SCAFFALE LECCHESE/170: tutti alla Sagra di San Michele, di volume in volume

Questo fine settimana di sagra a San Michele di Galbiate ci suggerisce la rilettura di vecchie pagine, alcune delle quali già citate anche in questa rubrica e altre, per la precisione quelle di Antonio Stoppani, sono diventate ormai un vero e proprio classico.
«Gli è che, per secoli (secoli!), la sagra del monte Barro è stata davvero un appuntamento dei più importanti del calendario lecchese al punto che all’inizio del Novecento gli operai lecchesi potevano scegliere quale festa onorare tra il giorno di San Michele e quello del patrono San Nicolò. Festa grande, dunque, festa religiosa e profana, festa popolare. Che attirava una moltitudine di persone. La città di Lecco si svuotava. Come appunto scriveva lo Stoppani: «Oggi per Lecco è giorno di festa… godiamolo in pace. Già fin dalla mattinata si veggono passare piccole carovane avviate verso il ponte (…). E’ infatti alla testa del vecchio ponte sull’Adda che si apre il sentiero che conduce a S. Michele. Già fin dalla mattina, adunque, si vede gente che alla spicciolata s’avvia a quella volta (…) che (…) vuol riservarsi la parte forse migliore di spettatrice nel pomeriggio. E’ allora infatti che la festa di S. Michele prende il suo vero carattere». E’ infatti a mezzogiorno che tutte le fabbriche si fermano e «il territorio si vuota alla lettera (…) tutto il rumore, come la calca, si va concentrando verso il ponte. (…) Infelici i pochi che rimangono a casa! Dev’esserci qualche grave bisogno; qualche grossa disgrazia».
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Era raduno talmente importante che lo Stoppani non volle certo lasciarsi sfuggire l’occasione per sensibilizzare i lecchesi, sollecitandone la generosità non sempre larga, alla causa dell’erezione del monumento ad Alessandro Manzoni. La campagna impegnò non pochi anni il prete geologo che non ebbe nemmeno la soddisfazione di vedere l’opera compiuta: morto il Manzoni nel 1873, lo Stoppani se ne andò il 1° gennaio 1891, poco più di nove mesi prima dell’inaugurazione del monumento. 
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In particolare fu nel 1885 che lo Stoppani promosse la pubblicazione di una sorta di giornaletto, “Il San Michele” appunto, un numero unico stampato in occasione della sagra di San Michele di quell’anno da vendere per raccogliere fondi da destinare al monumento manzoniano. E lo stesso Stoppani, nei panni di un escursionista milanese, vi pubblicava la propria descrizione della sagra: «Vedi Lecco e poi muori – l’incipit! - ... Il bel tempo ci invita: il S. Michele ci sprona. (…) Ma guarda là: che cos’è qual casone, solo lassù su quella specie di pianerottolo, a un terzo circa dell’altezza del Monte Barro? Una vecchia bestia?... una basilica?... un eremo?... un convento?... Ha qualche cosa di così strano… di così solitario… di così abbandonato… In fuori di quelle due casette lì presso, è un vero deserto. (…) Quella è appunto la famosa chiesa di San Michele: quello il luogo della famosissima sagra. Solitaria e mesta (…) anche quella chiesa ha un giorno all’anno in cui si ritrova, si rasserena, e quel deserto d’attorno diventa un tripudio di genti, un convegno festivo forse più che nessun altro dei molti luoghi consacrati alle sagre in seno ai monti lombardi. (…) Forse in nessun luogo del mondo si celebra una festa più allegra in più bella stagione. (…) Sono già più giorni che i bambini si sforzano di star zitti, sotto la minaccia di lasciarli a casa il giorno di San Michele. Ma forse più dei bambini sospirano quel giorno le mamme, le zie e le nonne che li condurranno sul monte, liete di potere anch’esse, una giornata all’anno, rimutarsi l’aria nei polmoni. La massaja ha già rimesso alla luce del giorno il famoso cavagno, letizia di tutta la famigliuola e pensa a riporvi le tradizionali provviste. L’operajo, divenuto provvido anch’egli una volta all’anno, ha diminuito di qualche giorno il numero e le dosi delle sue libagioni colla santa intenzione di rifarsene ad usura il giorno di S. Michele». 
E chi, alla sagra «ci va quest’anno spajato, sia garzone, sia donzella, ci torna appajato, l’altro anno. (…) Ogni prato è invaso; ogni poggio coperto; ogni rupe presa d’assalto. A brigate, a brigatelle, a crocchi, a tondo, a vanvera, come vien viene, giù tutti seduti attorno ai famosi canestri» E verso sera comincia “la ritirata”: «La folla va in giù condensata, più spettacolosa, così che a vederla fluente si direbbe una lava vivente. Comincia dopo il tramonto e dura fino a notte avanzata quando si risolve a discendere anche la retroguardia, composta dai più devoti a Bacco, i quali trovano che la via è diventata più scabrosa e più torta, gl’inciampi più frequenti, i bozzi più traditori, i sassi più duri».
Su quello stesso numero unico stampato dallo Stoppani compariva anche un racconto di Emilio De Marchi, “Amore e nient’altro”, riscoperto, a cura di Pietro Dettamanti, nel secondo numero del 1995 della rivista storica “Archivi di Lecco” e del quale abbiam già parlato in questa rubrica.
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Il protagonista è Ubaldino, un bibliotecario milanese innamorato di «una giovinetta assai graziosa», Fanny. “Galeotta” è proprio la sagra di San Michele dove i due si incontrano per una curiosa coincidenza e in circostanze non propriamente entusiasmanti per il nostro bibliotecario. «Ma ciò che era scritto in cielo – la chiusa di De Marchi- ebbe il suo felice compimento. Ubaldino e Fanny un bel giorno di primavera salivano ancora per il sentiero di S. Michele tenendosi per mano, sposi beati».
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Sulla sagra di San Michele ha scritto tra l’altro anche Antonio Ghislanzoni in quel romanzo tutto lecchese che è “Un suicidio a fior d’acqua” del quale pure abbiamo già parlato.
E, stavolta, più che ironico o sarcastico, il nostro è decisamente tranciante: «La manifestazione religiosa era in pieno fervore - mangiavano tutti! Figuratevi una spianata irregolare, addossata ad un giogo sporgente – e su questa spianata un magnifico tappeto verde, alberi, cespugli, siepi, macigni, tutti gli “immobili” che la natura fornisce gratuitamente, cui per insolito lusso, oggi si aggiungono le tende e le baracche elevate dal commercio girovago. (…) Il tempio e l’oratorio sono quasi deserti. Dinanzi all’ossario qualche donna sdentata che biascica le litanie, mentre le giovani compagne, forse nipoti o figiuole, indirizzano l’ora pro eo al ganzo che passa… (…) La spianata, il declivio dei gioghi circostanti, il sagrato della chiesa, tutto infine questo sfondo di scena fornito dalla natura e decorato dall’industria umana, si anima di una popolazione vivace e chiassosa, che bivacca a cielo aperto, canta, folleggia, e fa all’amore fra lo stridore degli zuffoli, il tintinnio dei campanelli, il tuono dei mortaretti, in quell’orda di rumori dissonanti e controversi, che formano il vero inno della gioja. Perdonate, lettori, se lo spettacolo delle esultanze umane non mi ispira concetti più elevati; ma nell’assistere a tali feste io subisco una impressione che mi studio invano di combattere. – Che tutta l’attività fisica e morale della specie umana non sia diretta che a questo unico scopo di servire e compiacere gli appetiti più grossolani della sensualità!... Che l’uomo sia al mondo per… mangiare e moltiplicarsi!... Che il pranzo e la cena sieno davvero a considerarsi gli atti più importanti della vita…»
Già nel Seicento, tra l’altro, il sovrappiù di profano della sagra era finito nel mirino delle autorità ecclesiastiche. E del resto, ancora nel 1907, il parroco segnalava come la sera del 30 settembre «una ben nutrita pioggia disperse i gaudenti. Sulla strada di Galbiate ci furono parecchie baruffe nelle quali tra avvinazzati si distribuirono a josa calci e pugni». 
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Così leggiamo nel libro “Tre chiese sul Barro”, pubblicato nel 2015 dal Parco del Monte Barro. Raccoglie scritti di Giuseppe Panzeri, a lungo sindaco di Galbiate ma anche ideatore e promotore dal parco, e di Federico Bonfacio, già sindaco di Pescate e a sua volta presidente dell’ente parco. Panzeri scrive della chiesa di Santa Maria e appunto di quella di San Michele con il corredo della descrizione dello Stoppani. Bonifacio si occupa invece della chiesa pescatese di Sant’Agata. 
A proposito di San Michele, Panzeri ci racconta come nella festa religiosa si ritaglia il proprio spazio quella profana «per il suono delle trombe, accompagnato probabilmente da balli paesani; per la spesa, propiziata dalla presenza di banchetti soliti a farsi durante la Fiera di San Michele (tali banchi erano prestati ai mercanti dalla Scuola del Santissimo di Galbiate e comportavano una buona entrata per le spese della chiesa); per lo sparo finale dei mortaretti. Proprio questa commistione dei due aspetti sacri e profani provocava nel 1653 nella relazione dell’inquisitore della Pieve di Olginate un severo giudizio sull’afflusso di pellegrini e visitatori in questa località».
La festa religiosa ha origini antichissime legata, sembra, al culto dei morti risalente all’epoca longobarda. Se Panzeri ricorda l’ipotesi, tuttavia non documentata, della presenza di un presidio longobardo «con un cimitero arimannico con cappella o chiesetta dedicata all’arcangelo Michele, un santo molto caro ai Longobardi che lo ritenevano il pesatore delle anime dei morti», un accorto Stoppani scriveva che «la chiesuola dicono fondata da Re Desiderio, l’ultimo dei longobardi: ed anche che esistesse prima di lui. Vendo quello che ho comprato, ma senza beneficio d’inventario o sicurezza di controllo».
Il primo documento che attesta la presenza della chiesetta è del 1146 e nel corso del tempo, l’oratorio fu oggetto di controversie tra Lecco e Galbiate, con tanto di denunce, processi e arresti, nonché tensioni tali da richiedere l’intervento dei soldati spagnoli: «Nei primi decenni del Seicento sia i lecchesi sia i galbiatesi promuovono il restauro di questa chiesetta sull’onda delle manifestazioni di pietà e di devozione per i morti di San Michele là sepolti nei secoli precedenti e nello stesso Seicento in occasione di pestilenze. L’afflusso di numerose processioni penitenziali da Lecco, da Galbiate e da molti paesi del circondario con il conseguente affluire di elemosine fa lievitare un lungo contenzioso sulla questione della giurisdizione ecclesiastica».
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Alla fine la spuntò Galbiate. E nel 1628 fu il galbiatese Francesco Spreafico a destinare nel proprio testamento i fondi per la costruzione di una più grande chiesa al posto del piccolo oratorio. Per ragioni burocratiche, solo nel 1717 si mise mano al progetto che non verrà però mai completato. Si elevarono i muri esterni e si pose il tetto che crollerà nel 1939.
Nel frattempo, era andata diminuendo la spinta religiosa. Scrive Panzeri: Man mano che si accentua il ruolo di S. Michele come polo ricreativo del territorio lecchese e brianzolo, diminuisce l’interesse delle autorità ecclesiastiche per incrementare la devozione popolare in quel luogo, perché ci si rende conto che i due aspetti non possono convivere o, meglio, che le pratiche devozionali non trovano un clima adatto. (…) Contemporaneamente prendeva piede la tradizione di effettuare allegre scampagnate su quei pianori, non disdegnati nemmeno dall’Alta Aristocrazia per lo straordinario spettacolo naturale che si presenta alla contemplazione del visitatore. La visita della regina Margherita a quella località e l’uscita del numero unico “Il San Michele” di Antonio Stoppani (…) nobilitano la fama del luogo. (…) Con la realizzazione dello “chalet San Michele” nel 1904 la località «diventa un punto di ritrovo di allegre comitive, di gruppi corali e bandistici e luogo ideale dei lecchesi per le “feste degli alberi”».
In quanto alla regina Margherita, vi era salita il 6 ottobre 1882: partita «da Monza col tramway – leggiamo nella cronaca del “Corriere di Lecco” - si recò a Barzanò, indi in carrozza si portò fino a Galbiate dove giunse verso un’ora pom(eridiana). (…) La Regina percorse la strada da Galbiate a S. Michele su un mulo. A S. Michele si fece colazione in una casa rustica, indi si fece un giro ai dintorni ammirando i panorami che da quella località si possono godere». 
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La regina salì a San Michele non in occasione della sagra, bensì una settimana dopo, ma secondo Panzeri proprio alla visita della regina si sarebbe ispirato il pittore Casimiro Radice, nato a Milano nel 1834, ma vissuto a Galbiate e morto indigente a Malgrate nel 1907, come ci dice il Dizionario illustrato di Lecco; forse non straordinario artista, meriterebbe però una rivistazione. Radice eseguì affreschi in molte chiese del Lecchese ma non disdegnava la cosiddetta pittura di genere. Ne è un esempio, appunto, l’ormai celebre “Sagra di San Michele”. Che appunto secondo Panzeri, non sarebbe però la vera e propria sagra, ma la visita della regina considerato che «nel dipinto ci sono personaggi certamente non popolani».
Nonostante, lo Stoppani concludesse il suo racconto con un «tutto si muta, ma la festa di S, Michele no. (…) La sagra di S. Michele ritorna la stessa ogni anno. (…) Venitela a vedere; e se è bel tempo mi darete ragione», nonostante lo Stoppani, dunque, oggi la sagra non è più quella di un tempo. Si può dire fosse ormai tramontata se non già scomparsa, quando il Parco del Monte Barro ne decise il recupero. Quest’anno siamo alla quindicesima edizione, ma naturalmente è tutt’altra storia. Dell’antica sagra nulla rimane più. Se non il fascino della chiesa incompiuta.
Dario Cercek
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