SCAFFALE LECCHESE/74: 'Felicità, che pure esisti' e le liriche 'nascoste' di Piera Badoni, poetassa di famiglia industriale

Chissà, avrebbe potuto essere tutta un’altra vita. Vale per chiunque, certo. Secondo le svolte improvvise dell’esistenza o soltanto la distrazione di uno sguardo.  Però, ci viene da pensare che davvero, tutta un’altra vita, avrebbe potuto essere quella di Piera Badoni. Che fu poetessa quasi segreta, forse proprio per quel cognome ingombrante. C’è come un filo malinconico lungo la vita di una donna che per la nostra città è stata in fin dei conti non altro che una segretaria d’ufficio, all’ombra di un padre come Giuseppe Riccardo Badoni, primattore sulla scena economica e politica lecchese per decenni.

Eppure, nel 1948, Piera Badoni - 36 anni, già da cinque al lavoro in azienda - pubblicò in trecento copie una piccola raccolta di poesie con la Cromotipia Ettore Sormani di Milano: “Felicità, che pure esisti”. Che non era il capriccio di una signorina borghese, un divertissemento, uno sfizio, ma un timido tentativo di affacciarsi alla ribalta letteraria. Ebbe incoraggiamenti, fin da Eugenio Montale. Ma dopo quell’esordio pubblico – a parte qualche lirica pubblicata nel 1968 sul settimanale lecchese “Terzo ponte” diretto da Aroldo Benini – le poesie che Piera Badoni continuò a scrivere negli anni e negli ultimi a dettare per una malattia che a poco a poco la privava della vista, rimasero celate, condivise tutt’al più nella cerchia ristretta delle persone intime. Soltanto cinquant’anni dopo quella prima e unica pubblicazione e nove anni dopo la morte dell’autrice, nel 1998 dunque, le edizioni lecchesi Periplo raccolsero le poesie edite e quelle inedite e ne fecero una nuova corposa silloge, alla quale si volle dare lo stesso titolo “Felicità, che pure esisti”, quasi a immaginare la ripresa di un discorso soltanto interrotto.
Quel titolo è il verso di chiusura di una poesia che Piera Badoni scrisse nel gennaio 1944: «E’ subito detto un anno/ ma un anno è fatto di mesi/ e i mesi son fatti di giorni/ e i giorni son lunghi da vivere/ son faticosi da vivere/ uno per uno/ senza nemmeno un tuo segno/  felicità, che pure esisti».
Felicità è parola ricorrente. A testimoniare un rovello interiore a proposito di un destino subìto e non scelto. Per quanto «non crediate che non/ sia stata felice/ mi fareste un grave/ affronto/ felici bisogna/ saperlo essere».
C’è come un vita vissuta furtivamente, ci sono amori forse fugaci e forse intensi incontri e tristezze, persone sfuggenti. E, appunto, un filo di malinconia: «Ma vi assicuro che ero carina/ e ogni sera piangevo di me/ davanti allo specchio,/ piangevo per il mio piccolo seno/per i miei capelli/ piangevo per l’anima mia/ per la mia viva anima tremante/come una foglia di pioppo/ lucida alle carezze del vento». O come un pomeriggio d’inverno che volge al tramonto, quando «ancora una volta» guarda il Resegone che da rosso acceso diventa viola e poi torna grigio e «poi sarà presto notte e le stelle/ a distesa sui platani nudi,/ La vasta Croce del Cigno/ tramonta là dove i miei sogni/ più vivi s’accesero/ per tanti uguali giornate,/ là dove io immagino un mondo/ di non mai vista bellezza, di chiara felicità./ E solo, dietro la palma, tramonta/ di sbieco il Delfino./ Neppure questa dunque è stata/ la mia giornata». E del resto «in fondo a questa mia vita/ scorre un amaro torrente,/ scorrono i sogni, le speranze, /la vita che avremmo voluto».

Già, «quale vita avrebbe voluto Piera Badoni?», si chiedeva Aroldo Benini in un articolo scritto per “Il Punto stampa” in occasione della morte della poetessa: «E’ un interrogativo che ci sfiora, pensando ai suoi giorni uguali vicini a un padre importante e conscio del proprio valore, che probabilmente spesso ha avuto ragione della sua volontà».
Certo non deve essere stato semplice. Come osserva Alba Caprile nell’introduzione alla raccolta di Periplo: «Nascere all’interno della famiglia Badoni, a Lecco, nei primi decenni del ‘900, era insieme un privilegio ed una responsabilità»: significava «vivere in una casa coronata di rose e avere a disposizione un giardino infinito per i giochi infantili», non avere preoccupazioni economiche e «godere di un ambiente culturale, di un’ampia rete di rapporti di parentela, di amicizia, di ospitalità», ma significava «anche corrispondere alle attese di un padre severo ed autorevole, molto amato, capace di grande tenerezza per i figli precocemente orfani di madre nel ‘18».

Giuseppe Riccardo Badoni. Sotto con la prima moglie Adriana Molteni e i loro cinque figli

Per la cronaca, morta la moglie Adriana Molteni, Giuseppe Riccardo Badoni si sarebbe risposato con Emilia Gattini e verranno altri figli. Dei cinque del primo matrimonio, quattro erano femmine (oltre a Piera, c’erano Sofia, Laura, Rosa) e l’ultimogenito il tanto atteso maschio: quell’Antonio che avrebbe perso la vita nella seconda guerra mondiale e al quale sarà intitolato l’istituto per periti industriali.
Dopo gli studi liceali – ci ricorda Caprile - «viene gradualmente coinvolta nei problemi e nell’organizzazione della vita familiare» ma sono anche «anni quasi affollati di eventi e di incontri, in cui si costruisce un’ampia cerchia di amici; con loro si ritrova a Milano, Viareggio, Firenze per il teatro o le serate musicali, per conversazioni o scambi di opinioni e suggerimenti di letture, per mostre e cene. Nomi noti e famosi del mondo letterario e culturale come Camilla Cederna, Vigorelli, Emanuelli, Radius, Capelli e poi Bo, Sereni, Montale, Levi, Buzzati si trovano magari ospiti in casa Badoni o in corrispondenza con le sorelle Badoni. Frequentazioni non solo culturali, che includono poi mogli e figli e amori in un ampio giro di confidenze e corrispondenze, in cui trova respiro l’innata disponibilità di Piera Badoni all’amicizia, la ricerca di umana autenticità oltre le convenzioni, pur con un fondo di grande riservatezza e di sorridente o pungente ironia. Si fa gradualmente cosciente il conflitto interiore tra il profondo legame con la famiglia e la casa, il bisogno di armonia e serenità anche nelle vicende minute, di una sponda rassicurante che le viene dalla consuetudine, e insieme il desiderio inquieto di evasione, l’impulso di andare all’avventura non solo coi pensieri, la consapevolezza di un ruolo sociale (di figlia nella casa del padre) che talvolta le appare soffocante».
Molto di questo si ricava dal diario che tiene in gioventù e poi da annotazioni sulle agende: «Qui ormai conosco tutto di me, del mio mondo, della mia casa, del mio giardino. Non mi basta questa conoscenza profonda. Ho bisogno di cambiar vita radicalmente. Non starò passivamente a veder passare un altro compleanno, a veder passare la vita. Il mio è un cuore di rondine incastonato in un anello d’oro… Via dalle mie montagne tragiche, dal mio lago disperato, che non rimpiangerei. Ho bisogno di lasciare per sempre questa inquieta Lombardia».  E allora: «Non voglio fare al traforo/ piccoli duomi, cornici,/ gabbie per canarini./ Fatelo voi vecchi sordi/ chiusi nel buio tinello./ Io corro via come l’acqua/ densa di rapide e gorghi». Un giorno che si trova a Firenze dice agli amici che non vorrebbe più tornarsene a casa con Vigorelli che appunto l sprona a non tornare.
Non succederà: Piera Badoni tornerà a Lecco, non lascerà mai l’inquieta Lombardia, lascerà passare molti compleanni. Nonostante quegli anni Quaranta sembranvao preludere un futuro altro. Certo sono anche gli anni terribili della guerra, gli anni della morte del cognato, l’architetto Giuseppe Mazzoleni, marito di Sofia; gli anni della morte del fratello Antonio, gli anni della guerra «che non finisce – commenta -, ma quando sarà finita, mi sai dire che cosa spereremo?», gli anni in cui entra a lavorare in azienda accanto al padre. Ma sono anche anni fertili «di traduzioni e composizioni e speranze di pubblicazione – ricorda Caprile - Radius vuole vedere le sue poesie (ne ha composte trentadue) e le fa sapere conciso: “Continui”, scrive un racconto (sei pagine a macchina) pubblicato probabilmente su Domus da cui riceve un compenso di trecento lire, le traduzioni sembrano o troppo lunghe o inopportune o “scolastiche”». Nessun accenno «alla pubblicazione dell’esile raccolta di trentasette poesie stampata in trecento copie numerate, a Milano: sua la scelta, i criteri, le spese. Ma chi o cosa la sostiene nell’affrontare il giudizio pubblico, il timore di mutilazioni o interpretazioni o forzature che la sua parola avrebbe subito o l’inesorabile alterazione del suo linguaggio in cui inattesi effetti fonici possono sembrare difetto di armonia o di inefficacia o di revisione? Sappiamo soltanto l’incertezza che sempre l’accompagnò sulla validità delle sue composizioni e peraltro la gelosa difesa della loro forma originaria»
Scrivono Gianfranco Scotti e Michela Magni in una pubblicazione promossa dal Centro di cultura di Aldo Paramatti nel 2002 (“Poesia tra lago e monti. Lecco e la Valsassina nella voce di tredici poeti del Novecento”, Viennepierre Edizioni): «Il suo libriccino, così dimesso, di piccolo formato, quasi non volesse dare nell’occhio non trovò un’accoglienza festosa. Pochi si accorsero del valore di quel minuscolo libretto. Pochi avvertirono l’altezza di quei versi intrisi di malinconia. Ma fra quei pochi, un nome su tutti, quello di uno fra i più grandi poeti italiani del Novecento: Eugenio Montale al quale Giancarlo Vigorelli aveva donato una copia del libro di Piera. Montale, che già la conosceva le manda una lettera» che ritroviamo riprodotta nel libro di Periplo: «Non odiarmi troppo, cara Piera; lo sai che ti ho fatto credito fin dal primo verso, e questo credito non potrà che aumentare. C’è in te qualcosa di assolutamente ammirevole, che tu non devi perdere o sciupare. Forse neppure ci riusciresti… ma non si sa mai. Ricordami a Sofia e scrivimi una lettera di perdono».

Annota Caprile: «Montale [le] dà credito fin dall’inizio, perché riconosce in lei qualcosa di assolutamente ammirevole, che non va sciupato (…): una delicatezza d’animo e una percezione acustica e indovinata della poesia (…)».
Passerà quel decennio, passeranno storie d’amore e, appunto, passeranno i compleanni: «Non vedo altro che fiumi./ Fiumi tranquilli e ponti,/ fiumi pigri e lucenti sotto il sole/ e quella notte silenziosi e buia./ Cadde una stella, i nostri desideri/ eran discordi…/ …e sui Lungarni/ s’accendono nel rosso del tramonto/ i vetri ed i miei sogni. / Vedo un fiume lucente sotto il sole,/ un fiume che rallenta, che dilaga,/ un fiume senza moto e senza meta».
«Certo è che questa donna- scriveva ancora Benini – i cui versi sono stato interi la sua vita, è rimasta sempre nell’ombra». Decidendo di lasciarsi alle spalle quella stagione, quasi eclissarsi in una modesta quotidianità: «Non farò niente di strano – scriveva - leggerò, sentirò musiche, canterò, andrò in ufficio e parlerò con la gente del tempo bello e brutto». Nonostante ancora nel 1952 Luigi Capelli (insegnante e anch’egli poeta, nato a Lecco e poi trasferitosi altrove) le scriveva: «Lei ha delle doti di sensibilità e di gusto che la farebbero un’ottima scrittrice, solo che avesse più fiducia in se stessa e non si lasciasse così macerare e sbiadire dalla routine».
Fino alla morte improvvisa, il 27 ottobre 1989: quel giorno – scrive Caprile - «passa come un giorno qualunque (…); nell’agenda può commentare “Oggi è andato bene”. (…) La trovarono senza vita sulla soglia di casa; si apprestava ad attraversare il giardino per recarsi a cena dai nipoti».
«Addio/ti lascio la mia voglia di vivere/ di amare/ e di conoscere il mondo/ forse sarei stata/ una buona mamma/ in una piccola casa/ con un piccolo orto/ ma il destino/ mi ha lasciato/ un giardino infinito/ e mille strade».


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Dario Cercek
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