SCAFFALE LECCHESE/218: la storia dei barcaioli lariani raccontata da Lucia Sala

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Abbiamo già parlato di barche e pure di battelli. Dovremo parlare, ora, di barcaioli. Ai ''batelatt'', tutto sommato, può bastare la presenza discreta in certi romanzi di lago. Coi barcaioli, invece, ci si addentra nel mito. Che li ha intrappolati: appartengono al novero dei mestieri scomparsi. Certo, oggi abbiamo i taxi-boat, ma sono tutt’altra cosa: una giostra per turisti e nulla più. Naturalmente, quella del barcaiolo era una figura fondamentale anche sul nostro lago. Da un paese all’altro, da una sponda all’altra ci si andava in barca. Chi ne aveva una propria, bene. Gli altri pagavano i barcaioli. Che facevano servizio regolare. Secondo una consuetudine millenaria.
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Dei barcaioli lariani ci parla Lucia Sala, bellagina appassionata ricercatrice di tradizioni locali, in due libri di particolare interesse: “Cento gondole lariane. Vita e lavoro con le grandi barche nel racconto dei protagonisti” e “Anna. L’avventurosa storia di una barcaiola lariana”. Entrambi editi dalla comasca “New Press” sono usciti il primo nel 2011 e il secondo due anni dopo. 
Sala non ha ricostruito una storia di questo mestiere, ma ha raccolto testimonianze degli ultimi barcaioli che hanno operato sul nostro lago, salvandone i ricordi prima che scomparissero.
 In “Cento gondole” la parola è data soprattutto a Mario Barindelli di Bellagio, al quale fanno da corollario il tremezzino Giovanni Cadenazzi e il menaggino Adalberto Fumagalli. 
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«Nei tempi passati – il racconto di Barindelli – il cuore vitale dei paesi del nostro lago era il porto: barcaioli, pescatori, commercianti, uomini di fatica, merci e persone che si muovevano tra gondole e comballi». Da Bellagio si scendeva verso Como e verso Lecco: «Il mercato di Lecco – continua Barindelli ricordando la propria giovinezza – si teneva il sabato» e una barca non molto grande era sufficiente «in quanto le mercanzie erano quasi esclusivamente collettame, cioè merci imballate in casse o sacchi, insomma roba fine, per questo mio padre lo definiva “un viacc de sciori” (viaggio di signori) a differenza dei servizi per Como dove tra l’altro ci aspettavano grosse partite di cemento e vagoni di carbone. (…) I preparativi iniziavano il giovedì mattina. Spingendo la barca col “punciàal” ci portavamo a San Giovanni per caricare alcune partite di cemento dei Ticozzi: non era molto, solo una cinquantina di quintali, destinati a Mandello e Lecco». E mentre si caricavano altri sacchi «noi facevamo il giro delle attività commerciali per ritirare le note delle commissioni»: i negozi, le osterie, la latteria sociale, le botteghe artigiane. Si ormeggiava a Pescallo per trascorrere la notte si ripartiva il mattino successivo, il venerdì: «Alla punta della Maddalena a Lecco, la barca filava come un razzo e si arrivava spediti davanti al pontile della Lariana. Approdavamo con una manovra perfetta. (…) Ogni barca aveva un suo posto preciso così che i clienti sapessero dove trovarla, il nostro era vicino al pontile del battello, e tutti i commercianti di Lecco sapevano che per mandare merce a Bellagio il Barindelli era in quel luogo dalla tarda mattinata di venerdì fino alla una del pomeriggio di sabato. (…) Zio Tobia prendeva la bicicletta e partiva. (…) Nel 1930 le ordinazioni si davano in busta o a voce, pertanto bisognava prendere la bicicletta e pedalare. Al ritorno dal giro delle commissioni ci si portava a pranzare. (…) C’era un “polentatt” in una piazza non molto lontrana. (…) Il caffè lo prendevamo allo “Svizzero”, e dopo una dormita di un paio d’ore sbrigavamo le ultime commissioni». E alla sera cena all’Orestino: minestrone, uova in “cereghin” e patate.
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Erano un’altra economia, un altro tempo, un altro mondo. Non ce ne si ricorda più. Ma hanno costituito la vita sul lago per secoli, fino agli anni Sessanta del Novecento: «Ho smesso di traghettare verso il ’65, perché non c’era più lavoro per le barche: era cambiato el giir del fùm. C’erano i battelli, c’erano i camion e le merci non arrivavano più con le gondole, la gente aveva le automobili e non traghettava più. Ora addirittura non c’è più nulla: né barche, né battelli, né fabbriche; il lago d’inverno è un deserrto. Anche le barche hanno una fine, il legno non è eterno e le mie ad un certo punto si sono disfate. (…) Io dovetti trovare un’altra occupazione». In fabbrica: «All’iniziò mi pesò lo stare in un ambiente chiuso ma poi mi abituai». 
A raccontare, questa volta, è Anna Corti di Onno, la protagonista dell’altro libro di Lucia Sala. Che aveva cominciato a remare per lavoro all’età di sei anni: «Venne una persona a chiamare mio padre per andare a Mandello, ma lui non aveva il tempo e così disse: “Viene là lei”. Mi mise in barca, i remi in mano e partii. Giunti a destinazione quell’uomo mi diede venti centesimi ringraziandomi. Lì a Mandello con quegli spiccioli in mano salii in cartoleria e comprai la cartella per la scuola, perché di lì a pochi giorni avrei iniziato la prima elementare. (…) Quando scesi a riprendere la barca era ormai buio, provai paura, ma cosa altro dovevo fare? Dovevo tornare a casa, salii e remando raggiunsi Onno. Sono quasi due chilometri, mi sembrarono un’eternità! Persi la nozione del tempo, quando arrivai c’era ad aspettare sul molo mia mamma che angosciata ripeteva: “Non arriva più, non arriva più”».
Poi, cresciuta e andata a lavorare come molte giovanissime dell’epoca, in una torcitura, Anna decise che le mura della fabbrica erano come una prigione e «mi dedicai alle barche a tempo pieno». 
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La famiglia Corti aveva due o tre barche, in certi periodi anche cinque. «La mia si chiamava Anna Onno». Si trasportavano persone e merci a Mandello, in casi di emergenza si andava anche a Lecco o a Bellano. «Quanta gente traghettava, tutti gli operai come i lavoratori di Guzzi e Ariasi, c’era chi doveva andare a prendere il treno, chi a Colico per le fiere. Qualcuno per risparmiare aveva la sua barca e si accordava con amici. Il Gino, autista della corriera, quando scendendo dalla Valbrona mi vedeva in acqua suonava per avvertire che a bordo aveva qualcuno da traghettare, ed io anche se ero già a metà lago tornavo indietro a prendere il cliente. I barcaioli erano tanti, magari a Mandello quando arrivava il treno si litigava per accaparrarsi i clienti» A Mandello c’erano il medico, la levatrice, la farmacia, ma ci si andava anche per portare i malati all’ospedale, i sacchi della posta, le forniture per i negozi. Giorno e notte: «Di notte ero sempre in giro, perché capitava spesso di lavorare alle ore tarde: c’era sempre da fare qualche traghetto, portare qualcuno a Mandello e poi mi piaceva la vita notturna! Nell’attesa di qualche passeggero mi fermavo a chiacchierare con i pescatori, al lavoro con i “navitt” e con la “rè granda”, ed aiutavo anch’io quando tutti assieme si tirava la rete. Quanto mi piaceva quella vita: ero povera, ma libera e felice».
Mandello era una piccola città, «c’era ogni cosa persino il cinema. La sera di Natale del ’49 andai al cinema col mio moroso; all’uscita mi disse: “Ho una sorpresa, ho qui il panettone e anche il prosecco”. Oggi sembra una cosa da niente, ma negli anni subito dopo la guerra assaggiare un panettone era una cosa eccezionale. Scendemmo alla barca, mangiammo il panettone “tutt intreech”, poi presi la sua scatola: era rotonda, di cartone pressato, la lanciai in acqua e dalla riva la guardavamo allontanarsi con la corrente giù verso Lecco. Tutto attorno era imbiancato dalla brina, c’era una grande luna che illuminava il lago, la scatola sembrava una barca in navigazione in bocca avevo ancora il sapore del dolce. E’ stata una delle più belle notti di Natale della mia vita».
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Fino alla seconda guerra mondiale, c’era anche tanto lavoro per le fornaci di calce: «Arrivavano le gondole e i comballi stipati di grandi fascine, caricate con tecnica precisa, con soli pochi centimetri di linea di galleggiamento. (…) Con la mia barca portavo sacchi di calce a Mandello. (…) Iniziavo alle quattro del mattino, alla fornace caricavi quattordici quintali per volta» E poi la guerra, l’armistizio, l’occupazione nazista e la Resistenza: la farina a mercato nero, i partigiani da traghettare, la paura d’essere sorpresi da fascisti e tedeschi, i bombardamenti alleati dal cielo».
Anna Corti è morta nel 2015, pochi giorni prima di compiere gli 89 anni e due anni dopo avere consegnato a Lucia Sala i propri ricordi: «Prima di incontrare per la prima volta Anna – racconta l’autrice - l’avevo già  in un certo senso conosciuta dai racconti di molte persone: mi aveva descritto una donna coraggiosa, forte, pronta a salire in barca prendere i remi e partire ad ogni ora del giorno e della notte, in ogni condizione di tempo e senza timore di nulla. Una ninfa delle acque la Anna di Onno, un mito noto in gran parte del lago e dintorni. Ed ho anche ascoltato la sussurrata confidenza di un anziano di lago: “Eravamo  tutti un po’ innamorati deell’Anna, una bella donna, forte, dai folti capelli neri: quando con le barche giungevamo a Mandello noi tutti speravamo di vederla. Appariva con la sua barca, remando sia che ci fosse vento che col lago calmo. “Eccola l’è scià l’Anna, la barchiröla!” dicevamo, e tutti a guardare la barca che si avvicinava”».
Dario Cercek
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