SCAFFALE LECCHESE/226: la produzione di Luigi Manzoni, padre del "cavalier Gerenzon"

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Lui è quello del “cavalier Gerenzon”. Non si scappa. Pur trattandosi dell’autore «del più cospicuo corpus poetico in dialetto lecchese» – come dice Gianfranco Scotti –, se viene ancora ricordato è soprattutto per il poemetto dedicato al torrente culla dell’industrializzazione lecchese. Con qualche buona ragione. Ne abbiamo già accennato
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Il componimento diviso in tre canti, prende le mosse dalle sorgenti: «Chi pocch secc d’acqua ciara de sorgent/ che vegnen via al pont de la Gaina,/ i formen la cascada d’un torrent/ lavorador intanta ch’el cammina. (…)  El so nomm de battesem, Gerenzon,/ l'è ‘l cavall de chi tira la vergella, (...) Per compensall di so benemerenz/ e consolall di strapazzâd de jer,/ dèmecch almen la crôs de cavalier». Per arrivare alla foce, centossessanta terzine dopo: «Va foeu a lavass ne l'onda ben pulida;/ per on poo el se sent quiet a mormorà/ poeu, tònfete, nel lagh a riposà./ E nun lassèmel nà, por Gerenzon;/ a toeucc g'ha faa ‘na motta d'indulgenz e mai nessun s'insogna un'orazion».
Nel lago a riposare, dunque. Con merito, dopo aver fatto funzionare tutte le officine cresciute lungo il suo corso. Sono elencate a una a una, complessivamente un centinaio, ed è un vero e proprio inventario. Il poemetto vale così più d’un documento catastale e si fa memoria storica. Non a caso, è corredato da una tavola sinottica e dagli indici dei nomi e dei luoghi citati.
L’autore è Luigi Manzoni, lecchese nato nel 1892 e morto nel 1979. Poeta dialettale dalla vocazione tardiva. Aveva già superato la sessantina, nel 1955, quando esordiva pubblicando “El cavalier Gerenzun e altre poesie” con l’Editrice Stefanoni. 
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L’introduzione a quel libro di debutto è firmata da Luigi Capelli, all’epoca un’autorità letteraria e oggi dimenticato. 
Capelli deve essere stato invero un po’ titubante: «Quello che ci ha decisi a una cosa tanto rischiosa e impegnativa qual è la presentazione al pubblico di un’“opera prima” – scrive appunto nell’introduzione – è soprattutto il carattere del contenuto del libro o almeno della parte di esso che ci è parsa assolutamente originale e di non piccolo interesse per il folklore locale». E si riferisce proprio al “cavalier Gerenzon”. Se non è proprio letteratura, dunque, qualche piccolo merito pur si deve riconoscere: «Delle cose contenute nel libro, è quella di maggior mole e di maggiore impegno». Spiegando agli eventuali lettori non lecchesi cosa sia il Gerenzone, «fiumicello che discende dalle pendici della Grigna e va a sfociare nel lago di Lecco dopo essere passato attraverso i rioni più industriosi che si susseguono in lunga fila dalle pendici del monte fino al centro cittadino, e dopo aver messo in moto, insinuandosi fra le pale delle grandi ruote rugginose, i cento e cento macchinari degli opici di cui è tutta costellata la valle», Capelli prosegue: «Instancabile lavoratore, al Gerenzone ben compete il titolo di cavaliere (del lavoro, vorremmo aggiungere) di cui il Manzoni lo insignisce. Il genere del poemetto è quello che si potrebbe, con l’approssimazione forse maggiore, definire discorsivo-descrittivo. (…) E’ il fiume stesso che, parlando in prima persona, e ora lagnandosi del lavoro improbo a cui lo costringono, ora consolandosi, nei brevi attimi in cui può scorrere libero sotto il cielo, con la visione del paesaggio, ci narra la storia dei capi d’industrie e delle loro famiglie e c’informa nel medesimo tempo, con una precisione tecnica indiscutibile, del vario e complesso lavorio di quelle industrie. (…) Nessuno meglio del Manzoni poteva avere i titoli, le “carte in regola” come si suol dire, per accingersi a questa impresa. Egli infatti, oltre che allievo delle Muse, è il rampollo di una di queste famiglie che hanno concorso a creare la prosperità e la fama di Lecco, e si è famigliarizzato a lungo con quei termini e con quegli strumenti di lavoro».
Del resto, osserva ancora Scotti, «”El cavalier Gerenzon” è non solo un prezioso documento della storia industriale della vallata e uno straordinario repertorio di termini legati alla lavorazione del ferro, ma anche una felice invenzione poetica».
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E’ proprio Scotti a fornirci la biografia di Luigi Manzoni nel libro “Poesia tra lago e monti” pubblicato da Viennepierre Edizioni per il Centro di cultura Paramatti nell’anno 2002: «Pochi ormai ricordano l’allampanata e segaligna figura di Luigi Manzoni. Un cappotto fino ai piedi, sempre aperto, che lasciava intravedere una sciarpa scolorita, lunghissima. Capitava di incontrarlo in via Cavour, il passo incerto negli ultimi anni, il viso smarrito, lo sguardo un poco triste. Era nato nel 1892 in una famiglia di larghi mezzi. Il padre, Salvatore, era imprenditore serico di origini valsassinesi che nel 1906 aveva acquistato la grande proprietà dei Bellingardi, in via Cavour, dove oggi sorge l’Isolago. (…) la giovinezza di Luigi trascorse tra gli agi, ma rovesci di fortuna e una poco oculata gestione del patrimonio lo costringeranno a vendere ogni cosa e a ridursi in ristrettezze particolarmente penose negli ultimi anni della sua lunga vita. (…) Era il 1979 quando Luigi Manzoni, povero e solo, lasciava questa vita. Abitava due piccole stanze della grande casa che un tempo era stata sua nella “contrada larga”, la via Cavour. Di lui, del “Pinetun”, come era abitualmente chiamato (pare che la sua famiglia anticamente fosse soprannominata Del Pino) rimane per i meno giovani il ricordo, ma soprattutto ci resta la sua vasta produzione poetica in dialetto lecchese, discontinua per valore, certo, ma fondamentale nel panorama della lirica dialettale nostrana»».
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Dopo l’esordio del “Gerenzon”, Luigi Manzoni nel 1961 dava alle stampe una seconda raccolta: “La Valsasna e altre poesie” (Arte Grafica Valsecchi, Lecco); nel 1962 “La rapsodia di Aldee” (Arte Grafica Valsecchi), “saga” come egli stesso la definisce di una delle famiglie industriali della città, appunto quella degli Aldé; nel 1969 la raccolta “El canton di ball” (Editrice Stefanoni); infine nel 1977, “El mond che cambia” (Stefanoni). 
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Di Manzoni si apprezzano in particolare proprio le liriche lecchesi, riconoscendovi il lettore luoghi e personaggi. Figure, oggi per la gran parte finite nell’oblio che saltano fuori da queste strofe avvolte dalle atmosfere provinciali che hanno sempre contraddistinto questa nostra piccola città rimasta pur sempre un gran borgo. La stessa scelta di intitolare la raccolta del 1969 al “Canton di ball” è una maniera per rivendicare l’appartenenza a questo mondo circoscritto. 
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Enea Alquati, personaggio di raffinata cultura, collaboratore dell’editore lecchese Ettore Bartolozzi e della sua “Rivista di Lecco”, autore di molte introduzioni alle sillogi di Manzoni, spiega «”El canton di ball”, ovverossia l’angolo delle ciarle, era una località molto rinomata, posta nel centro cittadino, alla confluenza della via principale Cavour con la via Roma e la piazza Garibaldi. Lo era fino a pochi anni or sono. (…) Ora, su questo angolo delle chiacchiere, compreso fra i negozi prospicienti il lato dei caseggiati con epicentri gli scomparsi caffè Colonne e ristorante Borsino, sono ribolliti i pettegolezzi della “belle époque”; si sono accalorati i commenti nel campo delle arti e dello spettacolo, delle manifestazioni culturali e di quelle patriottiche; hanno vissuto i contrasti delle lotte politiche che talvolta offuscarono le ingegnose intraprese industriali. In questo cantuccio, insomma, hanno trovato sfogo le passioni e le vicende private e pubbliche di Lecco a cavallo tra l’ottocento e il secolo attuale. I “ritrovi”, convenendovi i caratteri più strani e i tipi più bizzarri, hanno fissato, nella dimensione storica lecchese, il colore e il calore di una vita per un verso simpaticamente spensierata e per l’altro verso tenacemente operosa».
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Certe poesie di Manzoni si leggono con gusto. Come la lunga “Sagra de la scira”, la sagra della cera, in cui si racconta di un contenzioso d’inizio Novecento tra il clero e un fabbricante di candele: «Parecc ann fa, l’è capitada a Lecch/ la sagra de la scira coi stoppin:/ on cas straordinari, on battibecch/ ch’ha trasformaa ‘l paes di ferascin/ in Curia, e on sgolatrà de socch a stroeus/ mai gnanca vest ai temp de sant Ambroeus…». Ed è un muoversi tra sacrestie e tribunali, tra processioni di preti e avvocati. 
Ci sono poi le liriche per la riapertura del Teatro Sociale dopo anni («Finalmente el “Social” e l se spalanca/ dopo tanti ann d’ingiusta clausura,/ e a Lecch dove l’appassionaa nol manca/ riprend la volontà per la coltura») o il Corteo Manzoniano («Don Lisander settaa su la poltrona/ el varda la so agent in grand parada:/ la benemerita i cavaj la sprona/ e incomincia la storia altoparlada…»), ma anche il futuro turistico di Lecco di cui evidentemente già si parlava mezzo secolo fa: «Soeu on settimanal noster, vegnuu foeu/ de pocch temp, se leggeva a prima vista/ che el forestee el riva, ma se el peou/ al mena i toll dopo quaj provvista,/ per mancanza de infrastruttur correnti;/ piscenn, spiagg, attrazion, divertiment…». 
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Pochi versi fra i tanti, tantissimi: la produzione di Luigi Manzoni è più che vasta. Eccessiva, diremmo. Manca però di un “disegno”, ma anche di un lavoro di riordino, così che nel “Canton di ball” compare un po’ di tutto, comprese quelle che lo stesso autore definisce “poesie encomiastiche”, composte in occasioni di qualche matrimonio o dedicate a personaggi illustri ma anche a medici che immaginiamo lo curassero per qualche acciacco, senza trascurare neppure il proprio dentista: «Toeutt sorrident, da l’espression sincera/ che mett in mostra el mej del campionari,/ el dottor Toga, con bell fa de maniera,/el me setta in poltrona a vardà in ari./ (…) -Quest el donda e queste l vanza foeu;/ questì de part j en pront de trapanà;/ sti radis malandaa saran de toeu,/ e inveci questi j en bon e i lassem stà. -/ Prest quaj spongiuda per la fiffa entrada, / e in men de dell la polizia l’è fada». Oltre a quegli esercizi di stile che sono la traduzione in dialetto di Carducci o D’Annunzio.
Inoltre, se il dialetto si presta spesso alla satira, va detto che Manzoni ci va con i piedi di piombo. Se c’è del faceto, siamo nel campo dell’umorismo più che della satira, leggere canzonature destinate a gratificare più che a contrariare. Anche se qualche dente avvelenato si riconosce, tutto sommato è un poetare riguardoso, financo un po’ ruffiano: si pensi appunto alla “Rapsodia di Aldee”. Nei confronti degli industriali, fin dai tempi del “Gerenzun”, Manzoni ha del resto un atteggiamento riverente. Che emerge anche a proposito della celeberrima contesa elettorale del 1909 tra Giorgio Falck e Mario Cermenati di cui si parla già nel “Cavalier Gerenzon” e sulla quale ritorna con una lunga poesia (“Elezion”) nel “Canton di ball”: versi nei quali Manzoni accusa i lecchesi d’aver preferito «quel professor di sass/ do volt, disi, monumentaa» che è il Cermenati a un capitano d’industria «semper a l’avanguardia del progress» quale il Falck e così perdendo un’occasione di sviluppo. Rammarico che avrebbe poi alimentato la leggenda di un Giorgio Falck che decise di lasciare Malavedo per Sesto San Giovanni perché trombato dagli elettori lecchesi. 
E così di Manzoni, ancora Scotti scrive nel “Dizionario della provincia di Lecco”: «Lo scrittore fu di facile vena e di facili disorientamenti politici, soprattutto nel secondo dopoguerra quando giunse a sostenere qualche campagna elettorale del Msi dopo essere stato, in particolare durante la seconda guerra mondiale, uno dei più divertiti artefici di barzellette e poesiole in versi contro il fascismo».
Nel “Canton di ball” è compresa una celebrazione della Resistenza: «Menzionem quella ch’ha salvaa/ l’Italia, e giò el capell;/ ch’ha patii i sofferenz di malandran/ ch’ha proaa la famm e gh’ha mettuu la pell,/ a riparass bracaa/ su i mont per mes, per ann intrègh, ‘me can.». Ma è pur vero che anni dopo, alcune poesie avrebbero evidenziato quello che si potrebbe definire un disincanto se non fosse già qualunquismo, come si diceva un tempo. Sono gli ultimi anni di vita (quelli condensati nel “Mond che cambia” del 1977) in cui le liriche perdono freschezza per diventare lamentazioni da anziani scombussolati dal mondo che appunto muta e che non comprendono e non condividono: le gonne che si accorciano, i giovani che protestano, gli scioperi operai… Allora come oggi e come sempre, un mondo alla rovescia (vi ricorda qualcosa?). Proprio “El mond a roers” si intitola una delle ultime poesie: «Per desmorbà sto mond de spazzadura/ ghe voeur che i popol trouen la strada giusta/ con el cervell, disinfettant e frusta».
Dario Cercek
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