SCAFFALE LECCHESE/243: "frammenti" di vita di don Giovanni Ticozzi
Il 19 febbraio 1958 moriva improvvisamente, nel suo ufficio di presidenza al liceo classico di Lecco, don Giovanni Ticozzi, figura tra le più significative del Novecento lecchese. Alla guida del Classico, don Ticozzi lo era dal 1941. Ininterrottamente, verrebbe da dire. Non vi fosse stata la breve e drammatica parentesi dei sei mesi a cavallo tra il 1944 e il 1945, trascorsi per la gran parte in carcere per antifascismo.
A un anno dalla scomparsa, l’editore Ettore Bartolozzi pubblicò “Frammenti di vita”, un volumetto in cui venivano raccolti alcuni scritti del sacerdote e insegnante lecchese, introdotti da una presentazione di Olindo Di Popolo che gli era succeduto alla guida del liceo e da una biografia curata da Alberto Grilli, filologo classico, insegnante di lettere allo stesso liceo Manzoni dal 1949 al 1956 e poi docente universitario. Il volumetto sarebbe poi stato ristampato in forma anastatica nel febbraio 2008, in occasione del cinquantesimo della morte del prete e preside, su iniziativa dell’Associazione degli ex alunni del liceo.
“Frammenti” è una raccolta di testi sparsi: alcune lettere, comprese quelle scritte nelle carceri fasciste, discorsi ufficiali, conferenze. Ci consentono, per quanto parzialmente, di comprendere la figura, del sacerdote, dell’insegnante, dell’uomo di cultura e il suo impegno nella Resistenza lecchese. E offrono suggerimenti interessanti per svestire don Ticozzi da quella patina che contraddistingue i personaggi consacrati alla Storia.
Anche se – sosteneva Grilli - «scrivere una biografia di don Ticozzi è assai difficile impresa: la sua vita non ha quasi avuto episodi clamorosi e risonanti, rivolta com’era ai valori interiori dello spirito, all’amore del prossimo, alla bontà e alla bellezza. Ma un profilo che ne tracci i momenti della formazione culturale e spirituale, questo sì è possibile: chi ben lo conobbe ha davanti a sé una intera figura di uomo e cristiano, di sacerdote e cittadino, e non può dimenticare come, a penetrare nella sua schiva intimità, si trovavano tesori che ben raramente compaiono così ricchi e così molteplici, in una singola anima umana».
Nato nel 1897 a Pasturo, studiò al liceo classico e nel 1916 entrò in seminario: la sua – scrive Grilli - «non fu una vocazione bruciante e improvvisa, come una luce nell’incertezza dell’adolescenza. Fu un lento, un calmo ritrovare sé stesso in una convinzione sincera e commossa». Eppure quella vocazione era stato un sogno della madre «che scriveva nel 1912: “Quanto sarei contenta e soddisfatta se il Signore lo chiamasse nel Santuario. Non son degna di tanto, quindi è inutile sperare”; ma intanto spiava amorosamente nell’animo del suo Giovannino per cercare, se vi fossero, dei richiami a quella vocazione». Per la quale, ruolo non secondario ebbero anche l’esempio e gli insegnamenti di don Carlo Castiglioni, non molto più anziano di lui, ma che gli fu guida e insegnante. E celebrando il venticinquesimo di sacerdozio, nel 1948 don Ticozzi dirà che l’anniversario «mi chiama a fare un esame di coscienza di quanto ho fatto da che mi trovo sacerdote, cioè ministro di Dio: quanto poco bene ho fatto, quanto ho sciupato le grazie del Signore» offrendo un interpretazione di ciò che un sacerdote dovrebbe essere, «l’uomo di Dio, in cui tutti trovano conforto, rifugio, aiuto; l’uomo che ha lasciato il mondo per diventare e farsi il salvatore del mondo, l’uomo che della sua vita s’è fatta una croce per esservi crocifisso e patire lui per il suo prossimo e offrire i suoi patimenti per la redenzione e la felicità dei suoi fratelli».

Nel 1917 venne arruolato e inviato al fronte. Con qualche problema di coscienza: «Non entrava in questione se si dovesse essere neutralisti o interventisti – scrive Grilli -, anche se la simpatie del giovane chierico andavano ai primi: era la profonda convinzione cristiana che portava un animo mite e umano ad aborrire la guerra» ma «l’esperienza sul Montello e sul Piave fu per lui ricchissima nei confronti degli uomini intorno a sé. E di questa esperienza fece tesoro per tutti gli anni a venire».
Da parte sua, Ticozzi scriveva a don Castiglioni: «Non le dico certe ore terribili che passo pensando a casa e trovandomi in mezzo alla feccia dei bassifondi lecchesi e milanesi. Bestemmie, porcherie tutti i momenti: non sanno ancora che sono chierico (=prete sporcaccione, come dicono loro) ma lo sospettano. (…) La rassicuro però che il morale è alto, più di quanto vorrebbero i giornali siderurgici che anche qui sono tanto di moda. Il Corriere, ad esempio, entra anche nella nostra compagnia. Ho già sostenuto qualche disputa in proposito; come pure a proposito della guerra che qualche religioso utopista si sforza a trovare ideale e santa. Brrrr!... (…) Quello che però rincresce maggiormente è che a poco a poco m’imbevo di odio e di vendetta contro tutto ciò che puzza di buffonesco o ipocrito interventismo e si finisce con l’odiare anche le persone oltreché il sistema, e questo mi pare che sia tanto male; addio mitezza! C’è con noi un sacerdote (…) ma io non posso vederlo, e tanto meno intavolare un discorso con lui perché è d’un interventismo così grossolano e spinto che fa nausea, creda pure»
Ordinato sacerdote nel 1923, insegnò nei licei di Gorla e Celana prima di arrivare a Lecco. E nell’insegnamento scoprì la sua seconda vocazione: «la sua vita era nell’insegnare, nel contatto vivo e continuo coi giovani (…) Colla sua dirittura, rigida di fronte al sopruso e al privilegio, ma colma di comprensione verso le miserie, le debolezze, le sofferenze umane, colla sua severa preparazione diede uno slancio alla scuola, che divenne veramente la sua scuola. Lo dicevano i ragazzi che parlavano della “scuola di don Ticozzi” (…) Fin da quei primi anni i suoi scolari lo amavano e lo temevano: sorridevano di qualche sua sfuriata un po’ eccessiva, ma “filavano” per convinzione; e se convinzione non c’era, si piegavano alla sua autorità indiscussa, al prestigio che aveva su di loro. (…) Nella crisi del 1943-45 il suo comportamento non poteva essere diverso da quello che fu. (…) Atteggiamento cosciente di fronte alla violenza e di fronte ai pericoli che l’opporvisi portava con sé: sì che anche l’arresto gli parve, non certo desiderabile, ma logico»
E così – come avrebbe ricordato egli stesso rivolgendosi agli studenti al momento di riprendere possesso della cattedra il 7 maggio 1945 - «il 30 ottobre [1944] nel pomeriggio due… chiamiamoli agenti di polizia mi invitarono a seguirli alla sede del Fascio Repubblicano»: seguì la detenzione nel carcere comasco di San Donnino e quindi in quello milanese di San Vittore; poi, nel febbraio 1945, liberato per intercessione del cardinale Ildefonso Schuster e “rifugiato” alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone retta peraltro da un sacerdote lecchese di non trascurabile spessore, monsignor Luigi Moneta.
In una lettera inviata dal carcere ai propri cari parla delle proprie scelte: «Perché mettermi nei pasticci? Anzi tutto notate che volontariamente o storditamente non mi ci sono messo io; è stato un infortunio sul lavoro. (…) Quando c’è la passione per il nostro prossimo, per la nostra gente, per chi lavora e soffre ed è tradito e violentato e vilipeso, e tu puoi (o credi di potere) far qualche cosa in suo aiuto e sorgere, in nome della giustizia e della carità, contro la prepotenza e la tirannia e – in vista di quanto può succedere domani di orrendo in vendette e rappresaglie – cerchi di prevedere per provvedere e porre ripari e studiar accomodamenti e riforme e intese e accordi e previdenze (…) per questo ti unisci ad altri che sono come te trepidi e preoccupati del presente e del futuro, non già per vanità sciocche e sterili ma per portare il tuo contributo al risanamento e alla ricostruzione della tua terra, tu, voi,. chi, potrebbe condannarmi?».
E, quando rientrerà al liceo, il 7 maggio 1945, dirà ai suoi studenti: «Questa guerra orrenda, che a tutta prima sembrava scatenata dalla pazza e criminale ambizione di pochi uomini, forse era richiesta da profonde necessità storico-economiche; forse bisognava che un mondo vecchio e falso andasse distrutto perché si potesse riedificare su basi nuove un mondo migliore. E voi siete chiamati a questa opera immane: voi colle vostre piccole forze dovete porre il fondamento di questo nuovo mondo. Quindi dovrete lavorare, lavorare intensamente, coscienziosamente, generosamente: bando alle pigrizie, ai sotterfugi, ai compromessi, alle furberie, alle copiature, alle falsità! Deve regnare la schiettezza, la chiarezza, la precisione, l’emulazione. Disciplina e lavoro, deve essere la vostra bandiera!»
Raccontando della detenzione, tendeva a tranquillizzare i propri famigliari: «Si sta allegri, si gioca a carte. (…) Ci sono anche inconvenienti perché alla fine si è in galera; ma non ci si bada. Quando si combatte e si soffre per un ideale, le pene pesano poco. Preferisco essere io, in galera piuttosto che al comando. (…) Dopo il collasso, si vedrà l’opera dei buoni, si vedrà cosa si voleva, per che ci si preparava; e sarà resa giustizia. (…) Il Natale lo passai solo e… ecco, non troppo allegramente, si capisce; un complesso di ragioni mi hanno impedito di saltar dalla gioia. (…) Del resto pensate quanti tristi Natali! Per tanta, per troppa gente! Senza casa, senza famigliari, con morti, feriti, dispersi, rovinati gli affari, senza più speranze, coll’odio nel cuore o la disperazione o il dolore più crudo e lancinante, senza vitto, senza riscaldamento, senza nessuno forse, alla ventura».
«Con la Liberazione – continua Grilli -, gli si spalancò davanti, in un mondo da ricostruire, un senso nuovo della vita: educare bisognava, educare con la parola e con l’esempio, non solo i giovani, ma tutti, specialmente quelli che si erano lasciati illudere dall’orpello delle passate vicende, sepolti sotto il crollo della loro stessa vacuità».
E proprio con l’intento di “educare”, fu tra i fondatori e gli animatori di quel Circolo di cultura che cominciò a sprovincializzare la nostra città: «Lo si può ben dire creatura sua, plasmata dalla sua personalità; e grossi nomi, avvezzi a sedi fastose di rinomanza, venivano al centro di cultura non certo per il simbolico assegno, ma per il richiamo che c’era nelle lettere d’invito di don Ticozzi». Egli stesso tenne alcune conferenze, i cui testi sono contenuti in “Frammenti”: sui primi cristiani, su una lettera di Carlo Porta a Tommaso Grossi, su Saffo e Virgilio, su Michelangelo e Giovanni Papini, sull’arte bizantina a Ravenna
Eppure, il nuovo clima politico non pare lo garbasse particolarmente. Considerato che il 25 aprile 1947, commemorando Franco Minonzio (uno degli antifascisti lecchesi fucilati a Fossoli nel 1944) ebbe a dire: «Come rimpiangiamo la tua mancanza, la tua perdita, o Franco! Come saresti stato utile adesso, in questo spaventoso travaglio del dopoguerra, in questa estenuante disperata opera di ricostruzione. (…) Ma forse, meglio per te essere assente! Forse anche tu proveresti come noi l’amarezza della delusione: per il mondo ingiusto con cui i vincitori fanno pesare la spada della vittoria sopra questa nostra disgraziata terra, già tanto provata e ne vorrebbero fare campo di competizioni e mene imperialistiche; sia per l’acrimonia delle lotte che dilaniano tra loro i partiti, più teneri forse del privato interesse che dell’utile comune. (…) sia soprattutto per il fango e gli sputi che vengono gettati sopra la vostra opera e la vostra memoria da certa stampa e da torbidi elementi reazionari, che vorrebbero riabilitato e risuscitato – chissà per quali moventi e per quali fini – un recente passato di delitti e di vergogne!».
Del resto, proprio il suo insegnante, don Carlo Castiglioni, di don Giovanni si sentiva in dovere di spiegare: «Alle volte le sue idee sociali e politiche sembravano collimare praticamente con quelle di partiti estremisti; ciò però avveniva non in quanto don Giovanni accattasse o partisse dalle ideologie estremiste, ma da un approfondimento delle dottrine evangeliche, che lentamente penetrano e si attuano attraverso i secoli. L’incomprensione di questo poteva metterlo in esatta estimazione delle persone superficiali».
Tra l’altro, Gabriele Invernizzi (1913-1997), che fu deputato comunista dal 1948 al 1963, a proposito del Cln lecchese aveva scritto in quel suo “Taccuino d’appunti” pubblicato postumo nel 1997 dalle Camere del lavoro di Lecco e Como: «Don Giovanni Ticozzi militava nelle fila del Partito Comunista e quando gli dissi che era necessaria una presenza della Dc e che a lui avevo pensato, così mi rispose: “Se il Partito lo vuole, io sono d’accordo”. Egli rappresentò la Dc e ancora oggi la Chiesa lo colloca fra i suoi combattenti, malgrado che, dopo la Liberazione, fra la Dc e don Ticozzi la rottura fu completa».
Il curatore del “Taccuino”, lo storico Angelo De Battista, parla di un’affermazione clamorosa della quale ormai non si poteva più chiedere conto a Invernizzi, ma che necessiterebbe di approfondimenti, rimandandoci al ritratto che di don Ticozzi ha fatto Aroldo Benini nel libro di Giorgio Cavalleri “Il custode del carteggio”, libro nel quale si indicava proprio in don Ticozzi il depositario del leggendario carteggio tra Benito Mussolini e Winston Churchill.
Scrive, tra le altre cose, Benini: «Non era poi così severo custode delle ragioni della fede, se si professava in qualche modo vicino al socialismo, tanto che (…) rifiuterà costantemente di essere considerato vicino alla Democrazia Cristiana. Il suo socialismo, umanitario, probabilmente di stampo turatiano, era una scelta derivata dalla prima guerra. (…) Fu sempre avversario deciso di ogni espressione di totalitarismo da qualunque parte venisse e fautore di pace, in ogni momento, da qualunque parte venisse proposta, forse talvolta con ingenuità. Tanto da sottoscrivere spesso gli appelli dei Partigiani per la Pace, incorrendo nelle sanzioni che l’autorità ecclesiastica comminava a quanti non stavano allineati sulla via segnata dal ministro Scelba e dal professor Gedda. Così c’è chi lo ricorda condannato a dir Messa, anziché nella chiesa di Castello, nella chiesina dell’ospedale di Pescarenico, davanti a poche persone e al mattino presto».


Anche se – sosteneva Grilli - «scrivere una biografia di don Ticozzi è assai difficile impresa: la sua vita non ha quasi avuto episodi clamorosi e risonanti, rivolta com’era ai valori interiori dello spirito, all’amore del prossimo, alla bontà e alla bellezza. Ma un profilo che ne tracci i momenti della formazione culturale e spirituale, questo sì è possibile: chi ben lo conobbe ha davanti a sé una intera figura di uomo e cristiano, di sacerdote e cittadino, e non può dimenticare come, a penetrare nella sua schiva intimità, si trovavano tesori che ben raramente compaiono così ricchi e così molteplici, in una singola anima umana».
Nato nel 1897 a Pasturo, studiò al liceo classico e nel 1916 entrò in seminario: la sua – scrive Grilli - «non fu una vocazione bruciante e improvvisa, come una luce nell’incertezza dell’adolescenza. Fu un lento, un calmo ritrovare sé stesso in una convinzione sincera e commossa». Eppure quella vocazione era stato un sogno della madre «che scriveva nel 1912: “Quanto sarei contenta e soddisfatta se il Signore lo chiamasse nel Santuario. Non son degna di tanto, quindi è inutile sperare”; ma intanto spiava amorosamente nell’animo del suo Giovannino per cercare, se vi fossero, dei richiami a quella vocazione». Per la quale, ruolo non secondario ebbero anche l’esempio e gli insegnamenti di don Carlo Castiglioni, non molto più anziano di lui, ma che gli fu guida e insegnante. E celebrando il venticinquesimo di sacerdozio, nel 1948 don Ticozzi dirà che l’anniversario «mi chiama a fare un esame di coscienza di quanto ho fatto da che mi trovo sacerdote, cioè ministro di Dio: quanto poco bene ho fatto, quanto ho sciupato le grazie del Signore» offrendo un interpretazione di ciò che un sacerdote dovrebbe essere, «l’uomo di Dio, in cui tutti trovano conforto, rifugio, aiuto; l’uomo che ha lasciato il mondo per diventare e farsi il salvatore del mondo, l’uomo che della sua vita s’è fatta una croce per esservi crocifisso e patire lui per il suo prossimo e offrire i suoi patimenti per la redenzione e la felicità dei suoi fratelli».

Soldato nella grande guerra
Nel 1917 venne arruolato e inviato al fronte. Con qualche problema di coscienza: «Non entrava in questione se si dovesse essere neutralisti o interventisti – scrive Grilli -, anche se la simpatie del giovane chierico andavano ai primi: era la profonda convinzione cristiana che portava un animo mite e umano ad aborrire la guerra» ma «l’esperienza sul Montello e sul Piave fu per lui ricchissima nei confronti degli uomini intorno a sé. E di questa esperienza fece tesoro per tutti gli anni a venire».
Da parte sua, Ticozzi scriveva a don Castiglioni: «Non le dico certe ore terribili che passo pensando a casa e trovandomi in mezzo alla feccia dei bassifondi lecchesi e milanesi. Bestemmie, porcherie tutti i momenti: non sanno ancora che sono chierico (=prete sporcaccione, come dicono loro) ma lo sospettano. (…) La rassicuro però che il morale è alto, più di quanto vorrebbero i giornali siderurgici che anche qui sono tanto di moda. Il Corriere, ad esempio, entra anche nella nostra compagnia. Ho già sostenuto qualche disputa in proposito; come pure a proposito della guerra che qualche religioso utopista si sforza a trovare ideale e santa. Brrrr!... (…) Quello che però rincresce maggiormente è che a poco a poco m’imbevo di odio e di vendetta contro tutto ciò che puzza di buffonesco o ipocrito interventismo e si finisce con l’odiare anche le persone oltreché il sistema, e questo mi pare che sia tanto male; addio mitezza! C’è con noi un sacerdote (…) ma io non posso vederlo, e tanto meno intavolare un discorso con lui perché è d’un interventismo così grossolano e spinto che fa nausea, creda pure»

E così – come avrebbe ricordato egli stesso rivolgendosi agli studenti al momento di riprendere possesso della cattedra il 7 maggio 1945 - «il 30 ottobre [1944] nel pomeriggio due… chiamiamoli agenti di polizia mi invitarono a seguirli alla sede del Fascio Repubblicano»: seguì la detenzione nel carcere comasco di San Donnino e quindi in quello milanese di San Vittore; poi, nel febbraio 1945, liberato per intercessione del cardinale Ildefonso Schuster e “rifugiato” alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone retta peraltro da un sacerdote lecchese di non trascurabile spessore, monsignor Luigi Moneta.

Con allievi e docenti del liceo
In una lettera inviata dal carcere ai propri cari parla delle proprie scelte: «Perché mettermi nei pasticci? Anzi tutto notate che volontariamente o storditamente non mi ci sono messo io; è stato un infortunio sul lavoro. (…) Quando c’è la passione per il nostro prossimo, per la nostra gente, per chi lavora e soffre ed è tradito e violentato e vilipeso, e tu puoi (o credi di potere) far qualche cosa in suo aiuto e sorgere, in nome della giustizia e della carità, contro la prepotenza e la tirannia e – in vista di quanto può succedere domani di orrendo in vendette e rappresaglie – cerchi di prevedere per provvedere e porre ripari e studiar accomodamenti e riforme e intese e accordi e previdenze (…) per questo ti unisci ad altri che sono come te trepidi e preoccupati del presente e del futuro, non già per vanità sciocche e sterili ma per portare il tuo contributo al risanamento e alla ricostruzione della tua terra, tu, voi,. chi, potrebbe condannarmi?».
E, quando rientrerà al liceo, il 7 maggio 1945, dirà ai suoi studenti: «Questa guerra orrenda, che a tutta prima sembrava scatenata dalla pazza e criminale ambizione di pochi uomini, forse era richiesta da profonde necessità storico-economiche; forse bisognava che un mondo vecchio e falso andasse distrutto perché si potesse riedificare su basi nuove un mondo migliore. E voi siete chiamati a questa opera immane: voi colle vostre piccole forze dovete porre il fondamento di questo nuovo mondo. Quindi dovrete lavorare, lavorare intensamente, coscienziosamente, generosamente: bando alle pigrizie, ai sotterfugi, ai compromessi, alle furberie, alle copiature, alle falsità! Deve regnare la schiettezza, la chiarezza, la precisione, l’emulazione. Disciplina e lavoro, deve essere la vostra bandiera!»
Raccontando della detenzione, tendeva a tranquillizzare i propri famigliari: «Si sta allegri, si gioca a carte. (…) Ci sono anche inconvenienti perché alla fine si è in galera; ma non ci si bada. Quando si combatte e si soffre per un ideale, le pene pesano poco. Preferisco essere io, in galera piuttosto che al comando. (…) Dopo il collasso, si vedrà l’opera dei buoni, si vedrà cosa si voleva, per che ci si preparava; e sarà resa giustizia. (…) Il Natale lo passai solo e… ecco, non troppo allegramente, si capisce; un complesso di ragioni mi hanno impedito di saltar dalla gioia. (…) Del resto pensate quanti tristi Natali! Per tanta, per troppa gente! Senza casa, senza famigliari, con morti, feriti, dispersi, rovinati gli affari, senza più speranze, coll’odio nel cuore o la disperazione o il dolore più crudo e lancinante, senza vitto, senza riscaldamento, senza nessuno forse, alla ventura».
«Con la Liberazione – continua Grilli -, gli si spalancò davanti, in un mondo da ricostruire, un senso nuovo della vita: educare bisognava, educare con la parola e con l’esempio, non solo i giovani, ma tutti, specialmente quelli che si erano lasciati illudere dall’orpello delle passate vicende, sepolti sotto il crollo della loro stessa vacuità».
E proprio con l’intento di “educare”, fu tra i fondatori e gli animatori di quel Circolo di cultura che cominciò a sprovincializzare la nostra città: «Lo si può ben dire creatura sua, plasmata dalla sua personalità; e grossi nomi, avvezzi a sedi fastose di rinomanza, venivano al centro di cultura non certo per il simbolico assegno, ma per il richiamo che c’era nelle lettere d’invito di don Ticozzi». Egli stesso tenne alcune conferenze, i cui testi sono contenuti in “Frammenti”: sui primi cristiani, su una lettera di Carlo Porta a Tommaso Grossi, su Saffo e Virgilio, su Michelangelo e Giovanni Papini, sull’arte bizantina a Ravenna

La targa in sua memoria deposta dall'ANPI al liceo
Eppure, il nuovo clima politico non pare lo garbasse particolarmente. Considerato che il 25 aprile 1947, commemorando Franco Minonzio (uno degli antifascisti lecchesi fucilati a Fossoli nel 1944) ebbe a dire: «Come rimpiangiamo la tua mancanza, la tua perdita, o Franco! Come saresti stato utile adesso, in questo spaventoso travaglio del dopoguerra, in questa estenuante disperata opera di ricostruzione. (…) Ma forse, meglio per te essere assente! Forse anche tu proveresti come noi l’amarezza della delusione: per il mondo ingiusto con cui i vincitori fanno pesare la spada della vittoria sopra questa nostra disgraziata terra, già tanto provata e ne vorrebbero fare campo di competizioni e mene imperialistiche; sia per l’acrimonia delle lotte che dilaniano tra loro i partiti, più teneri forse del privato interesse che dell’utile comune. (…) sia soprattutto per il fango e gli sputi che vengono gettati sopra la vostra opera e la vostra memoria da certa stampa e da torbidi elementi reazionari, che vorrebbero riabilitato e risuscitato – chissà per quali moventi e per quali fini – un recente passato di delitti e di vergogne!».
Del resto, proprio il suo insegnante, don Carlo Castiglioni, di don Giovanni si sentiva in dovere di spiegare: «Alle volte le sue idee sociali e politiche sembravano collimare praticamente con quelle di partiti estremisti; ciò però avveniva non in quanto don Giovanni accattasse o partisse dalle ideologie estremiste, ma da un approfondimento delle dottrine evangeliche, che lentamente penetrano e si attuano attraverso i secoli. L’incomprensione di questo poteva metterlo in esatta estimazione delle persone superficiali».
Tra l’altro, Gabriele Invernizzi (1913-1997), che fu deputato comunista dal 1948 al 1963, a proposito del Cln lecchese aveva scritto in quel suo “Taccuino d’appunti” pubblicato postumo nel 1997 dalle Camere del lavoro di Lecco e Como: «Don Giovanni Ticozzi militava nelle fila del Partito Comunista e quando gli dissi che era necessaria una presenza della Dc e che a lui avevo pensato, così mi rispose: “Se il Partito lo vuole, io sono d’accordo”. Egli rappresentò la Dc e ancora oggi la Chiesa lo colloca fra i suoi combattenti, malgrado che, dopo la Liberazione, fra la Dc e don Ticozzi la rottura fu completa».

Scrive, tra le altre cose, Benini: «Non era poi così severo custode delle ragioni della fede, se si professava in qualche modo vicino al socialismo, tanto che (…) rifiuterà costantemente di essere considerato vicino alla Democrazia Cristiana. Il suo socialismo, umanitario, probabilmente di stampo turatiano, era una scelta derivata dalla prima guerra. (…) Fu sempre avversario deciso di ogni espressione di totalitarismo da qualunque parte venisse e fautore di pace, in ogni momento, da qualunque parte venisse proposta, forse talvolta con ingenuità. Tanto da sottoscrivere spesso gli appelli dei Partigiani per la Pace, incorrendo nelle sanzioni che l’autorità ecclesiastica comminava a quanti non stavano allineati sulla via segnata dal ministro Scelba e dal professor Gedda. Così c’è chi lo ricorda condannato a dir Messa, anziché nella chiesa di Castello, nella chiesina dell’ospedale di Pescarenico, davanti a poche persone e al mattino presto».
Dario Cercek