SCAFFALE LECCHESE/228: il professor Francesco Viganò e il romanzo storico su Val d’Intelvi e Valsassina
Del meratese Francesco Viganò, tra i pionieri del movimento cooperativo ci siamo già occupati in passato. E abbiamo pure parlato di un suo un macchinoso romanzo storico che racconta avventure e vicissitudini del contrabbandiere Piero da Olginate ambientate tra la Brianza, il Lario e la Valchiavenna. E’ un libro che Viganò aveva tentato di pubblicare nel 1847, senza riuscirci per via di qualche problemino con la censura austriaca. Così che sarebbe uscito solo nel 1864 (e dunque nella nuova Italia “piemontese”).
Nel frattempo, tra i tanti altri scritti sugli argomenti più svariati, Viganò aveva dato la luce a un altro romanzo storico: “Val d’Intelvi e Valsassina ossia Molciani e Passerini” edito a Milano da “Borroni e Scotti” nel 1852.
L’oggetto è la velleitaria e sconclusionata insurrezione antinapoleonica ordita nell’autunno del 1806 dal parroco di Ramponio, in Val d’Intelvi, don Bartolomeo Passerini. Nell’introduzione, Viganò dice d’aver messo mano al romanzo mentre si trovava nel paesello di Ranco sul lago Maggiore dove si era ritirato col «bisogno di viver solitario coi libri a me più diletti» proprio per lo sconforto seguito alla mancata pubblicazione del “Piero di Olginate”. Non ci stupisce allora che nel nuovo romanzo faccia comparire personaggi dell’altra storia, intrecciando le due vicende, quasi fosse una sorta di “rivincita”. Va peraltro riconosciuto come “Val d’Intelvi e Valsassina” sia decisamente meno farraginoso del “Piero”, risultandone pertanto una lettura più scorrevole.
La vicenda è presto riassunta. Don Passerini, nato nel 1762 a Ramponio, dopo gli studi vi tornò come parroco nel 1788. Nonostante la sede decisamente periferica, Passerini non era prete dappoco: uomo di profonda cultura, era informato sull’attività politica e sulle novità letterarie, anche grazie alla vicinanza della Val d’Intelvi al confine svizzero; non si sottraeva al dibattito religioso e culturale dell’epoca pubblicando libri che animavano polemiche; fu anche tra gli animatori del primo giornale di Como e si muoveva molto tra Comasco e Valtellina, lasciando sguarnita la parrocchia con inevitabili malumori da parte di fedeli e autorità religiose. Due volte costretto alla fuga in Svizzera, fu prima dalla parte del governo asburgico per poi convertirsi agli ideali della Rivoluzione francese e infine immaginando appunto una grande insurrezione contro Napoleone per svariati motivi: dal tradimento proprio degli ideali rivoluzionari allo scontro con la Chiesa.
Coinvolse il cognato e sindaco di Ramponio Bartolomeo Molciani, altri due parroci e una sparuta e improvvisata compagnia di congiurati. Con un piano astruso quanto ambizioso che prevedeva la sollevazione delle vallate comasche, bergamasche, bresciane e naturalmente della Valtellina, la discesa verso Como e poi Pavia e Genova con la liberazione addirittura di Napoli, la presa in ostaggio di nobili e del viceré Eugenio di Beuharnais. Non c’è che dire, pensavano in grande. In quanto alle truppe, la convinzione era che le fila degli insorti si sarebbero ingrossate strada facendo. Il giorno della rivolta fu fissato per il 28 ottobre 1806, ma al momento decisivo, sulla piazza di Ramponio si trovarono radunate soltanto venticinque persone. Dunque, non se ne fece niente. Ma la polizia era comunque stata allertata. Don Passerini fuggì nuovamente in Svizzera, ma questa volta le autorità elvetiche lo rispedirono oltre confine. Il 5 maggio 1807, venne giustiziato a Como assieme al cognato.
Per chi volesse approfondire, c’è lo studio di Alessandra Mita Ferraro (“Politica e religione nel triennio repubblicano, 1796-1799) pubblicato nel 2012 dalla casa editrice Mimesis. Vi si riportano anche le arringhe con le quali gli avvocati difensori tentarono, in un processo frettoloso e di pura forma, di scagionare don Passerini e Molciani dalle accuse. I due imputati vengono definiti deliranti, zotici villani, e scimuniti, pazzi stravagantissimi e visionari da compiangere, si parla di ebeti fisionomie e risibile demenza, la congiura viene definita una semplice mascherata messa in piedi da quattro villani fatti cavalieri erranti: in conclusione, più che di cospirazione sarebbe corretto parlare, per l’intera vicenda, di disturbo alla pubblica quiete.
Da parte sua, Viganò dice di essersi interessato alla vicenda per via di una vecchia amicizia: «Nell’anno 1824 io studiava filosofia nel Seminario di S. Agostino di Como. (…) Un giovane assai buono passeggiava allora pe’ corridoi del Collegio, solo quasi sempre, tardo al riso, restio all’invito del consorzio giovanile, nemico d’ogni sussurro malinconico, e meditabondo sempre. (…) Un giorno un mio amico mi disse con molta discrezione: “Colui è Renato Molciani di Valle Intelvi, il cui padre è stato ghigliottinato qui vicino al Portello, per una certa rivoluzione alla quale si era messo a capo con un suo cognato parroco, che finì esso pure alla stessa maniera”». Renato Molciani era infatti il terzogenito di Bartolomeo e alla morte del padre aveva solo un anno.
Nel suo romanzo, come da titolo, Viganò sconfina: attraversa il lago e coinvolge anche la Valsassina. Perché – spiega – il disegno di don Passerini sarebbe stato quello di provocare un’insurrezione che si sarebbe poi estesa al resto della Lombardia e anche al Tirolo di Andreas Hofer. La sensazione del lettore, però, è che l’aggancio valsassinese sia un espediente per raccontare della Val Biandino e della processione della Madonna della Neve alla quale immaginiamo abbia assistito rimanendone colpito e sentendo l’urgenza di scriverne. E dunque la congiura viene anticipata ad agosto. Così che quando il parroco di Ramponi va a cercare gli appoggi valsassinesi passa per Primaluna e poi sale in Biandino ptoprio in occasione della tradizionale festa mariana (che appunto si celebra il 5 agosto): «Pittoresca è la strada che guida a Biandino, sul clivo sinistro di un torrente o fiumicello che sbocca nella Pioverna ad Introbbio. Qua vedi i monti, che tra loro s’avvicinano così da sembrare tagliati a picco, ed in fondo vedi luccicare il rigagnolo che ha pur delle trote di una squisitezza unica; poca luce v’è nella forra ed una lista o zona di cielo bellissimo corre tra monti e monti quasi strada aerea, e delle nubi leggierissime vi passano a traverso, come esseri fantastici, su ponti quasi invisibili, e più avanti, per sentieri ertissimi si cammina e per macchie di cespugli pe’ quali si veggono correre pecore e capre snellissime, ideali. (…) Poi la valle s’allarga a destra ed a sinistra e le vette montane son coperte di pratelli e clivi dolcissimi, saglienti, sparsi di qualche pianta e qua e là qualche capanna si vede ove la sera si raccoglie l’armento e la mandra. (…) Si procede avanti ancora ed i monti s’accostano ancor più, restringendo di nuovo la vista del cielo. S’innalza il burrone, e il fiumicello quasi lo passi a guazzo; il prato è dominante. Per una specie di porta naturale si sale e ti si presenta un’estesa e deliziosa pianura ammirabilissima. Nel mezzo tu vedi il ruscello zampillante, freschissimo, a destra ed a sinistra due gran piani che uniti formano il piano conosciuto di Biandino di Valsassina. Ha forma di un uovo schiacciato: a destra è ornato da monti selvosi, d’un verde oscuro. Nel fondo della scena primeggia un’altura isolata, che i monti di destra e di sinistra unisce, e si chiama il Pizzo dei Tre Signori».
Racconta della processione che sale da Introbio, della sagra, delle bancarelle, di un’escursione al lago di Sasso per alcune gare con strane imbarcazioni e poi della “visita” a una miniera che in realtà è un raduno clandestino dei rivoltosi che si danno appuntamento per l’insurrezione al giorno di San Rocco, vale a dire il 16 agosto.
Non è il caso di riassumere l’evoluzione della vicenda così come la racconta Viganò, con tanto di improbabili intrecci con vicende e personaggi del “Piero d’Olginate”. Rispetto al quale, sembra muoversi con maggior cautela, evidentemente per non incappare nuovamente nell’ostracismo dell’autorità: il racconto vuole essere distaccato e obiettivo. Con divagazioni innocue, come questa considerazione di curiosa preveggenza: «Or col progresso si va impicciolendo e la terra non è più infinita, misteriosa come una volta. (…) Se le cose vanno così in fretta, la terra deve piccola divenire per l’uomo, deve diventare la sua prigione, ed allora sarà quando penserà a conquistare l’atmosfera ed a cacciarsi più in là, desideroso di raggiungere la luna e gli altri pianeti e correre gli spazi dell’infinito».
Inoltre, nel rappresentare la rivolta di Passerini, Viganò sottolinea come la popolazione della valle ne fosse estranea e del tutto inconsapevole e che, anzi, guardasse con diffidenza agli armeggi del parroco. Nonostante gli intenti fossero quelli di liberare i valligiani da una serie di fardelli al sempreverde grido di «padroni a casa nostra».
Sulla scena del romanzo, oltre a don Passerini e al cognato, le altre figure reali che compaiono sono quelle di Giuseppe Majno, il brigante di Marengo, storicamente esistito ma estraneo alla rivolta intelvese e probabilmente Luigi Meles che dovrebbe essere il fabbro Luigi Melasi: Viganò lo trasforma in mago, artefice di una sorta di incantesimo notturno. A prestar fede allo stesso scrittore, reale sarebbe anche un innominato sordomuto descritto come un folletto, «vero figlio diletto della Valsassina, che ha l’istinto delle miniere e vive in esse dei mesi interi»: il nostro autore dice d’averlo conosciuto direttamente e che «forse vive ancora». Personaggi di fantasia, come detto, sono quelli che saltano fuori dal “Piero”: ser Giacomo e un misterioso “poeta” in cerca di vendetta, ma anche Vigilio ed Erminia apparentemente avviati al fidanzamento, salvo scoprire d’essere fratello e sorella.
Nel frattempo, tra i tanti altri scritti sugli argomenti più svariati, Viganò aveva dato la luce a un altro romanzo storico: “Val d’Intelvi e Valsassina ossia Molciani e Passerini” edito a Milano da “Borroni e Scotti” nel 1852.
L’oggetto è la velleitaria e sconclusionata insurrezione antinapoleonica ordita nell’autunno del 1806 dal parroco di Ramponio, in Val d’Intelvi, don Bartolomeo Passerini. Nell’introduzione, Viganò dice d’aver messo mano al romanzo mentre si trovava nel paesello di Ranco sul lago Maggiore dove si era ritirato col «bisogno di viver solitario coi libri a me più diletti» proprio per lo sconforto seguito alla mancata pubblicazione del “Piero di Olginate”. Non ci stupisce allora che nel nuovo romanzo faccia comparire personaggi dell’altra storia, intrecciando le due vicende, quasi fosse una sorta di “rivincita”. Va peraltro riconosciuto come “Val d’Intelvi e Valsassina” sia decisamente meno farraginoso del “Piero”, risultandone pertanto una lettura più scorrevole.
La vicenda è presto riassunta. Don Passerini, nato nel 1762 a Ramponio, dopo gli studi vi tornò come parroco nel 1788. Nonostante la sede decisamente periferica, Passerini non era prete dappoco: uomo di profonda cultura, era informato sull’attività politica e sulle novità letterarie, anche grazie alla vicinanza della Val d’Intelvi al confine svizzero; non si sottraeva al dibattito religioso e culturale dell’epoca pubblicando libri che animavano polemiche; fu anche tra gli animatori del primo giornale di Como e si muoveva molto tra Comasco e Valtellina, lasciando sguarnita la parrocchia con inevitabili malumori da parte di fedeli e autorità religiose. Due volte costretto alla fuga in Svizzera, fu prima dalla parte del governo asburgico per poi convertirsi agli ideali della Rivoluzione francese e infine immaginando appunto una grande insurrezione contro Napoleone per svariati motivi: dal tradimento proprio degli ideali rivoluzionari allo scontro con la Chiesa.
Coinvolse il cognato e sindaco di Ramponio Bartolomeo Molciani, altri due parroci e una sparuta e improvvisata compagnia di congiurati. Con un piano astruso quanto ambizioso che prevedeva la sollevazione delle vallate comasche, bergamasche, bresciane e naturalmente della Valtellina, la discesa verso Como e poi Pavia e Genova con la liberazione addirittura di Napoli, la presa in ostaggio di nobili e del viceré Eugenio di Beuharnais. Non c’è che dire, pensavano in grande. In quanto alle truppe, la convinzione era che le fila degli insorti si sarebbero ingrossate strada facendo. Il giorno della rivolta fu fissato per il 28 ottobre 1806, ma al momento decisivo, sulla piazza di Ramponio si trovarono radunate soltanto venticinque persone. Dunque, non se ne fece niente. Ma la polizia era comunque stata allertata. Don Passerini fuggì nuovamente in Svizzera, ma questa volta le autorità elvetiche lo rispedirono oltre confine. Il 5 maggio 1807, venne giustiziato a Como assieme al cognato.
Per chi volesse approfondire, c’è lo studio di Alessandra Mita Ferraro (“Politica e religione nel triennio repubblicano, 1796-1799) pubblicato nel 2012 dalla casa editrice Mimesis. Vi si riportano anche le arringhe con le quali gli avvocati difensori tentarono, in un processo frettoloso e di pura forma, di scagionare don Passerini e Molciani dalle accuse. I due imputati vengono definiti deliranti, zotici villani, e scimuniti, pazzi stravagantissimi e visionari da compiangere, si parla di ebeti fisionomie e risibile demenza, la congiura viene definita una semplice mascherata messa in piedi da quattro villani fatti cavalieri erranti: in conclusione, più che di cospirazione sarebbe corretto parlare, per l’intera vicenda, di disturbo alla pubblica quiete.
Da parte sua, Viganò dice di essersi interessato alla vicenda per via di una vecchia amicizia: «Nell’anno 1824 io studiava filosofia nel Seminario di S. Agostino di Como. (…) Un giovane assai buono passeggiava allora pe’ corridoi del Collegio, solo quasi sempre, tardo al riso, restio all’invito del consorzio giovanile, nemico d’ogni sussurro malinconico, e meditabondo sempre. (…) Un giorno un mio amico mi disse con molta discrezione: “Colui è Renato Molciani di Valle Intelvi, il cui padre è stato ghigliottinato qui vicino al Portello, per una certa rivoluzione alla quale si era messo a capo con un suo cognato parroco, che finì esso pure alla stessa maniera”». Renato Molciani era infatti il terzogenito di Bartolomeo e alla morte del padre aveva solo un anno.
Nel suo romanzo, come da titolo, Viganò sconfina: attraversa il lago e coinvolge anche la Valsassina. Perché – spiega – il disegno di don Passerini sarebbe stato quello di provocare un’insurrezione che si sarebbe poi estesa al resto della Lombardia e anche al Tirolo di Andreas Hofer. La sensazione del lettore, però, è che l’aggancio valsassinese sia un espediente per raccontare della Val Biandino e della processione della Madonna della Neve alla quale immaginiamo abbia assistito rimanendone colpito e sentendo l’urgenza di scriverne. E dunque la congiura viene anticipata ad agosto. Così che quando il parroco di Ramponi va a cercare gli appoggi valsassinesi passa per Primaluna e poi sale in Biandino ptoprio in occasione della tradizionale festa mariana (che appunto si celebra il 5 agosto): «Pittoresca è la strada che guida a Biandino, sul clivo sinistro di un torrente o fiumicello che sbocca nella Pioverna ad Introbbio. Qua vedi i monti, che tra loro s’avvicinano così da sembrare tagliati a picco, ed in fondo vedi luccicare il rigagnolo che ha pur delle trote di una squisitezza unica; poca luce v’è nella forra ed una lista o zona di cielo bellissimo corre tra monti e monti quasi strada aerea, e delle nubi leggierissime vi passano a traverso, come esseri fantastici, su ponti quasi invisibili, e più avanti, per sentieri ertissimi si cammina e per macchie di cespugli pe’ quali si veggono correre pecore e capre snellissime, ideali. (…) Poi la valle s’allarga a destra ed a sinistra e le vette montane son coperte di pratelli e clivi dolcissimi, saglienti, sparsi di qualche pianta e qua e là qualche capanna si vede ove la sera si raccoglie l’armento e la mandra. (…) Si procede avanti ancora ed i monti s’accostano ancor più, restringendo di nuovo la vista del cielo. S’innalza il burrone, e il fiumicello quasi lo passi a guazzo; il prato è dominante. Per una specie di porta naturale si sale e ti si presenta un’estesa e deliziosa pianura ammirabilissima. Nel mezzo tu vedi il ruscello zampillante, freschissimo, a destra ed a sinistra due gran piani che uniti formano il piano conosciuto di Biandino di Valsassina. Ha forma di un uovo schiacciato: a destra è ornato da monti selvosi, d’un verde oscuro. Nel fondo della scena primeggia un’altura isolata, che i monti di destra e di sinistra unisce, e si chiama il Pizzo dei Tre Signori».
Racconta della processione che sale da Introbio, della sagra, delle bancarelle, di un’escursione al lago di Sasso per alcune gare con strane imbarcazioni e poi della “visita” a una miniera che in realtà è un raduno clandestino dei rivoltosi che si danno appuntamento per l’insurrezione al giorno di San Rocco, vale a dire il 16 agosto.
Non è il caso di riassumere l’evoluzione della vicenda così come la racconta Viganò, con tanto di improbabili intrecci con vicende e personaggi del “Piero d’Olginate”. Rispetto al quale, sembra muoversi con maggior cautela, evidentemente per non incappare nuovamente nell’ostracismo dell’autorità: il racconto vuole essere distaccato e obiettivo. Con divagazioni innocue, come questa considerazione di curiosa preveggenza: «Or col progresso si va impicciolendo e la terra non è più infinita, misteriosa come una volta. (…) Se le cose vanno così in fretta, la terra deve piccola divenire per l’uomo, deve diventare la sua prigione, ed allora sarà quando penserà a conquistare l’atmosfera ed a cacciarsi più in là, desideroso di raggiungere la luna e gli altri pianeti e correre gli spazi dell’infinito».
Inoltre, nel rappresentare la rivolta di Passerini, Viganò sottolinea come la popolazione della valle ne fosse estranea e del tutto inconsapevole e che, anzi, guardasse con diffidenza agli armeggi del parroco. Nonostante gli intenti fossero quelli di liberare i valligiani da una serie di fardelli al sempreverde grido di «padroni a casa nostra».
Sulla scena del romanzo, oltre a don Passerini e al cognato, le altre figure reali che compaiono sono quelle di Giuseppe Majno, il brigante di Marengo, storicamente esistito ma estraneo alla rivolta intelvese e probabilmente Luigi Meles che dovrebbe essere il fabbro Luigi Melasi: Viganò lo trasforma in mago, artefice di una sorta di incantesimo notturno. A prestar fede allo stesso scrittore, reale sarebbe anche un innominato sordomuto descritto come un folletto, «vero figlio diletto della Valsassina, che ha l’istinto delle miniere e vive in esse dei mesi interi»: il nostro autore dice d’averlo conosciuto direttamente e che «forse vive ancora». Personaggi di fantasia, come detto, sono quelli che saltano fuori dal “Piero”: ser Giacomo e un misterioso “poeta” in cerca di vendetta, ma anche Vigilio ed Erminia apparentemente avviati al fidanzamento, salvo scoprire d’essere fratello e sorella.
Dario Cercek