sentieri per signorine non atte a troppa fatica, non fatte per comprimere il piedino su accuminati macigni, e tanto meno poi esporsi al pericolo delle vertigini mentre ve ne sono altri più difficili pil quali il provetto alpinista si compiace delle forti emozioni del pericolo, della soddisfazione di averli superati, e dal maggior compenso dal lato della bellezza della passeggiata». E da una parte la Val d’Erve e da un’altra Neguccio che ha «l’aspetto di un giardino alpestre», per quanto «anziché escursione può dirsi questa una facile romantica passeggiata e null’altro». Scendendo a Maggianico, ci si imbatte nella cascata del tufo (il torrente Tuf) così denominata perché «dà origine a dei tufi dentritici molto ricercati per l’ornamentazione dei giardini» e negli stabilimenti termali del «solerte ed intelligente proprietario ing. Monzini» che muore per aneurisma proprio «mentre si stavano disponendo queste pagine per la tiratura». Da un’altra parte ancora, Morterone che può essere pure punto di partenza verso la Bergamasca, “Vedesetta” e la cascata del Fiume-latte.
Altra vetta è il San Martino. Il percorso descritto non ci appare chiaro: la cappelletta e il “convento”, il sentiero che si stacca a metà strada e raggiunge la vetta con la croce da dove «si può discendere comodamente ad Abbadia oppure nella valle Caloldeno»: e qui non ci tornano i conti: che sia spinto un po’ troppo in su? Di Resinelli e del Roccolo in effetti, si parla in altre pagine, quelle dedicate alle Grigna Meridionale e alle miniere di piombo, alcune chiuse «servendo in estate al modesto ufficio di freschi magazzini di stracchini o di frutta».
Non manca la Valsassina con l’ascesa al Pizzo dei Tre Signori da “Introbbio” e la Val Biandino per poi discendere verso la Val Varrone e Premana. O la salita alla vetta del Legnone addirittura da Dervio e la discesa a Pagnona. Da Lecco si può camminare fino ad Almenno nella Bergamasca passando per la Culmine di San Pietro dove ci sono prati, baite e una casa «che d’estate è abitata dal prete, il quale, fumando la pipa, vende litri di vino».
C’è anche l’esplorazione del territorio di Lecco con quelli che allora erano ancora paesi a sé e non rioni di una città più estesa e che si raggiungevano percorrendo sentieri di campagna e ciascuno di quei villaggi offriva le proprie peculiarità: dalle fumiganti fucine di Castello alle grotte di Laorca. O i villaggi ai piedi del Sasso d’Erna «una montagna poco bella, ma vista da Lecco quando una nube va a porsi dietro di essa e la distacca dal Resegone o quando il sole a tramontana projetta grandi ombre che ne disegnano in modo spiccato le linee maestose sembra un masso messo lì apposta da un sapiente artista per accrescere il bello estetico del Resegone».


La Grigna Meridionale

Infine, i Corni di Canzo, passando per Valmadrera e Gianvacca (toponimo al quale oggi si preferisce un più raffinato Belvedere) e scendendo poi a Pusiano. Senza dimenticare a Canzo di dare un’occhiata alla cascata della Vallategna e di assaggiare il Vespetrò, liquore d’erbe nell’Ottocento particolarmente rinomato.
La guida si conclude con alcune notizie pratiche (l’altimetria dei principali monti, passi e paesi delle Prealpi di Lecco; l’elenco dei paesi e della loro distanza da Lecco, il riassunto dell’ultimo triennio di rilevamenti meteo; le misure del lago e informazioni sulla navigabilità dei fiumi: allora lo erano ancora; infine, gli alberghi e appunto le guide alpine) e con un’appendice che è una riflessione sulla montagna: «Quando le assidue occupazioni – l’incipit – o lo studio indefesso hanno stancata la mente; quando l’inerzia fisica ci ha fiacchite le fibre del corpo; l’alpinismo diventa il metodo terapeutico più efficace per tornare alla vita novella».
Sarebbe bello che qualcuno pensasse di ripubblicare quella guida. Giriamo l’idea al Cai lecchese che nel 2024 compirà 150 anni. Potrebbe essere un omaggio al suo primo presidente (non facendo testo lo Stoppani).

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Dario Cercek
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