SCAFFALE LECCHESE/190: l'assurdità della vita nelle poesie di Luigi Capelli

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«Io penso, dunque so./ So di nulla sapere/ se non che un dì la luce/ m’aperse gli occhi e il buio/ un dì li chiuderà./ So di non esser certo/ né di quello che prima/ di me fu né, nel “dopo”,/ ciò che di me sarà. / Sola cosa sicura/ (per averla esperita)/ questa: essere una dura/ fatica senza senso/ né compenso la vita.»

E’ una poesia del lecchese Luigi Capelli: la scrisse che aveva 82 anni ed era dunque una sorta di bilancio di una vita vissuta, una riflessione sull’inanità dell’umano dannarsi quotidiano. 
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Di Capelli ci offre un ritratto Gianfranco Scotti in “Poesia tra lago e monti”, un libro dedicato ai poeti del Novecento lecchese (edito nel 2002 dalla milanese Viennepierre su iniziativa del Centro di Cultura di Aldo Paramatti): «La Lecco del secondo dopoguerra era ricca di personalità che hanno lasciato un segno non effimero, figure di rilievo che, a dispetto del luogo comune che vede la città solo dedita al lavoro, sorda a stimoli artistici e culturali, hanno saputo connotarla anche in una prospettiva diversa, densa di sollecitudini e di occasioni». 
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Di quel periodo scrisse lo stesso Capelli in una gustosa memoria ospitata nel 1995 dalla rivista storica “Archivi di Lecco”: «Era la Lecco, sotto il fascismo, delle notti insonni, popolate di sogni di libertà e riscatto, di un gruppetto semiclandestino di giovani intellettuali che sotto il luccichio delle stelle camminavano su e giù, discutendo animatamente per ore e ore lungo le sponde alberate del Caldone (…). Era la Lecco degli esordi, in una camera d’affitto di pochi metri quadri, del pittore Ennio Morlotti (…) che vi si rinchiudeva a disegnare e ridisegnare, con una testardaggine accanita, i suoi nudi tormentati e tormentosi. (…) Era la Lecco di altri giovani pittori, come quel genialoide tonitruante e sconclusionato Aimone Modonesi, o il lecchese d’adozione Orlando Sora, gran virtuoso di chitarra classica, tanto tenero e sognante nei suoi quadri quanto infiammabile e collerico di carattere». E avanti ricordando i personaggi di prima fila di quella stagione cittadina.
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Nato nel 1914 e morto proprio nel 2002, Capelli fu docente liceale a Como, Milano, Roma e alla Scuola europea di Varese, città dove si stabilì negli ultimi anni della sua vita; collaborò a riviste letterarie, quotidiani tra cui il “Corriere della sera”, fu “lettore” per Mondadori e tra i redattori del “Dizionario Universale della Letteratura Moderna”, diede il suo contributo alla “Enciclopedia delle opere e degli autori della letteratura universale” di Bompiani, compose saggi di letteratura. E scrisse appunto poesie, pubblicando invero non molto e non per molti.
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La prima silloge è del 1940, “Amara fonte”, stampata a Lecco dalla Tipografia editrice “La Grafica”, a cura di Pino Tocchetti. «Sono liriche – scrive Scotti – che già annunciano quella che sarà la trama costante della sua poetica, una meditazione amara sul senso della vita, un costante colloquio con se stesso, un interrogarsi sul fine ultimo dell’esistenza».
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Peschiamo: «Piove. Di notte/ quando rotola un carro sul selciato,/ torna in ressa il passato/ e picchia invano alla persiana chiusa»; oppure: «Che notte è questa che dall’arco muto/ dell’orizzonte a un tratto s’è levata/ nel cielo come uccello di rapina?»; e ancora: «Ignoto a tutto. Sulla neve impronte/ sono appena di me che piego/ nel mio circolo breve l’orizzonte,/ pure se incrina al gelo che la specchia/ pavida già del suo folle abbandono,/ l’acre dolcezza di sentirmi solo»; infine: «Piccole bolle d’aria. Nella sfera/ di cristallo verdognola/ saliscendono pesci smemorati/ con movenze di gatto».

Due anni dopo uscì una raccolta per le edizioni della rivista culturale novarese “Posizione”: soltanto duecento esemplari numerati con disegni di un non ancora ventenne Testori, che allora si presentava come Gianni, e una nota introduttiva di quel Mario De Micheli che sarebbe diventato uno dei grandi critici e storici dell’arte contemporanea italiana, con un ruolo anche nella Resistenza lecchese

Scriveva De Micheli: «La virtù di Capelli sta [nella] accondiscendenza alla sua fragilità di uomo senza difesa e senza rivolta davanti alle peripezie delle sue ore; egli conosce i limiti della sua natura, la contraddizione patetica dei sentimenti, ed ogni volta custodisce elegiacamente le parole che nascono da questo dissidio».
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Tra «questi muri che rado» e «una sigaretta che rabesca l’aria di fumo azzurro», leggiamo: «Ecco avvero un rigoglio/ in me, come un groviglio si sommove/ repentino che scioglie/ sicuramente il torbido furore./ Meraviglia, ritrovo/ in un punto le cose che scoprivo,/ o miei giorni felici, redivivo/ a voi torno, e sì a lungo disperai./ Come gli alberi miro/ che fuggono a ritroso, la campagna/ così verde e leggera,/ e le torri e le cupole che incontro/ mi vengono nel chiaro mattutino,/ sono ancora il bambino/ cui basta il fischio della vaporiera»; e questa: «Mai più, se mi dirai/ che m’ami, t’amerò; / se mille volte/ pure mi chiederai/ che t’ami, e mille volte/ tacerò; che più speri/ da me, che attendi? E sai/ che mai,/ se così dolce/ il mio nome dirai/ ancora, la tua voce ascolterò. / Ahimè, vedi che pena/ di te che vuoi restare/ e di me che t’amai/ da principio sapendo/ di non poterti amare».

Passò poi oltre un decennio prima che Capelli tornasse a pubblicare: nel 1955 uscì uno di quei preziosi libriccini dell’editrice “All’insegna del pesce d’oro” di Vanni Scheiwiller: “Cartoline di Roma”: 350 copie numerate. Ci sono la via Veneto della bella vita («scorre entro una festa/ di toilettes e tavoli, folleggia/ l’effimero, un’opulenta e fatua greggia/ si mesce nel suo flutto»), l’antica Via Appia («E laggiù/ grandeggiano altre moli, d’altre cupole/ i pini s’infastigiano, arde vasta/ la lussuria del cielo») e poi le piazze che incantano i viaggiatori e quel profluvio di statue: «Frenati nella pietra erosa, guaste/ le orbite al barbaglio/ della luce implacabile, tentennano/ fra cielo e terra i santi».

Con altre liriche, le “Cartoline” confluirono poi in “Perché alla vita”, la raccolta più corposa uscita nel 1958 dalla romagnola Cappelli che sarebbe poi diventata una casa editrice specializzata in testi scolastici con sede trasferita Bologna ma che allora pubblicava una prestigiosa collezione di poesia.
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Dopo di che, sostanzialmente, fu il silenzio di una «vita appartata e schiva» come annota ancora Scotti. Fino addirittura al 1996, quando per una piccola casa editrice ticinese, “Il gatto dell’ulivo” di Balerna vide la luce “L’assurdo della vita”: cento copie firmate dall’autore, non sappiamo quante di più ne vennero stampate. Diciotto poesie scritte tra il 1993 e il 1996, tra le quali quella del nostro incipit, corredate da alcuni disegni dell’amico Ennio Morlotti e con un breve introduzione di Carla Porta Musa che, anche se che ai lecchesi il nome non dice molto, fu una protagonista della vita culturale comasca del Novecento, attraversato pressoché per intero, essendo nata nel 1902 e morta nel 2012: a 110 anni, giusto! 

«La mia amicizia con Luigi Capelli – scriveva Porta Musa – dura ormai da mezzo secolo, su base solida: la stima. Ecco perché Luigi non appena scrive una poesia la manda a me in duplice copia: una manoscritta per la Biblioteca Comunale di Como, l’altra battuta a macchina per me, accompagnate da lettere che conservo con cura».

La stessa Porta Musa ci dice che «Montale, Cardarelli, Quasimodo e Sereni dimostrarono caldo apprezzamento per la posie di Capelli». 

A Montale, come ci dice Scotti - «Capelli aveva inviato alcuni suoi versi. Nella lettera di risposta gli aveva scritto: “Io non rispondo mai. Stavolta sì. Perché ne valeva la pena». Capelli aveva conosciuto Montale a casa di Piera Badoni

Della frequentazione «tutt’altro che furtiva» di casa Badoni, nella memoria del 1995, Capelli ricordava: «Lì trovavo, all’ora fissata, proprio lei, la Piera, piccola e minuta, ad aprirmi la porta a vetri che immetteva nell’abitazione in cui mi introduceva e, facendomi passare per un grande salone (…) mi conduceva nel suo studiolo stracarico di libri. . E lì ci si sedeva, a debita distanza, sul sofà, e si parlava di libri, degli amici lontani, del fratello Antonio, ufficiale di marina, scomparso in un’azione di guerra. Qualche volta ci scambiavamo anche i nostri versi, intercalando alle parole lunghi silenzi carichi di una tensione che andava a poco a poco attenuandosi e trasformandosi in una sorta di schiva tenerezza, ripiegato ognuno su se stesso nell’auscultazione e nella decifrazione dei propri sentimenti e nella divinazione di quelli dell’altro, attento ognuno (e in lei intuivo e rispettavo una vecchia ferita non rimarginata né forse rimarginabile) a non oltrepassare i limiti di un riserbo geloso e al tempo stesso pieno di comprensione e quasi di complicità».

Come detto, Capelli riposa a Lecco «dove sono nato – concludeva infatti la sua memoria su “Archivi” – e dove ho trascorso l’infanzia e la giovinezza e dove, dopo un’assenza lunghissima che coincide con il resto della mia vita ormai al tramonto, vorrei essere sepolto accanto a mio padre e a mia madre, che mi attendono per ricongiungerci nella pace dell’ultima dimora».

«La sua città – scrive Scotti -, la Lecco dei suoi anni giovanili, Capelli non l’ha mai dimenticata. Pur vivendone lontano, ha nostalgia dei suoi monti, del lago, del campanile «altissimo e sottile». (…) Con Capelli se ne è andato uno degli ultimi protagonisti di una stagione felice della nostra città, la stagione delle speranze e della voglia di ricominciare dopo gli orrori del secondo conflitto. La sua poesia si colloca su un piano alto, colto, un canto dimesso, ma un canto che svela, nel suo armonioso modularsi, la profondità e la sincerità dei suoi sentimenti di uomo e di poeta».
Dario Cercek
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