SCAFFALE LECCHESE/233: l'evoluzione di alpinismo e sci in Valsassina e sopra la città

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Il primo sciatore ? «Un tedesco equipaggiato con un sacco da montagna e scarponi e fornito di un buffo paio di assicelle di legno ricurve in punta che, nel 1900, chiese a Ballabio la strada per raggiungere i Piani Resinelli». Così sosteneva Giulio Selva (1925-1990), nel secondo dopoguerra autentico punto di riferimento del giornalismo valsassinese. A quel tedesco, inoltre, qualcuno ha anche dato un nome: Gustavo Engelmann, socio della sezione “skiatori” della Sem e cioè la Società Escursionisti Milanesi che l’anno prima proprio ai Resinelli aveva inaugurato il primo rifugio della località (oggi diventato “Soldanella”). Se il tedesco appartiene alla leggenda, «è invece cosa certa che nel giro di pochissimi anni» a cavallo tra Ottocento e Novecento «gli sci attirano l’attenzione di non pochi appassionati della montagna» e «altro dato certo pare essere quello relativo al luogo che tenne a battesimo lo sci lecchese e lombardo: i fianchi meridionali della Grignetta, in particolare i Roccoli Resinelli»: è il racconto di “Cento anni di sci in Valsassina” uscito nel 2015 dall’editore Bellavite. Il volume è parte di quella tetralogia sulla storia valsassinese dedicata alle origini dell’alpinismo, alle miniere, all’agricoltura, e appunto allo sci.
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Autori, l’agronomo Giacomo Camozzini e il giornalista Angelo Sala che non riuscì a completare il lavoro perché stroncato da una malattia. E’ stato dunque lo storico brianzolo Domenico Flavio Ronzoni a succedergli e a portare a compimento la fatica.
Tra sociale e sportivo, il libro – con uno straordinario corredo fotografico – ci racconta l’evoluzione dello sci in Valsassina e quindi nel Lecchese. Con ciò che ha significato nel corso soprattutto del secondo Novecento in termini turistici ed economici.
Come detto, la “culla” dello ski, come si chiamava allora prima che la parola fosse italianizzata in “sci”, fu la zona del Roccolo Resinelli. La prima fotografia è del 1903: immortala un gruppo di soci della Società Escursionisti Lecchesi in quella che doveva essere una delle primissime uscite sugli sci, per alcuni probabilmente un vero e proprio battesimo. Tra loro, anche due donne.
Ma già da tempo, la specialità venuta dal Nord aveva attirato gruppi di appassionati anche sulle nostre montagne.
«Motivo di novità – leggiamo ancora - fu rappresentato dalle prime forme di turismo che, sempre nell’ultimo ventennio del secolo, iniziarono ad interessare la Valsassina. Tra gli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo vengono costruite, a partire da Barzio e dintorni, le prime ville per i soggiorni montani». Nel luglio 1907 arriva la corriera, la Sal istituisce il primo servizio automobilistico da Lecco a Introbio e Taceno. E intanto «qualcuno aveva già iniziato a solcare, scivolando con leggerezza, i pendii innevati della valle, tra gli sguardi degli ancora ignari valligiani, sospesi tra ammirazione e scetticismo. Ai piedi aveva due lunghe assicelle di legno ricurve in punta, fissate con delle cinghie di cuoio, tra le mani un solo lungo bastone (chiamato “alabarda” tra gli ancora pochi appassionati).  Col quale si cercava di tenersi in equilibrio e ci si aiutava nelle curve. Mario Cereghini così scriveva: “Che i lecchesi fossero tra i primi italiani ad iniziarsi allo sci del secolo XX è risaputo. Chi dipanerà l’attraente storia di questo sport ne dovrà tenerne conto».
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Cereghini è il noto architetto lecchese nato nel 1903 e morto nel 1966: fu il primo presidente dello Sci club Lecco costituito nel 1931, quando sciare non era ancora sport di massa. E di sci scrisse anche.
Nel 1946 pubblicò con l’editore milanese Görlich una specie di album umoristico, “Il nostro Sci club. Piccola storia illustrata ad uso degli Sciatori”: attraverso vignette accompagnate da brevi didascalie, Cereghini raccontava la storia di un fantomatico “Sci club Trota fario”, chiamato così perché, la sera della fondazione, il ritrovo fu alla Trattorie delle Tre Sorelle dove «correva odore di trote al burro». E’ però evidente trattarsi di uno stratagemma per divertirsi sulle vicende, gloriose e ingloriose, dell’autentico Sci club. Una pubblicazione diremmo goliardica che l’architetto introduceva così: «L'Enciclopedia Italiana sostiene che lo sci è stato introdotto in Italia nel 1896 da A.Kind. Siccome questa affermazione è del signor Ghiglione, piemontese, il sottoscritto che è lombardo, nell'intento di mantenere aperta la lotta regionale sulla priorità d'introduzione, dichiara solennemente che, nel 1895, il proprio zio Mattia, veterinario, essendosi recato in Isvizzera e precisamente vicino a Friburgo, per visitare una manza e avendo osservato quegli alpigiani intenti nell'uso di tali arnesi, se ne fece dare un paio e introdottili in Italia ne divulgò l'uso sul Monte Resegone. Tanti saluti e tanti fiori alpini alle ragazze belle».
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Più serio, invece, “Dello sci antico e dello sci lecchese” uscito nel 1952 per i tipi dell’editore lecchese Ettore Bartolozzi. Dopo un primo capitolo in cui risale fino alla preistoria, Cereghini racconta i primi decenni dello sci ed è, a parte qualche curiosità qui e là, soprattutto un lungo elenco di gare e di classifiche che ci accompagna fino alla metà degli anni Trenta. Ed è in queste pagine che si parla dei lecchesi tra i primi appassionati: «Agli iniziatori erano riservati compatimenti e sorrisi d'incredulità ironica. (…) Lo sci arriva in Lombardia sulla fine dell'Ottcento: Milano lo ebbe da Torino, sembra certo. (…) Qualche milanese arrivò con questi legni sui pascoli innevati delle nostre Prealpi e gli alpinisti di Lecco fiutarono subito il buon acquisto. Sembra già che nel '99 qualche nostro concittadino se ne compiacesse. E' difficile stabilire chi e come. Reticenti al massimo gli iniziatori.... fra essi è certamente quel Camillo Stoppani che ancora per tanti anni, con il vecchio Cendali, con il dott. Paolo Resinelli ed altri ed altri, ci meravigliarono con i racconti d'iniziazione, durante le lunge ascese in comitiva. Pare che base delle loro scorrerie (…) fosse un baitello ai Roccoli Resinelli, dove più tardi, giugno del 1908, si inaugurò la rima capanna della Società Escursionisti Lecchesi».
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Inoltre, «sappiamo – si legge “Cent’anni di sci” - che qualche lecchese azzarda anche i primi tentativi di fabbricare degli ski “made in Italy”: ci prova la guida alpina Giuseppe Molteni, detto “Cuera”, imitando un paio di attrezzi fatto venire dalla Novergia; ci provano anche quelli della ditta Anghileri, già nota per le sue calzature da montagna, costruendo degli sci pieghevoli, con bastoncini doppi, che lancia nella sua succursale di Milano. Intanto la passione per lo ski spinge alla ricerca di nuovi pendii».
Tra questii nuovi pendii ci sono quelli della Val Biandino che il 7 marzo 1907 ospita una sfida a suo modo storica: la gara è tra lecchesi e milanesi, ma anche tra due tecniche e cioè lo sci con la cosiddetta alabarda e quello coi due bastoncini: la spuntano i secondi e l’alabarda sarà presto dimenticata.
Per quanto continui a essere specialità praticata all’interno delle associazioni di montagna, di anno in anno il numero degli appassionati cresce. E durante la prima guerra mondiale se ne scopre l’importanza anche dal punto di vista militare. Dopo di che anche la lingua si adegua: dalla parola “ski” delle origini si passa a “sci”; secondo Cereghini, ciò avviene nell’inverno 1921-22. In realtà, come ci dice Pierpaolo Mistri (“Ski. Dalla preistoria alla conquista delle Alpi”, Nuovi sentieri editori, Treviso, 2009) è già dal 1915 che si parla di italianizzare la parola, ma ancora nel 1922 la rivista del Cai usa “ski”.
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«Tuttavia va riconosciuto – si legge in “Cento anni” - che non sempre i turisti e gli sciatori erano ben accetti dagli abitanti della valle, dove ancora si era lontani dal maturare un atteggiamento di accoglienza e di ospitalità nei confronti di coloro che raggiungevano la valle. Lo sci, del resto, era ancora visto come un’attività praticata dai forestieri, uno sport per ricchi, e nel clima sociale e politico poco sereno del primo dopoguerra “signori” e milanesi che tornavano a piedi a Lecco percorrendo le stradine di Laorca e Malavedo erano spesso presi a male parole dai locali». Ne dà conto anche Cereghini in una delle vignette del suo album umoristico: «E il ritorno serale giù per certe viottole manzoniane che menano alla stazione non è sempre allegro».
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Era ancora un «periodo epico». Scrive Cereghini: «Per cogliere pochi attimi d'ebbrezza occorrevano ore ed ore di sfacchinate su per sentieri più o meno noti. Bei tempi di passione e d'amicizia, quando era vanto d'ognuno l'esser utile a un altro e si portavano sulle spalle gli sci delle fanciulle e del genitore, s'aveva nelle tasche una arancia da dividere sempre in parti uguali, e alla sorgente, chinato sulla polla, uno distribuiva a tutti in rito, un po' di quell'acqua diaccia nel bicchiere d'alluminio. Quando poi eran da allacciare le cinghie degli attacchi, oh!, quella era una vera iniziazione cui partecipava tutta la famiglia, né il più lesto lasciava gli altri nelle doglie, ma i più lenti affabilmente aiutava, e di certo per primo non prendeva l'avvio. Bei tempi, rimasti nella memoria al di là di parentesi paurose, come di una zona ormai troppo lontana perché allacciata a un sottile eroismo, a un sapore di conquista, a una voglia di nuovo, come di pionieri. E pionieri si era di certo, o catecumeni d'esoterica dottrina, se da quelle sparutissime scolte, germogliarono quei nugoli d'appassionati che ora s'accodano alle sciovie».
«Si trattava di costruire tra la popolazione – la considerazione in “Cento anni” - una cultura dell’accoglienza turistica e la consapevolezza delle potenzialità turistiche di cui il territorio valsassinese era dotato». Se ne parlava nei bollettini del Cai e della Sel. E proprio – bollettini sul bollettino della Sel dell’aprile 1923 un articolo dimostra «come fosse presente nei più accorti la consapevolezza che lo sci e gli sciatori potevano rappresentare, anche più degli escursionisti e degli alpinisti, un elemento di novità, se non di rottura, rispetto a modi di vivere che si erano tramandati per secoli».
E intanto gli sciatori si dividono. Come detto, alla fine del 1931 nasce lo Sci club Lecco e non mancano le polemiche: «Ormai a Lecco gli sciatori sono divisi in due grandi partiti, Sci Club e Sel.
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Intanto – ricorda ancora Cereghini, fra le prima iniziative del neonato Sci club vi è la realizzazione di un trampolino da salto ai Resinelli, inaugurato il 7 gennaio 1932 «con precedente luminaria notturna assai suggestiva»: intitolato a Nino Castelli, canottiere e socio Sel, morto nella prima guerra mondiale e alla cui memoria la società escursionistica aveva già dedicato il rifugio inaugurato nel 1926 ai Piani di Artavaggio. 
Ma il grande sviluppo avviene naturalmente nel secondo dopoguerra, quando lo sci diventa una vera e propria industria. Non è solo sport, ma un modo di vivere. E, soprattutto, non è più limitato ai ricchi, ma sta diventando di massa. Un cambiamento al quale la montagna guarda per affrancarsi da una secolare economia di sussistenza. Il benessere non riguarda solo la pianura, ma sale anche su per i declivi. Ovunque si inventano stazioni sciistiche, si realizzano impianti di ski-lift, arrivano le funivie. Nascono anche da noi quelle che si chiamano stazioni sciistiche, mentre alcuni paesi sono travolti dal turismo di massa, sfigurati dall’edilizia delle seconde case. L’evoluzione è raccontata passo passo nel libro di Bellavite, le cui pagine ci raccontano anche l’evoluzione sportiva. Il vecchio sci club di Cereghini non è più un’associazione di élite e la Valsassina e il Lecchese allevano i loro piccoli campioni distribuite in varie specialità. Anche se, pur esprimendo atletici olimpici, non saranno comunque eguagliati i vertici raggiunti dall’alpinismo.
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Poi, come sappiamo, sono arrivati il cambiamento climatico, gli inverni senza neve, la crisi di molte località: le seconde case restano sempre più vuote e gli impianti di ski-lift rimangono come ruderi nell’erba per poi essere smantellati. Resistono ormai solo i Piani di Bobbio, mentre altre “stazioni” fanno i conti con la necessità di una riconversione. Per esempio, un libro pubblicato due anni fa e già presentato a Lecco in un paio di occasioni (“Inverno liquido” di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, edizioni Derive Approdi) guarda ai Piani di Artavaggio come a un esempio: «Nel giro di poco si sono trasformati in una zona esclusiva per gli amanti delle camminate, sia d’inverno che d’estate. L’afflusso invernale degli appassionati della montagna rinaturalizzata supera quello estivo e addirittura quello del periodo degli impianti».
Dario Cercek
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