SCAFFALE LECCHESE/163: le vicende (anche amorose) del 'Contrabbandiere di Olginate'

Di Francesco Viganò (1807-1891), il meratese tra i pionieri del movimento cooperativo in Italia abbiamo già parlato a proposito della biografia scritta da Cecilia Grigolato con la prefazione dello storico Franco Della Peruta, che definiva Viganò un «instancabile poligrafo, attratto di volta in volta dal romanzo storico, dalla trattatistica filantropica e moraleggiante, dalla saggistica economico-sociale» con una «produzione eterogenea e a volte farraginosa».

Tra i «vari romanzi a carattere sociale pubblicati senza successo», per usare le parole di Aroldo Benini nel Dizionario illustrato dei lecchesi, c’è “Il contrabbandiere di Olginate”, «un romanzo diletto – scriveva in una lettera il suo stesso autore – che chiamo brianzolo perché il protagonista è un mio compatriota, però del secolo passato, e perché voglio indirizzarlo al mio caro paese nativo», un romanzo che risulta spesso indigesto: al gusto dei tempi nostru ma forse anche a quello dell’epoca, quando la comunità dei lettori era peraltro molto più ristretta; sarà anche per questo che il libro non ebbe altre edizioni oltre alla prima del 1864 uscita dalla milanese Tipografia Salvi.
La vicenda si svolge nella seconda metà del Settecento, più precisamente attorno al 1769 se dobbiamo prestar fede a un passaggio del romanzo in cui le campane di tutte le chiese milanesi annunciano la scomparsa del pontefice, «l’ultimo difensore dei gesuiti», ci vien suggerito: trattasi di Clemente XIII, deceduto appunto il 2 febbraio 1769.
La trama è un complicato intreccio amoroso che vede coinvolta una Luisa, coraggiosa figlia di un mercante chiavennasco con il quale i contrabbandieri sono soliti fare affari. E’ proprio per via di un atto di coraggio che di lei, un giorno, si accorge all’improvviso Piero. E’ costui il capo dei contrabbandieri che operano sul lago di Como e che sta di casa a Olginate. Di Piero, tra l’altro, lei sarebbe già innamorata da molti anni, senza che lui la degnasse d’attenzione. A corteggiare Luisa è però anche il conte Massimo che di Piero sarebbe una sorta di committente. Per sovrappiù, la giovane sarebbe anche promessa sposa a Rodolfo, giovane benestante e sfaccendato. Ad aggrovigliare ulteriormente l’intreccio, la sorella del conte Massimo, Adele, risulta innamorata ella pure di Piero. Il quale promette amore sconfinato all’una e all’altra.

Immagine di controcopertina

Le vicende amorose si innestano, come dev’essere per un “romanzo storico del XVIII secolo”, sugli eventi dell’epoca.
Il contesto è quello della fine della dominazione spagnola sulla Lombardia che il mondo liberale vede come la possibile apertura di un’epoca di progresso e libertà. Governo austriaco permettendo, naturalmente. Al quale governo, Viganò non accenna, nonostante egli stesso dagli austriaci fu costretto all’esilio nel 1828.
Proprio il conte Massimo è tra i “patrioti” impegnati nel prefigurare un futuro di libertà per la Lombardia. Lo troviamo a Gravedona in Palazzo Del Pero (che noi oggi conosciamo meglio come Gallio), nei cui sotterranei si riuniscono personaggi incappucciati a dar vita al “partito della luce”: «Tutto dunque in nuovo si mutava ciò che era vecchio, in modo che la Lombardia avendo preso fiato, vigore e potenza, in poco tempo non era più riconoscibile da coloro che l’avevano compianta prostrata, avvilita, dormiente sotto il plumbeo governo spagnuolo. (…) Era proprio bello a vedere lo spettacolo reale della rigenerazione sorgente contemporaneamente dalla provincia di Milano e nelle altre che formavano il Ducato». C’è fermento nell’aria: «…se potremo governare il senato, accontentare i malcontenti del nostro dominio, che son tutti i ladri pubblici e certi grandi che vogliono le leggi solo per trasgredirle, a carico dei deboli e dei poveri pei quali si pretende s’abbiano a far eseguire col massimo rigore. Non sanno che il regno della forza del braccio, del denaro e della prigione è passato»
Personaggio inizialmente enigmatico per poi scoprirlo regista di molti destini e figura di punta degli innovatori è Gian Giacomo, sposato ma libertino eppure amico dei conventi e solito usare travestimenti: da frate, da militare, da mercante.
Al nuovo si oppongono i vecchi poteri, l’aristocrazia creata dalla Spagna, disonesta, oziosa e inetta «che cercava di denigrare la vecchia aristocrazia lombarda, la calpesta, la costringeva all’esilio e la rinserrava nei loro palazzi».
Per esempio. «Vili insetti! Han l’ardimento d’avventarsi contro i signori con mali trattamenti, come avvenne in Brianza, sentina di tristi cittadini, perché luogo di troppa industria, troppo bella, di una razza troppo robusta; e qui sta il male: un uomo forte e coraggioso è buono. Bisognerebbe mutar dimora a tutti i Brianzoli ogni anno, mandarli nella bassa Lombardia»: così si esprime don Nicone che è appunto alla testa del partito “spagnolo” solito riunirsi nella casa milanese di un perfido rivenditore di articoli religiosi, partito del quale fa parte anche il citato don Rodolfo. Che in una riunione – tra sette persone «le più antipatiche del globo terracqueo» - viene incaricato di uccidere il conte Massimo. Il manigoldo ne approfitta per chiedere Lucia quale compenso.

Francesco Viganò

Nel frattempo, la trama amorosa ha sviluppi rocamboleschi. Da parte sua, Viganò si  produce in dialoghi, spesso prolissi e ridondanti, toccando certe vette del patetico davvero insostenibili.
La stessa ambientazione storica non ha una particolare profondità, parendo più che altro un pretesto per alcune considerazioni di carattere politico. Per esempio, parlando dell’imminente apertura del naviglio di Paderno: «E i carrettieri e gli asinai che portano la mercanzia da Trezzo a Brivio moriranno di fame. Così va il mondo. Il bene de’ ricchi spesso è male per la misera gente, che vive col lavoro quotidiano» Oppure: Se io mi mangiassi ogni anno da quanto vien d’un’azienda, cinquanta, cento, duecentomila scudi destinati al soccorso dei poveri in gozzoviglie, stravizj ed altre scioperatezze, i quali poveri intanto che mi divoro il loro patrimonio, fosser quasi nudi, tremanti dal freddo, e morisser d’inedia e di fame, farei bene io così operando?»
Non manca nemmeno la rivolta popolare per il pane: «Quando si ha fame, la ragione, ragion più non è (…) non si sazia la fame con la ragione: ecco il nodo gordiano che hanno a sciogliere i reggenti del mondo. In questi scabrosi momenti che si debbon prevenire, ci vorrebbero de’ prestinaj che lavorassero col grano dello Stato, colle patate, colle barbabietole, con quanto l’umana veggenza trovò atto a fare del pane, e si lavorasse a vapore e si mandasse per le provviste colla velocità del futuro vapore aerostatico, e che invece di gettar parole dai balconi comunali, dai quadrati ambulanti militari, cogli angoli guerniti con un becco di cannone, si versassero dei pani a migliaja e in tale quantità da soddisfare l’appetito dei gridanti che han torto di far rumore a danno delle orecchie gentili e del sonno degli ignavi e dormienti, di svaligiar le botteghe e le case, di rompere i vetri dei magistrati, e di uccidere qualche soldato o qualche altro innocente, al punto di trovarsi addosso delle scariche di moschetteria e di mitraglia. Ma tutte le leggi del mondo (…) non valgono in quei momenti a chiamar a casa sua la ragione uscita di cervello, perché scacciata dagli istinti di conservazione che si palesan talvolta coi modi della tigre. (…) Si scioglierà [il nodo gordiano] quando il male alle radici si curerà, e si penserà a far portare alle strade ferrate, oltre i signori ed i ricchi, anco i poveri ed i loro cenci ed il loro pane»

Contrabbandieri novecenteschi

Anche il contrabbando è un artificio. Solo in un’occasione ci racconta una grande “spedizione” partita da Chiasso: «Si vede pel paese difatti un andare e venire di contrabbandieri; chi ha un grosso fardello in ispalla sostenuto da cinta ad armacollo, chi ha sul dorso una specie di valigia quadra vestita di tela cerata, chi un mezzo sacco sulle spalle sostiene. Secondo la qualità della merce è la copertura di essa, che da’ mercanti si appella imballaggio (…) L’abito di tal gente è già stato descritto; eguale da secoli, ritraente il carattere della popolazione e dei costumi antichi, esagerato però e succinto. Un cappello a larghe falde raddrizzate sulle orecchie sovrastante a berretta a colori vivaci finente in lunghi fiocchi cascanti, quali sul carico, quali sul davanti del petto. Armati da grosso, noderoso e saldo bastone francato, ove in terra si poggia da punta di ferro a triangolo, e da un pugnale nascosto nel fesso sinistro de’ calzoni corti, terminanti a uose o ghette, due dita o tre sopra l’articolo che ginocchio si appella» Ci sono gli “stelloni” che controllano la strada, gli “spalloni” che trasportano la merce, i “campioni” che, armati, difendono il corteo.
E veniamo dunque a parlare dei luoghi. Piero è di Olginate perché il paese ha una secolare tradizione nella storia del contrabbando, quando l’Adda era confine tra Milano e Venezia. A tal proposito un interessante studio è quello di Giovanni Aldeghi e Gianluigi Riva sulla rivista “Archivi di Lecco” dell’ottobre-dicembre 1994 (“Adda fiume di confine: contrabbandi e spionaggio tra Olginate e la Valle di San Martino nella seconda metà del Quattrocento”): l’attenzione è concentrata sul XV secolo ma il fenomeno si è protratti fino al XVIII secolo.

La casa natale a Cicognola

Viganò  riempie il racconto di altre suggestioni personali parlando del luogo natio, Cicognola «che è disteso sul dorso d’una dolcissima collina coltivata a vigneti che dan vino da far divenir poeti la sera e filosofi la mattina seguente, sulla cui punta più avanzata verso Merate splende il caro convento di Sabbioncello». E della propria famiglia: papà Modesto «che mi parla continuamente di quanto fosse stimato l’avo mio Tommaso che come sindaco attraversò il tempo in cui si svolsero la rivoluzione ed ebbe vita la Repubblica Cisalpina, l’Italiana, ed il Regno italico, e mi discorre di cardinali, di prelati, di conti, di marchesi, di titolati, di grandi speculatori, di ministri che vennero a capitar in sua casa (…) Mio zio Carlo fu capitano delle guardie nazionali». E poi «I miei parenti furon sempre amici delle belle novità, benché non avessero avuta molta istruzione, combinavano la buona relazione dei frati di Sabbioncello con quella dei buli liberali, dei negri o dei signori indipendenti della Brianza…». A spiegarci quest’ultimo passo è Cecilia Gregolato: « I “buli” si suppone siano i giovanotti brianzoli, i “negri” pare fossero i liberi pensatori di orientamento massonico».
E se nel descriverci gli avversari del progresso, Viganò più che uno scrittore di storia si trasforma nel più sfacciato propagandista politico descrivendo i “conservatori” come personaggi quasi demoniaci, infami e lussuriosi che per i loro piaceri tenevano addirittura segregato in una cantina un gruppo di giovani ragazze. E affidando il grande tema del progresso storico, del confronto tra nuovo e vecchio, a un semplice scontro tra bande rivali, più simili a gang di quartiere, che si muovono in atmosfere un po’ gotiche. E se a volte non teme di trascendere e di sfidare il ridicolo, il finale del romanzo, dove naturalmente, trionfa il bene, supera davvero ogni immaginazione. Nella chiesa del vecchio cimitero milanese del Fopponino di Porta Tosa dove si assiste a una ridda infernale, a una resa dei conti finale, a danze intorno a tombe che si aprono: «Scena spaventevole! Un odore di cadaveri fracidi; una luce funerea progettata su tante persone smorte; tante persone incappucciate che si lamentano con convulsioni da agonizzante…».


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Dario Cercek
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