SCAFFALE LECCHESE/122: Francesco Viganò, meratese, pioniere del movimento cooperativo, fondatore della Banca Briantea

Una scuola e una strada ricordano, a Merate, la figura di Francesco Viganò, nato a Cicognola nel 1807 e morto a Milano nel 1891: ebbe vita avventurosa, fu insegnante, ma fu soprattutto tra i pionieri italiani del movimento cooperativo e come tale viene appunto ricordato. Fondò cooperative di consumo (anche a Como e a Lecco nel 1865) e promosse il credito popolare.
Quella stessa Banca Briantea che per un secolo è stata punto di riferimento economico di questa parte della Brianza, nacque come cooperativa nel 1875 proprio su impulso di Viganò che non a caso ne fu subito presidente onorario. Poi, all'inizio del Novecento, anche la banca brianzola prese una strada differente da quella auspicata da Viganò che - semplificando - vedeva nella formula dell'azionariato il rischio che le banche popolari perdessero la propria ragion d'essere, cedendo alla speculazione e omologandosi a tutti gli altri istituti di credito. Come poi in effetti sarebbe accaduto. Fu un tema peraltro sul quale si discusse animatamente e a lungo nella seconda parte dell'Ottocento.

Di quel dibattuto ci dà conto anche la biografia di Viganò scritta da Cecilia Grigolato: si tratta di una tesi di laurea discussa all'Università Statale di Milano sotto la guida del professor Franco Della Peruta, storico di acclarato prestigio. Quella biografia venne poi edita nel 1985 dalla stessa Banca Briantea, volendo in tal modo testimoniare una continuità con le radici ottocentesche e celebrando i 110 anni dalla fondazione. Scriveva infatti l'allora presidente Luigi Venegoni: «Il passaggio dalla struttura di cooperativa a quella di società per azioni, realizzato nl 1907 attraverso lo scioglimento della prima e la contestuale nascita della seconda, non consente, dal mero punto di vista dell'esegesi giuridica, di definire quella operazione societaria come una trasformazione. Sotto il profilo economico-aziendale, invece, non vi è alcun dubbio che l'attuale "Briantea" è la vera e propria continuazione della preesistente azienda bancaria».

Ironia della sorte, le evoluzioni successive avrebbero visto la Banca Briantea fondersi con quella Banca popolare di Milano fondata nel 1865 da Luigi Luzzatti con il quale Viganò ebbe turbolenti rapporti proprio per le divergenze su credito cooperativo e azionariato: «Se il Viganò parla di intervenute "discrepanze", il Luzzatti, sia pure ancor più sinteticamente, accenna a una vera e propria "lotta col Viganò" peraltro seguita da una "conciliazione". In realtà si ha ragione di ritenere che la rottura fra i due uomini risultasse sostanzialmente definitiva».


Nella prefazione al libro di Grigolato, è lo stesso Della Peruta a offrirci un ritratto di Viganò.
Nato nel 1807 a Cicognola di Merate, dopo gli studi a Brivio, al Collegio di Merate e al Seminario di Como, dopo i primi lavori «che contribuirono a rendergli familiari aspetti concreti della vita quotidiana dei ceti più umili», nel 1828 Viganò «lasciò la patria per un lungo viaggio attraverso la Francia, l'Inghilterra e il Belgio; e in questi paesi poté prendere conoscenza delle dottrine economico-sociali allora in voga, incluso quel sansimonismo cui aderì momentaneamente per l'approccio progressista dei seguaci di quella "religione" al problema del miglioramento morale, intellettuale e materiale della "classe la più numerosa e la più povera" che sarebbe stato da allora preoccupazione costante e centrale per il brianzolo».

Tornato in Italia, dal 1831 divenne insegnante elementare al collegio di Cassano d'Adda dove restò per dieci anni «fino a quando, dopo essersi diplomato ragioniere, si trasferì a Milano» e fu in questo decennio cassanese che «tra l'insegnamento e le vaste anche disordinate letture (...) Viganò fece le sue prime prove di instancabile poligrafo, attratto di volta in volta dal romanzo storico, dalla trattatistica filantropica e moraleggiante, dalla saggistica economico-sociale. Eppure proprio in questa produzione eterogenea e a volte farraginosa andò acquistando un risalto centrale la questione di una riforma della triste situazione delle classi lavoratrici che continuò a occupare sino all'ultimo l'animo e la mente di Viganò: una riforma conseguibile non con violente sovversioni sociali e politiche (Viganò sarà sempre contrario sia al radicalismo rivoluzionario di Mazzini che ai propositi livellatori del comunismo), ma con un'azione economica graduale, legale e interclassista da sviluppare attraverso gli strumenti, via via meglio e più chiaramente definiti, del mutuo soccorso, del credito popolare e della cooperazione».

La biografia compilata da Grigolato ricostruisce passo passo e con un gran corredo di documenti la vita di Viganò, talmente ricca di episodi che un riassunto è impossibile: i viaggi, l'impegno nel movimento cooperativo internazionale, i rapporti con la Francia, l'adesione alla Massoneria, la partecipazione ai moti risorgimentali e i conseguenti problemi con le autorità austriache, la pubblicistica con libri di natura economica e politica, ma anche con romanzi a sfondo sociale o tra utopia e fantascienza come il "Battello sotto marino": romanzo bizzarro, come egli stesso lo definì, che narra di una sorta di aldilà governato da Giordano Bruno.
C'è però un passaggio fondamentale nella bibliografia del meratese ed è il libro "L'operajo agricoltore, manifatturiere e merciajolo" che Viganò tra l'altro pubblica a proprie spese nel 1851: si tratta «di una vasta gamma di consigli (...) offerti "agli operaj allo scopo di renderli industriosi ed infondere in essi i principi d'ordine, probità, temperanza, economia", per bocca di un "buon Parroco di campagna che racconta la storia di quattro fratelli, un agricoltore, un calzolajo, un operajo di fabbrica, un mercaiuolo, i quali senza fare miracoli, in venti o venticinque anni si erano creata una ingente sostanza stando colle loro consorti, coi figli, facendo una vita buona, cristiana e non stentata, lavorando con assiduità, con intelligenza e con amore, risparmiando ognora qualche cosa, che bene s'impiegava, senza tema di avvilire né se stessi né i figli"».
Siamo dunque nel solco di quella letteratura pedagogica che abbondava a metà dell'Ottocento: Della Peruta ci ricorda il Carlambrogio di Cesare Cantù (CLICCA QUI) e noi pensiamo a "La domenica a Germignano" di Ignazio Cantù, fratello di Cesare (CLICCA QUI).

Con i quali peraltro il Viganò aveva frequentazioni e collaborazioni.

Comincia a prendere corpo quella che si potrebbe definire se non proprio una "dottrina" certamente un impegno volto a migliorare le condizioni di vita delle classi popolari e che si dispiegherà poi negli anni successivi

Nel Dizionario di Lecco e provincia, Aroldo Benini scrive: «nel 1873, con "La fratellanza umana" [Viganò] spiegò i grossi affari degli stranieri che qui venivano a impiantar setifici e, comprimendo i salari, conducevano l'operaio a gravi preoccupazioni fonte della perdita di dignità e moralità».

Andavano nascendo anche in Italia proprio attorno alla metà del XIX secolo le prime organizzazioni di mutuo soccorso, mentre in Inghilterra prendevano forma le cooperative: c'è una data ed è quella dell'agosto 1844 - chi dice l'11, chi il 15 - quando nella cittadina di Rochdale vicino a Manchester un gruppo di tessitori diede vita a una società che il 21 dicembre dello stesso anno avrebbe aperto uno spaccio in cui inizialmente si vendeva solo burro, zucchero, farina e candele. L'esperimento ebbe successo e venne poi esportato in altre parti dell'Inghilterra e poi in Europa e quindi in Italia: s'è già detto delle cooperative che Viganò contribuì ad avviare a Como e a Lecco nel 1865, mentre nel 1877 «promuoveva in Brianza una Società mutua d'assicurazione del bestiame bovino pei contadini del mandamento di Brivio».

Venne poi la questione del credito per la quale già nel 1860 Viganò aveva avanzato la proposta di banche cooperative operanti sia sul fronte dell'anticipazione di capitali sia su quello dell'approvvigionamento di materie prime. E parlando dei Monti di Pietà che, «seppure con gran merito "uccisero in Europa l'usura organizzata" [ma] in seguito "deviarono dallo spirito di loro istituzione" assumendo anch'essi finalità speculative» e partendo dal presupposto che «guadagnare sulle proprietà dei poveri è un delitto, il Viganò affermava in primo luogo la necessità di intervenire sollecitamente su questa rete di istituzioni già da secoli ampiamente diffusa in tutto il paese, affinché (...) venisse tosto facilitato "un primo passo all'emancipazione di coloro che vivono di salario": "Si ha l'uva al quinto anno dopo che fu piantata la vite. Ma i poveri sono degli anni molti che attendono l'uva. (...) I governi, le persone bene pensanti, i filantropi, i veri cristiani, gli scrittori, le buone leggi e soprattutto una buona istruzione devono riparare agli abusi».

Ed è, questo pensiero, quello che negli anni seguenti avrebbe favorito il nascere delle banche cooperative e di quelle popolari. Con Viganò a promuovere, oltre alla Banca Briantea, anche la Banca popolare di Intra.
Sul fronte politico, appoggiò anche il nascente movimento per la pace di Ernesto Teodoro Moneta, milanese con villa a Missaglia dove è sepolto, che nel 1907 avrebbe ricevuto il Premio Nobel (ne abbiamo parlato qui)

Nel 1891, pochi giorni prima della morte, Viganò propose anche l'istituzione di un Ministero del lavoro volto proprio alla tutela dei lavoratori: «Ebbe lodi ma null'altro» è l'amara conclusione di Benini.

«Un uomo coerente nella sua lunga operosità - è il giudizio di Della Peruta -, probo e così sensibile agli aspetti emergenti della "questione sociale", figura assai rappresentativa della storia della Lombardia ottocentesca e notissima nella Milano fin de siècle ("Professor, ragionatt e president proboviro de tanti società, apostol de la pas, ex letterato... e peù ghe n'è ancamò. Diavol! Chi non conoss el Viganò?", questo il ritratti scherzoso delinato dall' "Uomo di pietra" nel 1890)»
«Viganò - ci dice infine Grigolato, forse esagerando un po' - morì in pratica senza un soldo: per fornire di una dote la seconda figlia, il giorno precedente il malore che lo condusse alla morte, egli era andato (...) a ipotecarsi la carissima villa di Montevecchia».


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Dario Cercek
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