SCAFFALE LECCHESE/159: le testimonianze della fucilazione di Fossoli (12 luglio 1944)

Fossoli è una frazione del Comune di Carpi in provincia di Modena, tristemente nota per il campo di prigionia in funzione durante la seconda guerra mondiale. Dopo l’8 settembre 1943 passò sotto il controllo diretto dei tedeschi e divenne “campo di transito” lungo la rotta delle deportazioni nei campi di lavoro o di sterminio del sistema concentrazionario nazista.
Ed è ricordato, il campo di Fossoli, soprattutto per la fucilazione di 67 prigionieri avvenuta il 12 luglio 1944: fu «il secondo eccidio delle SS per numero di morti, dopo quello delle Fosse Ardeatine» come ha scritto Paolo Paoletti in un libro edito nel 2004 da Mursia (“La strage di Fossoli”). 


Due anni prima Mimmo Franzinelli (“Le stragi nascoste” Mondadori, 2002) aveva sottolineato: «Fossoli occupa un posto di rilievo nelle vicende degli eccidi nazisti in Italia (…) una strage avvolta per decenni da un cono d’ombra per una serie di ragioni, non ultima la centralizzazione della memoria ufficiale degli eccidi nazisti nel sacrario delle Fosse Ardeatine. Ancora senza risposta gli interrogativi sul motivo scatenante l’eccidio: rappresaglia decisa dal comando germanico di Verona o, piuttosto, decisione concordata tra il comando di Verona e quello di Fossoli per stroncare progetti di evasione dal lager?».



Nel 2004, in occasione del sessantesimo anniversario, il Comune di Carpi e la Fondazione ex campo di Fossoli pubblicavano “Uomini nomi memoria”, un volume che tra l’altro contiene le biografie di tutte vittime dell’eccidio del 12 luglio. Venne presentato come «tassello iniziale di una ricerca in corso d’opera». Per dire come, ancora oltre mezzo secolo dopo, la ricostruzione di quanto accaduto presentasse aspetti lacunosi.
Non è un caso che lo stesso Franzinelli parlasse di «strage senza colpevoli» e Paoletti polemizzasse su indagini un po’ leggere che si sarebbero accontentate delle conclusioni più comode. Indagini che vennero avviate già nell’estate nel 1945, quando si procedette anche alla riesumazione dei corpi, ma finirono archiviate. E di Fossoli sostanzialmente nulla più si seppe fino al 1994, quando al Ministero della difesa venne aperto il cosiddetto “armadio della vergogna” che conteneva la documentazione sulle stragi nazifasciste. E proprio alle carte contenute in quell’armadio è dedicato il libro di Franzinelli. Ci furono nuove indagini. E nuove archiviazioni.



Tra le vittime della fucilazione del 12 luglio vi furono molti lombardi e anche quattro patrioti antifascisti lecchesi, catturati pochi mesi prima. Il 23 febbraio era stato arrestato Lino Ciceri, esponente di una famiglia antifascista (il padre Pietro sarebbe stato deportato senza fare ritorno e la sorella Francesca era figura di primo piano della Resistenza dopo anni di esilio in Francia e altri di carcere). Lino avrebbe compiuto i 21 anni alla fine del mese; operaio di Acquate, fu tra i primi a entrare nella brigata partigiana “Carlo Pisacane” ai Piani d’Erna. 



Gli altri tre lecchesi, traditi dalla fiducia prestata a due sedicenti prigionieri russi rivelatisi poi spie naziste, erano invece stati catturati con altri il 19 maggio in un’operazione che aveva smantellato la rete lecchese di supporto ai prigionieri, agli antifascisti e agli ebrei in fuga verso la Svizzera e che aveva come punto di riferimento la casa delle sorelle Villa al Garabuso di Acquate: si tratta di Antonio Colombo, 40 anni, commerciante, tra gli organizzatori del gruppo partigiano di Campo de’ Boi; Luigi Frigerio, 43 anni, operaio, responsabile sindacale; Franco Minonzio, 33 anni, impiegato alla Badoni, responsabile del comitato sindacale. Lo stesso 12 luglio venne fucilato anche Emanuele Carioni, studente di 23 anni, bergamasco, ufficiale dell’Esercito passato alla Resistenza e diventato agente dei servizi segreti americani. Era arrivato a Lecco in primavera ed era stato arrestato proprio nell’operazione dl 19 maggio.
I “caduti lecchesi” di Fossoli sono ricordati da una via cittadina un po’ defilata dove recentemente il Comune e l’Associazione partigiani hanno posato un pannello per spiegare alle ultime generazioni una denominazione col tempo diventata quasi “misteriosa”.


Il 12 luglio 1944, dunque. La storiografia è concorde nell’indicare la strage i Fossoli come il culmine di un mese ad alta tensione. Per collocarla storicamente, ricordiamo che l’attentato di via Rasella e la seguente rappresaglia delle Fosse Ardeatini a Roma risalgono al 23 e 24 marzo.
Dopo l’8 settembre 1943, come detto, Fossoli era diventato un “campo di transito”: lì venivano convogliati gli ebrei rastrellati e i detenuti politici arrestati in varie località del Nord Italia, in attesa di essere caricati sui treni della deportazione. Per esempio, il 20 giugno 1944 «più di un migliaio di politici vennero chiamati in due riprese e avvisati che il giorno dopo sarebbero partiti per la Germania. Gli appartenenti al primo gruppo furono costretti a sottoscrivere l’accettazione della qualifica di “lavoratori volontari”, quelli del secondo furono destinati ai “lavori forzati” in lager dalla disciplina durissima, come Mauthausen. Per tutta la mattina del 21 automezzi trasportarono gruppi di internati dal campo alla stazione di Carpi».
Nel suo diario, alla data del 21 giugno, annotava Leopoldo Gasparotto,43 anni, avvocato, alpinista, figura di punta dell’antifascismo milanese, arrestato sei mesi prima, rinchiuso a San Vittore, torturato, e dal 26 aprile a Fossoli: «Arriva il capo-campo e annuncia che farà un appello. I chiamati si recheranno subito in camerata a raccogliere le loro cose, e si presenteranno subito dopo sul viale avanti la baracca 21. E comincia a chiamare, tra la sorpresa generale, i nomi di coloro che non erano mai stati indicati come lavoratori, prelevandoli dalla Todt o dalla Speer. Vediamo così partire (…) e tanti altri cari amici i quali, tristemente, raccolgono le loro cose, aiutati da fedeli amici. Il buonumore che si respirava stamane è scomparso. (…) Diamo qualche cosa ai partenti, essi lasciano a noi quello che non possono portare, poi ognuno s’avvia tra abbracci, saluti, incoraggiamenti al luogo dell’ultima adunata di Fossoli.  Alle 8 (…) sono già partiti. Noi restiamo a guardare i “castelli” vuoti, cogli occhi umidi. Uomini che non hanno battuto ciglio davanti alla [Polizia politica germanica] hanno gli occhi umidi al momento della separazione. Penseranno ad asciugarli (…) Poi s’inizia un altro appello, cui seguirà un terzo, senza una logica apparente e così si strappano a noi altri compagni, altri amici. (…) Quando. Alla fine si rinnova la calma la camerata ci appare vuota: ricomponiamo la fila, ricostruiamo i nostri gruppetti di amici».


Sono le sue ultime parole. All’indomani, infatti, Gasparotto venne prelevato dalla sua baracca, portato fuori dal campo e ucciso. Il diario, affidato a un compagno di prigionia, sarebbe rimasto a lungo tra le carte della famiglia e solo nel 2007 è stato pubblicato da Bollati Boringhieri a cura di Mimmo Franzinelli.
Gasparotto aveva non pochi legami con Lecco. Per la montagna prima, per la Resistenza poi. Di lui c’è una recente biografia scritta dal lecchese Ruggero Meles (editore Hoepli, 2011). Ci ricorda come Gasparotto fosse di casa in Grignetta: il 3 giugno 1923 «partecipa a una delle prime salite della Torre Costanza in Grigna e nell’agosto dello stesso anno pubblica la sua prima cronaca di salita su un bollettino della sezione milanese del Cai: è il resoconto della probabile terza ripetizione della via Carugati sul Sasso Cavallo (…) una “salita sui generis, doviziosa di ciuffi erbosi e di placche quanto povera di appigli». 


Vent’anni dopo, avrebbe avuto compiti di collegamento tra il Cln milanese e i primi gruppi partigiani: «Il suo raggio d’azione è ampio: interviene in Val Codera, ai Piani Resinelli, sulle alture del varesotto e nelle valli bergamasche. Anche la casetta e il roccolo di Zambla, a cavallo tra alta Val Brembana e Val Seriana la famiglia Gasparotto ha acquistato qualche anno prima casa di vacanza diventano un’importante base logistica per le brigate partigiane, almeno fino al dicembre 1943, quando i tedeschi bruceranno tutto nel corso di un rastrellamento». In quanto ai Piani d’Erna «l’organizzazione è scarsa. Da Milano arrivano militanti più esperti che forniscono le prime armi e i primissimi aiuti economici. (…) Fu proprio Poldo a portare alle bande in via di formazione [ai Piani d’Erna] le prime cinquantamila lire raccolte dal Comando Militare di Milano». Nome di battaglia “Rey”, Gasparotto «interviene anche direttamente attivando, insieme all’ingegner Bacciagalupi, un impianto radio costituito da due centraline telefoniche e da una stazione radio che collega Erna con Campo de Boi e la capanna Stoppani, tutte postazioni che permettono ai partigiani di controllare i movimenti delle truppe tedesche».
Torniamo a Fossoli. Nella notte tra il 24 e il 25 giugno, proprio nei pressi del campo, un treno che trasportava militari tedeschi deragliava per un attentato partigiano: il bilancio fu di due morti e numerosi feriti.



Nemmeno il tempo di capire che l’attenzione si spostava a Genova dove il 25 giugno una bomba scoppiava in un bar frequentato da militari tedeschi: sei morti e diversi feriti: «Le truppe tedesche – ha scritto Paoletti – provarono minuti di terrore: sono le stesse fonti tedesche a parlare di una mezz’ora in cui i marinai germanici compiono azioni inconsulte. Dunque è molto verosimile che dopo l’attentato ci siano state altre vittime tra i civili e i militari, queste ultime vittime di “fuoco amico”».
Di fatto con i sei morti iniziali venne conteggiato anche un ufficiale morto in altre circostanze. Quello tra Genova e Fossoli è proprio uno dei nessi non chiariti. A lungo i “fatti di Genova” sono stati ritenuti la causa della rappresaglia decretata dai nazisti per i prigionieri di Fossoli: 70 da fucilare per le 7 vittime genovesi.
Si arrivò dunque all’11 luglio, quando venne compilata la lista dei prigionieri da fucilare.  Ne venne fuori un elenco di 71 persone. Una in più delle 70 “pretese” dalla rappresaglia. Nel novero c’era un altro lecchese: Bernardo Carenini, primo comandante militare della “Carlo Pisacane” dei Piani d’Erna. Fu lui a venire graziato per «intercessione – scrive Franzinelli – di una segretaria del campo che lo aveva preso a benvolere». Per Paoletti Carenini fu salvato in virtù della «fiducia che si era conquistata con il comandante [Karl Friedrich] Titho, il quale lo ritenne persona utile, per cui lo salvò insieme ad altri ebrei e lo portò con sé a Bolzano». Ritratto questo che coincide però, stando a Franzinelli, con quello del milanese Ettore Barzini, compagno di lotta di Gasparotto, e successivamente deportato: sarebbe morto a Mauthausen. Anche Carenini sarà deportato, ma riuscirà a tornare in Italia: morirà nel 1991.



Il 12 luglio si compì la strage. I “condannati” vennero portati a gruppi di 25 nel vicino poligono di tiro di Cibeno, fucilati e sepolti in una fossa comune fatta scavare da un gruppo di reclusi ebrei la notte precedente.
In tre riuscirono però a sottrarsi all’eccidio. Uno fu Teresio Olivelli, figura di primo piano della Resistenza cattolica e le cui vicende incrociano Lecco. La mamma Clelia Invernizzi era di Cremeno in Valsassina: trasferitasi in Lomellina per lavoro aveva sposato Domenico Olivelli. Teresio era nato a Bellagio, ma la sua vita è legata a Pavia dove aveva frequentato il Collegio Ghislieri diventandone poi docente e rettore. Molte le biografie che gli sono dedicate e quasi tutte si intitolano “Teresio Olivelli. Ribelle per amore”. A cominciare dalla più significativa, quella scritta dall’amico Alberto Caracciolo, pubblicata già nel 1947 (poi ristampata nel 1975 e riproposta nel 2017 dall’editrice “Il melangolo”). Il riferimento è alla “Preghiera del ribelle” scritta proprio da Olivelli: «Signore della pace e degli eserciti. Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore».


Tra le altre cose, Olivelli animava il giornale clandestino “Il ribelle”, organo delle Fiamme Verdi di Brescia e dall’incerta periodicità. Arrestato il 27 aprile 1944, si spese perché il giornale continuasse in qualche modo a uscire: in maniera rocambolesca, tre numeri – dal quarto al sesto – vennero stampati nella lecchese via Mascari dalla tipografia Annoni e Pin, su iniziativa di Celestino Ferrario e Giovanni Confalonieri.
A Fossoli, Olivelli riuscì a sottrarsi all’appello, nascondendosi per qualche giorno in un magazzino, scampando alla fucilazione del 12 luglio ma non alla successiva deportazione a Hersbruck dove morì nel gennaio 1945.
Gli altri due scampati furono Mario Fasoli, comasco di Ossuccio, partigiano comunista, e il piemontese Eugenio Jemina: giunti con gli altri sul luogo della fucilazione, riuscirono incredibilmente a cogliere di sorpresa i militari germanici e a fuggire.
I fucilati, complessivamente, furono dunque 67. Tra loro anche il fantomatico “generale Della Rovere” (Giovanni Bertoni il nome reale) la cui memoria è stata tramandata da un controverso romanzo del giornalista Indro Montanelli uscito prima in rivista e poi in volume nel 1959 (ultima edizione Rizzoli, 2001) che ha ispirato anche un film, pure del 1959, girato del regista Roberto Rossellini. Bertone era stato una spia al soldo dei tedeschi: una volta smascherato dai compagni di prigionia, venne scaricato dai nazisti.


Come ogni anno, proprio oggi – domenica 9 luglio – l’eccidio viene ricordato a Fossoli nel corso di una cerimonia ufficiale con l’intervento tra gli altri il presidente regionale emiliano Stefano Bonaccini e il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Presenti anche una delegazione dell’Anpi lecchese e il gonfalone del Comune di Lecco.



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Dario Cercek
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