SCAFFALE LECCHESE/148: 'Uomini sui monti', la nostra Resistenza raccontata da De Micheli

Mario De Micheli
(Foto: Wikipedia)
Mario De Micheli (1914-2004) è conosciuto soprattutto quale critico d’arte, autore di un testo sulle avanguardie artistiche del Novecento considerato irrinunciabile. E anche noialtri lecchesi pensano a lui in quella veste.
Eppure a De Micheli si dove il primo lavoro sulla Resistenza lecchese, “Uomini sui monti”, scritto nel 1947 e quindi in un clima ancora caldo e pubblicato poi nel 1953 dagli Editor Riuniti o, meglio, per le edizioni di “Rinascita” che era la rivista teorica del Partito comunista italiano. Una decina di anni prima, dunque, dall’uscita del libro di Silvio Puccio (“Una Resistenza”, 1965) che, pur con qualche inesattezza che studi successivi avrebbero rettificato, rimane ancora oggi fondamentale riferimento per lo studio della storia della lotta di liberazione nel Lecchese.
In quanto a “Uomini sui monti”, in una nota introduttiva lo stesso De Micheli spiega che «i fatti narrati, le notizie, i dati sono stati raccolti in parte dall’archivio del “Raggruppamento Divisioni d’Assalto Garibaldine Lombarde” delle provincie di Como e di Sondrio, in parte dalla viva voce dei partigiani e dei contadini, in parte ancora dall’esperienza personale dell’autore».
Di questa “esperienza personale” poco sappiamo. La breve biografia reperibile sul sito dell’Anpi si limita a dirci che «fu attivo nella Resistenza e che nel 1944 (…) fu arrestato». Mentre il sito della “Foresta dei Giusti” ci ricorda l’attività a favore dell’espatrio degli ebrei durante il periodo da sfollato milanese trascorso a Sormano e che proprio questa attività gli costò l’arresto.
Ma del suo ruolo nella lotta partigiana tra Comasco e Valtellina poco appunto ci è raccontato. Non dovette però essere figura defilata se riuscì a farsi affidare documenti di indiscutibile peso tra cui nientemeno che l’accordo di Morbegno tra i partigiani valtellinesi e le colonne tedesche in fuga nei giorni drammatici a fine aprile 1945. Documenti che non è ben chiaro che fine abbiano fatto, forse depositate in qualche archivio del Pci. Certamente, di questa sparizione i partigiani valtellinesi furono più che contrariati – per usare un eufemismo - stante l’impegno dello stesso De Micheli di restituire le carte «dopo poche settimane», come ci racconta Pierfranco Mastalli nel libro che raccoglie le memorie del comandante partigiano Gek (Federigo Giordano), pubblicato da Cattaneo nel 2017.
La copertina del libro
“Uomini sui monti”, che racconta della Resistenza tra il Lario e la Valtellina, non è propriamente un saggio storico. E’ un libro “militante”. Non è un caso che i suoi personaggi, tutti autentici e tutti esistiti, siano quasi sempre citati con il solo nome di battaglia. Come un “libro militante” va dunque letto, perdonando “ingenuità” e forzature, nonché certa epica un po’ eccessiva. Come l’immagine dei pastori premanesi che salutano a pugno chiuso i “ribelli” di passaggio.
Perché, naturalmente, il popolo è tutto dalla parte dei partigiani, è tutto contro i fascisti e i nazisti. Non si fa cenno a coloro che invece dalla parte dei fascisti restano, né a quell’altra area che sarà poi chiamata “la zona grigia”. Anche se qualcosa si lascia sfuggire: «Le spie e gli agenti provocatori hanno sempre costituito un pericolo continuo e reale per le formazioni partigiane. (…) La storia dello spionaggio antipartigiano è complicata e in gran parte oscura. E’ una storia, il più delle volte, senza volti e senza nomi, una storia grigia macchiata di sangue innocente (…) Intricate vicende, criminalità, squilibri, vigliaccheria, vendette personali; di tutto ciò è intessuta questa cronaca di misfatti. I partigiani dovevano guardarsi notte e giorno alle spalle per non essere colpiti dalla lama sinistra del tradimento.»
Un libro “militante”, dunque, ma che offre comunque una buona messe di notizie e che, soprattutto, già pone alcune delle questioni interpretative che resteranno fondamentali nell’analisi della storia resistenziale: dai renitenti alla leva della Repubblica Sociale alle divisioni nazifasciste impegnate dalla guerriglia e pertanto sottratte al fronte.
Il racconto di De Micheli comincia in una imprecisata canonica nella quale sembra voler presentare i vari personaggi che andranno a interpretare il dramma che comincia con l’8 settembre 1943 per concludersi nella primavera di due anni dopo.
«Il primo segno della guerra tra questi paesi di lago e di montagna erano stati i prigionieri. Il 25 luglio li aveva liberati dai campi di concentramento e le giornate che seguirono furono propizie alla loro fuga. Nella regione che da Como e da Lecco risale fino alla Val Chiavenna e alla Val Masino, la popolazione aveva incominciato a vedere piccoli gruppi di uomini raminghi e affamati, con facce inquiete, vagamente diretti verso il nord. (…) Americani, inglesi, russi, jugoslavi. La gente vedeva passare questi uomini, nati in altre terre, che chiedevano qualcosa da mangiare, e li seguiva con gli occhi finché scomparivano ad una svolta, dietro gli alberi, nella nebbietta del lago.»
Nasceva così quella rete di aiuto ai fuggiaschi, «una prima larva di organizzazione e naturalmente gli elementi antifascisti attivi avevano contribuito a questo lavoro» anche se «è ovvio che in quei primi tempi ogni cosa avvenisse più per spontaneità che per una precisa valutazione della realtà ancora troppo fluida», ma dopo l’8 settembre «le nuove difficoltà (…) imponevano l’elaborazione di un metodo.» E «fu a Lecco, in particolare che si concretò questo lavoro. Nella seconda metà di ottobre, usufruendo già di quanto l’intuizione e lo slancio popolare avevano fatto, il primo Comitato di azione clandestina iniziò più sistematicamente a studiare e perfezionare l’ingranaggio per l’espatrio dei prigionieri e degli ebrei».
E all’indomani dell’8 settembre si formavano i primi gruppi di “sbandati” sui monti: «Molta di questa gente andava verso la montagna senza sapere il perché, molti vi andavano credendo di trovare un buon posto per rifugiarsi, altri vi salivano per un semplice ed ingenuo gesto di ribellione, altri soltanto perché erano stanchi di fare i militari, ma il motivo profondo di quella decisione restava spesso nascosto agli stessi occhi di chi tale decisione aveva preso. A volte si trattava di un impulso istintivo, non cosciente, a volte di una volontà oscura di farla pagar cara a qualcuno. Quella gente che si avviava verso la montagna era davvero un amalgama disuguale per educazione, esperienza, classe e coscienza politica. Era qualcosa di informe e di anarchico, spesso insofferente di ogni disciplina».
Era un popolo variegato: «Gli uomini che militavano nelle file della resistenza venivano da classi diverse, dai più disparati gruppi sociali. Vi erano operai, intellettuali, contadini. (…) Tra di essi c’era chi politicamente si trovava immaturo, chi non riusciva ad avvertire i valori sociali della resistenza, chi, ed era la parte più grande, possedeva soltanto un forte orientamento di classe. E c’era infine chi da lunghi anni svolgeva un’attività politica ed aveva dentro di sé tutta quella somma di motivi, di argomenti e di convinzioni che potevano elevare lo spirito di quella lotta senza quartiere sino a renderla pienamente cosciente della sua natura nazionale a patriottica.»
I capi militari e i commissari politici «riuscirono a far sì che la guerra di montagna venisse portata avanti in stretto legame con le popolazioni e che tra le popolazioni stesse i sviluppassero e prendessero forza gli stessi motivi patriottici, antitedeschi e antifascisti che sostenevano la volontà dei partigiani.»
Certo, le condizioni erano quasi disperate: «L’armamento era insufficiente: qualche rivoltella, qualche fucile, alcune mitragliatrici pesanti Breda, qualche mitragliatrice leggera, scarse bombe a mano. Più grave ancora era la mancanza di munizioni: poche cartucce a testa.» Però «era una lotta di lupi, tra le pietre, sui cornicioni, lotta senza divise; sabotaggio e astuzia; colpire e sparire. Il nemico doveva imparare a credere negli spettri. Era la lotta popolare, l’unica lotta possibile quando l’esercito s’è disgregato, quando la guerra “ufficiale” è perduta.»
L’analisi affronta gli aspetti politici, come la polemica sull’attendismo e cioè le divergenze sullo scatenare immediatamente la battaglia senza quartiere contro il nemico o il temporeggiare. Mentre la ricostruzione storica elenca una serie di episodi salienti: le armi della caserma Sirtori abbandonata dall’esercito, il rastrellamento di ottobre che «segna il vero inizio della partigianeria in queste regioni» e la battaglia dei Piani d’Erna con il russo Nicola che si sacrifica alla mitraglia per consentire la fuga dei compagni: «Questa è la vostra terra, qui avete amici, padre e madre. La mia patria invece è a casa del diavolo. Non ho nessuno, io, qui». E ancora: i sabotaggi, gli agguati, le incursioni mancate e quelle riuscite, le marce forzate tra Val Brembana e Val Masino, gli assalti alle caserme a Colico, a Ballabio, a Casargo, i rastrellamenti tra lago, Valtellina e Valsassina con le vicende della Val Biandino e le fucilazioni, i momenti di stasi e quelli in cui la lotta si fa più intensa,  i lanci di aiuti dagli aerei alleati, compreso quello sfortunato del monte Muggio che «andò a finire  20 chilometri più in là a causa del vento e di tutto il materiale poco si riuscì a recuperare: al mattino i contadini, uscendo di casa, videro dei paracadute impigliati tra i rami degli alberi e sparsi sui prati, e tra i cespugli i viveri e le armi che, più o meno, finirono in mano alle Brigate Nere». Episodio ricordato nel romanzo del bellanese Luciano Lombardo, “Pelle di vento”, di cui questa rubrica si è occupata tempo addietro.
Il racconto prosegue fino alle ultime ore del fascismo. Sulle quali, De Micheli aggiunge una propria versione alle molteplici che si affastellano sull’epilogo del duce e della notte trascorsa nella cascina di Bonzanigo sopra Tremezzo: «Davanti alla porta della casa colonica vegliò per tutta la notte una guardia armata. La pioggia continuava a cadere fitta e ostinata. Il contadino raccontò più tardi come dalla cucina fosse scomparso un coltello che, al momento dell’arrivo di Mussolini, si trovava sulla tavola: “L’ha preso per uccidersi ma non ne ha avuto il coraggio”. Il coltello fu effettivamente trovato il giorno dopo nella stanza dove Mussolini aveva dormito». In quanto all’esecuzione, la versione è quella della fucilazione a opera di Walter Audisio (e in questa occasione il nome non è solo quello di battaglia) davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra.
«Con l’esecuzione di questa sentenza – leggiamo - si chiudeva l’ultima pagina della storia partigiana nel territorio che interessa il nostro racconto. Le forze patriottiche avevano vinto (…) in tutta l’Italia. Ora i partigiani potevano ritornare a casa, alla loro casa che da mesi e mesi sognavano nelle notti di montagna; potevano deporre le armi».
Però, la conclusione di De Micheli è già amara: «Sembrava che nulla avrebbe mai potuto offuscare la gloria dei partigiani. Invece, e ben presto, ogni genere di corvi venne fuori, ogni genere di sciacalli tentò d’insudiciare con bile e veleno quella splendida gloria. E non basta: incominciarono le persecuzioni, si vollero confondere i partigiani coi banditi, si volle mutare il nome di partigiano in nome di vergogna, si spalancarono le carceri ai seviziatori di patrioti e si imprigionarono gli eroi della resistenza. E tale infamia dura ed è alimentata dagli uomini che siedono ai banchi del governo. Ma questa è storia di oggi. I partigiani hanno compreso che il nemico contro cui si batterono in montagna non è stato ancora definitivamente vinto. Perciò, oggi, la loro resistenza continua».


PER RILEGGERE LE PRECEDENTI PUNTATE DELLA RUBRICA, CLICCA QUI
Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.