SCAFFALE LECCHESE/250: l'opera di Emilio De Marchi e i rimandi al nostro territorio, fra Brianza e Valsassina

Abbiamo già incontrato lo scrittore milanese Emilio De Marchi (1851-1901) a proposito di due novelle ambientate nel Lecchese.
La prima, “Quel maledetto coltello… (Il delitto di Osnago)”, uscì nel 1898 in una collana dagli intenti pedagogici (e ripubblicata anche una ventina d’anni fa per “I libri di Brianze” dall’editore Bellavite).
La seconda, “Amore e nient’altro”, apparve nel 1885 sul “San Michele”, una sorta di foglio volante pubblicato in un numero unico per la tradizionale sagra del monte Barro di quell’anno, su iniziativa dall’abate Antonio Stoppani che andava raccogliendo fondi per l’erezione del monumento lecchese ad Alessandro Manzoni.
La trama – una rocambolesca scampagnata famigliare proprio alla sagra di San Michele – fa oltretutto pensare che la novella sia stata scritta espressamente per l’occasione. 
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Emilio De Marchi

Oltre un secolo dopo, lo storico locale Pietro Dettamanti se ne sarebbe occupato nel secondo numero del 1995 dalla rivista “Archivi di Lecco”. Sottolineando i «profondi legami che unirono il De Marchi ai luoghi del Lecchese che egli ben conobbe e amò. Si possono ricordare, in particolare, i suoi soggiorni a Maggianico, allora vivace ritrovo di artisti e letterati della Scapigliatura milanese: qui egli trascorse numerosi periodi di villeggiatura in quella villa Martelli, di proprietà della famiglia della moglie, che costituisce una delle più antiche testimonianze del gusto dell’epoca». Villa ancora riconoscibilissima lungo il corso Emanuele Filiberto proprio davanti al “rudere” della villa che fu di Amilcare Ponchielli. 
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Non solo Osnago e San Michele, però. Nell’opera di Emilio De Marchi altri sono i rimandi al nostro territorio. Per quanto – va detto – si tratti di riferimenti geografici tutto sommato ininfluenti. E del resto – osserva il critico Giansiro Ferrata -, l’orizzonte di De Marchi è milanese «più che lombardo: non mi sembra esatto né giusto chiamare lombardo ciò che rammenta dalla Bassa alla Brianza un solo Duomo».
Lo spirito di campanile, ci porta comunque a cercar tracce lecchesi tra una riga e l’altra, setacciando l’opera omnia pubblicata tra il 1959 e il 1963 da Arnoldo Mondadori a cura appunto di Ferrata. Tre volumi: “Esperienze e racconti” (1959), “Grandi romanzi” (1960) e, in due tomi, “Varietà e inediti” (1963).
Già nel romanzo “Giacomo l’idealista”, fulcro della vicenda è una cascina brianzola nei pressi di Imbersago: il narratore arriva in treno a Cernusco e da lì, lasciando a sinistra la torre rotonda di Merate, viene condotto lungo una strada dritta in fondo alla quale «comparve una chiesa, un campanile, un villaggio, credo Imbersago, ma prima di arrivare alle case, la grigia [la cavalla]  di moto proprio voltò a sinistra e si messe per un viottolone di terra rossiccia profondamente solcato dai carri, che menava diritto alle Fornaci. (…) Il Resegone colle sue creste agitate e colle sue massicce rugosità sorgeva davanti come un gran muro, a cui si appoggiassero le schiene e i declivi degli altri monti, quale d’un verde scuro, quale d’un verde trasparente, quale d’un azzurrognolo leggero, che andava a confondersi a sinistra colle creste sfumate delle due Grigne di Lecco, che, rarefatte dalle nebbioline del mattino, parevan lì lì per sfumare nel cielo. Più morbida, più lenta si distaccava la linea del Monte Albenza. (…) L’Adda, nel fondo della conca verde, si vedeva or sì or no di mezzo ai fitti boschi di faggio e ai cespugli delle bassure, qua in un piccolo specchio turchino, forse il laghetto di Brivio. (…) Essendo la festa della Madonna di settembre, veniva dalla vicina Madonna del Bosco uno scampanare solenne». E qui e là altri rimandi: il tribunale di Lecco, un avvocato di Oggiono, un creditore di Merate, una Gesumina che ha studiato al Collegio delle Dame inglesi.
Inoltre, ci insospettisce quel Cremenno (con due “n”) che è «un paesello di montagna che respira l’aria del lago»: vi sorge un convento di canossiane dove, nel seguito di “Demetrio Pianelli”, la nipote Arabella trascorre l’adolescenza. Il paesello sarebbe però sul lago Maggiore. Non abbiamo trovato riscontro. Chissà.
Sospetti a parte, altri luoghi sono decisamente più certi.
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Per esempio, Dolzago è teatro della vicenda «con la sua bella morale di fondo» di un tal Maggiolino, «buono e innocente, il quale, nel tempo stesso che faceva il procaccia fra i cascinali, studiava il modo di poter diventare un giorno o segretario o almeno maestro del suo comune» per poi sposare, come da promessa infantile, la “sua” Teresella. Lui è alto e lei bassa, una differenza di statura che diventa oggetto di scherno: al mercato di Oggiono, gli domandano se avesse avuto intenzione di sposarsi «tutto d’un pezzo o mezzo per volta».  Così che le nozze rischiano di saltare. Gli sviluppi non li raccontiamo. Ma ci sono il lieto fine e appunto la morale: «Quante differenze fra uomini e donne non guarirebbe una febbre d'amore!».
E’ milanese, invece, la vicenda della bella Clementina e della sorella Carolina, storia di sentimenti travagliati e di un matrimonio, questo sì, mancato. Storia milanese, si diceva. Però, le nozze si sarebbero dovute celebrare nella casa di campagna a Cernusco: «Le ragazze del fattore andarono sei giorni e sei notti a preparare la casa, a spazzare i portici, a regolare il giardino e combinarono segretamente con un loro fratello di Merate di accendere anche dei fuochi d’artificio e forse di far venire la banda di Sabbioncello (…) composta da due trombe e un clarinetto».
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Il “Paesaggio alpestre” è invece quello del “nostro” Piazzo, sulle pendici del Magnodeno e cioè sopra Maggianico dove De Marchi villeggiava: «Una frazione distante tre quarti d’ora dal campanile della parrocchia, sulla montagna. Vi si può andare per diverse stradacce sassose che in tempo di pioggia si cambiano in veri torrenti e che qua e là s’intricano nel frascame e nei roveti del bosco. Chi riesce a levare le gambe da quei sassi, da quei rovi, viene a trovarsi sur una spianata o altipiano verde, morbido come il velluto, in cui il piede si affonda per tutta l’altezza della scarpa nell’erba e nel muschio. Qui fanno un perpetuo padiglione un centinaio di antichi castagni dalla scorza rugosa, dal ventre spaccato, dai rami intrecciati e aperti come se volessero proteggere il luogo colle loro braccia. Se vi batte il sole caldo e lucente, la volta, per dir così, del padiglione diventa chiara d’un verde smeraldo trasparente, tenerissimo che l’aria, giuocando, agita leggermente, scoprendo di sopra pezzuole celesti come si pensa che sia da bambini il manto della Madonna, e al di sotto sul prato, il sole sparpaglia pezzuole a scacchi d’un bel colore incarnatino. La popolazione di questo luogo solitario, oltre a quella di due cascine, sono principalmente farfalle d’ogni colore (…) e tutta una miriade di formiche, di grilli, di insettucci senza nome, che trovano nel muschio tutte le consolazioni che noi cerchiamo inutilmente nei libri dei filosofi e nei nostri amici». In quanto alla trama, si raccomta di Gaetano dei morti, il becchino della parrocchia, inviato a Piazzo a raccogliere il corpicino di un bimbo di tre o quattro mesi morto di angina.
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Con “Giampietro e Giampaolo” ci spostiamo invece a Moggio in Valsassina. Si narra di «due vecchi massai, che erano un pochino parenti tra loro: Giampietro il mugnaio e Giampaolo il torchiaio dell’olio. Entrambi bevevano l’acqua dell’istesso torrente; entrambi speravano di riposare le ossa nello stesso camposanto». E invece per via di una zucca cominciarono a litigare col che «un certo avvocato arruffone (…) intimò ai nostri due galantuomini di presentarsi nel suo ufficio a Lecco, pena la multa, la confisca e altre minacce che, a chi ci crede, fanno una gran paura, come ai ragazzi i tacchini per la strada». Con il mugnaio Giampietro a sbottare: «Ma c’è una giustizia a Lecco» (riecheggiando forse il celebre giudice di Berlino?). Sarà però la saggezza di un asino a riconciliare i due.
Un certo Paternoster è invece il protagonista della novella “La gente che lavora”: «Era solito far tre volte la settimana il viaggio da Lecco a Monza col suo mulo e col suo carretto, trasportando sacchi e ferramenti» E il sabato «si fermava davanti la filanda dei Gregori ad aspettare che le ragazze uscissero dallo stabilimento. Paternoster ne pigliava sul carretto sette od otto, di quelle che non tornano a casa che il sabato e che stanno lontano, oltre Castello od anche più in alto, e che sono costrette, in causa degli anni cattivi, a prender il lavoro dove lo trovano». 
Successe che «una sera Paternoster vide sopra la Svizzera un brutto segno di temporale. Non erano andati oltre un quarto di ora che l’uragano, portato in groppa al vento, era già disteso per tutto il bacino del lago, che prese subito il colore dello stagno. (…) Il biroccio arrivò alla testa del ponte nel momento che i vaporini del sabato, carichi di mercanzia e di gente, giravano la punta della Maddalena, fischiando come tante anime dannate. (…) Una saetta, che parve la lingua velenosa di una immensa biscia, guizzò fra i cocuzzoli del Resegone e subito dopo seguì un rombo altissimo di tuono e un premer di goccioloni forti, rabbiosi, pesanti, come il piombo». Finì con il carretto rovesciato e la mula quasi morta: Paternoster «rimase solo sul ponte, sotto gli sproni della pioggia, a slegare il mulo che pareva morto. Per trenta soldi aveva fatto un bel guadagno. La sua carriera si poteva dire finita. Lasciò il carretto in terra e colla bestia che zoppicava di due gambe andò a cercare chi volesse ammazzarla del tutto».
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In altre novelle, di un prete, don Carlino, si dice che la famiglia negoziasse «in riso e in altri cereali su per i mercati di Monza, di Lecco e di Santa Maria». Di un altro, don Egidio chiamato “ad audiendum verbum”, «un buon prete piuttosto ignorante, ma di fede sincera, pieno di carità» si dice guidasse la misteriosa parrocchia di Castagneto nell’altrettanto misteriosa Val Moggia. Però, quando don Egidio va in visita dall’arciprete «si partiva col lume delle stelle e si andava ad aspettare il primo sole al passo del Fò. Presso l’acqua delle Forbesette si mangiava il nostro mezzo pan bigio condito con una fetta di lardo, e rinfrescata la bocca alla fontana, si affrontava la Forcella per discendere…». Nomi e luoghi ben presenti a chi è uso scarpinare sui sentieri del Resegone. 
Infine, nella novella “All’ombrellino rosso”, si accenna a una «buona zia di Valmadrera».  Dove pure De Marchi aveva villeggiato. Nel 1878 infatti scriveva all’amico Antonio Cima, latinista originario di Valmadrera, docente liceale a Parma e poi universitario a Padova: «Non sono più propriamente a Valmadrera, come hai creduto, ma dieci minuti in giù, sul lago, a un paesetto detto Paré che forse tu conoscerai. Però sono sotto la protezione di S. Antonio, tuo patrono, e Valmadrera può vantarsi ancora di aver dato la culla a te e ospitato me».
Dario Cercek
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