SCAFFALE LECCHESE/239: il progetto di una diga sul Pioverna nel romanzo di Muttoni
Ci fu un tempo in cui si ipotizzò di trasformare il fondovalle valsassinese in un grande lago artificiale, sbarrando il corso della Pioverna, come allora veniva ancora chiamato il torrente, oggi ormai maschilizzato. Una grande diga sarebbe stata eretta a Taceno, in quella gola in cui “la” Pioverna s’infila per gettarsi nella selvaggia Val Muggiasca prima di arrivare all’Orrido e alla foce di Bellano.
Come successo in altre località montane, alcuni paesi sarebbero stato sgomberati e ricostruiti più a monte. Un primo progetto venne redatto dall’ingegner Marco Semenza, membro di quella celebre famiglia milanese con villa in Brianza che annoverò ingegneri esperti in dighe e invasi: un’opera per tutte, la centrale idroelettrica tra Calusco e Robbiate.
Il progetto valsassinese fu al centro di un animato dibattito nel periodo a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La biblioteca civica di Lecco ne conserva tracce, come un opuscolo, a firma Bruno Fantoni, stampato a Milano nel 1942 (“La Valsassina e l’utilizzazione della sua ricchezza idroelettrica”) per confutare le argomentazioni dei contrari a quel progetto che invece – si sosteneva – avrebbe avuto favorevoli ricadute non solo economiche ma anche turistiche. E se ciò non sarebbe servito «a lenire il dolore dei valsassinesi di non avere più la valle quale impararono ad amare dai loro padri», sarebbe stato di consolazione il pensiero d’avere «preparato un migliore avvenire alle future generazioni, che non avranno più alcun motivo di rimpianto e saranno trattenute nella loro valle diventata più bella e più provvida».Ciononostante, l’opposizione doveva essere ben tenace e organizzata. Le stesse autorità locali (ricordiamo che si era in epoca fascista) esprimevano contrarietà. Furono poi gli sviluppi della seconda guerra mondiale a far tramontare l’idea. Negli anni Cinquanta, la grande diga sarebbe stata rievocata da un romanzo di Giuseppe Muttoni, il maestro elementare valsassinese dalla vita avventurosa del quale questa rubrica si è già occupata.
Fu nel 1957 che Muttoni pubblicò, con le Edizioni Sia di Bologna, “Il Dio più forte”, un’opera tutta di fantasia, come spiegava lo stesso autore nella premessa aggiungendo però che «l’idea del libro è nata da un fatto che, per ben due volte, ha minacciato di rompere l’armonia del paesaggio valsassinese. Il libro non vuol essere né un monito né una apocalittica profezia. Dio ci scampi e liberi: ha però lo scopo di rammentare ai miei convalligiani che il fantasma del “lago artificiale” non è ancora morto, ma dormicchia sornione in fondo al cassetto di qualche “pezzo grosso”, forse in attesa del momento propizio per un nuovo e più fortunato scatto verso la meta. Chi vivrà, vedrà». Muttoni racconta una Valsassina in cui è già stato realizzato il grande invaso artificiale per la produzione di energia elettrica, con la costruzione di una diga lungo la Pioverna alla stretta del Portone. Le vecchie case eranostate sgomberate, gli abitanti trasferiti in palazzine nuove; l’unico a rifiutarsi di lasciare la propria cascina era il vecchio Selmo: a chi lo consigliava di andarsene come gli altri, rispondeva «che in quella casa era nato, vissuto e voleva morire, come avevano fatto i suoi vecchi. Era sugli ottanta… (…) Viveva di quei pochi baiocchi che la figlia Rubina, setaiola a Como, gli mandava periodicamente».
«La zona della Valsassina – scrive Muttoni -, in parte acquistata e in parte espropriata dalla Società Anonima, trasformata in bacino idrico per la produzione dell’energia elettrica, si stende da Cortenova al ponte di Taceno e comprende sasseti, saliceti, pioppaie, prati grassi e campi fecondi, tutta la plaga delle Terme di Tartavalle, tutta la piana della Tondòla con le sue fiorenti fucine e i suoi cascinali, il paesetto chiamato Piano e il villaggio di Bindo, caro un tempo all’arcivescovo Ariberto d’Intimiano che vi soleva villeggiare. L’opera ciclopica era finita. Era lì, coi suoi muraglioni di cemento e con la sua immane diga in fondo, sull’imbocco delle Strette di Portone, quasi a simboleggiare l’era moderna, l’era del cemento e del ferro, l’era della scienza in lotta all’ultimo sangue con la natura per carpirle i più terribili segreti. Ma la costruzione meravigliosa pareva una cosa morta, Le mancava ancora l’elemento primigenio, per prendere vita e vigore, per diventare utile: l’acqua.»Da qualche mese infatti non pioveva e i torrenti erano del tutto in secca. Un segno del Cielo, secondo la popolazione che guardava alla diga come a un’ingiustizia, covando rabbia e sogni di vendetta: «”Anche il cielo dà contro a quei prepotenti!” dicevano con acre compiacimento gli abitanti ch’eran stati costretti ad abbandonare le case avite destinate dall’anonima alla sommersione». Erano stati trasferiti «nelle casette nuove che l’Anonima aveva fatto costruire sul opiano erboso tra il villaggio e il parco di Villa De Vecchi».
Infine, la sera di San Giovanni – si era dunque alla fine di giugno – arrivò la pioggia: più che un temporale, un diluvio, un giudizio universale: tuoni, fulmini, acqua a catinelle, torrenti che si gonfiavano e rompevano gli argini.
Intanto, però, cominciava finalmente a formarsi anche il lago artificiale: «Cresceva, cresceva» e «cominciava l’agonia della verde conca valsassinese che s’apre tra Cortenova e le Strette di Portone. La gente di Taceno, di Bindo, di Cortenova guardava, con l’animo gonfio di rammarico, di rancore e di ribellione, l’acqua crescere laggiù: torbida, ribollente e schiumosa alle foci dei torrenti, azzurra e lievemente ondosa a mezzo il bacino, sonora di sciabordio contro i muraglioni laterali e l’immane diga in fondo. Ricordava nostalgico un uomo di Cortenova: “Era bella prima questa conca (…)”. (…) Rammentava un vecchio di Taceno: «Guardate, si vedono ancora le cime dei pini, a monte, giù a Tartavalle. Adesso è finita. Addio villeggianti… non li vedremo più».
Un torrente in piena si portò via anche Selmo e la sua casa e fu il motivo del ritorno in valle della figlia Rubinia che decise di rimanere proprio per alimentare la vendetta contro la costruzione della diga: «Quanto odio ha fatto nascere quel lago! E durerà per generazioni quest’ofdo. I valsassinesi sono tenaci nei loro sentimenti, siano questi buoni o cattivi. (…) La natura si ribellerà, si vendicherà».
Il paesaggio era ormai cambiato: «Attraverso i secoli, col radicarsi nella valle della gente venuta da fuori, sotto ’'influsso delle periodiche ventate di civiltà e di benessere, quella zona s’era punteggiata di casolari, di baite, di fucine, di osterie, di terme, s’era arricchita di campi d’oro, di folte alberete. (…) E sui declivi attorno alla conca eran sorti ridenti paesi: Cortenova, sonoro di magli, d’incannatoi, di tramogge, di campane, odoroso di grassi mangiarini allietati da vecchie canzoni; Taceno, piacevole soggiorno estivo, dovizioso di frescura, di marcite opime, ammodernato per la comodità dei visitatori; Bindo, piccolo regno della santa quiete agreste, lenitiva dei crucci dell’anima. Poi, quando tutto sembrava assestato in una tranquillità di vita sana ed aliena da perturbamenti ideologici, in una patriarcale serenità d’animi e di operosità individuale e collettiva, in una comprensione di spiriti ideale per il progresso, il benessere e l’evoluzione sociale di un paese, ecco saltar fuori un fulmine a ciel sereno, il progetto esoso dell’Anonima a scompigliare la placidità attiva dell’esistenza dei valsassinesi, a suscitare risentimenti, a infocare rancori, a creare divergenze d’opinioni, a fomentare lo spirito della ribellione».
Silenziosamente, gruppi di contadini e boscaioli si misero a tagliare alberi e a gettarne i tronchi nei letti dei torrenti così da ostruirli e provocare poi piene improvvise cariche di detriti una volta che l’acqua avesse “rotto”.
«Pioveva a ciel rotto da due giorni, temporali, torrenti ingrossati. In fondo alla valle si sente un muggito: “Almeno andasse al diavolo, una benedetta volta, quell’accidente di bacino che ha fatto mangiare il fegato alla povera gente! Sarebbe la vittoria del Dio più forte, della natura. Eh sì, le forze che scendono dall’alto, dal cielo e dalla montagna, sono il destino stesso”».
«La valle – continua Muttoni -, specialmente nella zona del lago artificiale, era in preda al furore morboso di saccheggio delle acque. Paurosamente gonfia e torbida, la Pioverna rotolava sul fondo della vallata con un’irruenza titanica, rombando epicamente. La Rossiga, il San Biagio, la Maladiga, l’Orscialla e i torrenti minori del Mattolino venivan giù a rompicollo pei loro greti scoscesi e si buttavano nel bacino con rugghi ribollenti e rabbiosi. La furia dell’Orscialla e della Maladiga aveva sgretolato e aperto una larga breccia nel muraglione della diga dal lato di Naré, e per quella rottura le acque si riversavano schiumando nelle Strette del Portone. La strada d’accesso alla diga era franata nel bacino. La plaga da Cortenova a Taceno aveva l’aspetto di un piccolo mendo retrocesso nella lontananza biblica del diluvio. (…) Con un moto ondoso sempre più rapido l’acqua del bacino andava verso la diga, dove la vedeva gonfiarsi, schiumare e dvincolari frenetica. Poi, giù. Spariva in un baratro invisibile. D’improvviso un fragore spaventoso fece tremare la terra. Le voci irose dei torrenti parvero affiochirsi, perdersi in quel nuovo frastuono proveniente dalla gola cupaq del Portone. La diga era crollata. Le acque si buttavano giù nelle Strette dirupate, in sfrenata libertà, mugghiando furenti e vittoriose. Al di sopra della rovina della mirabile opera dell’orgoglioso ingegno umano fluttuava morbidamente una spruzzaglia d’argento, simile ad un arcobaleno, simbolo di pace tra la natura e gli umani».
«A mezzogiorno, sotto la rossa vampa del sole di luglio, la plaga da Cortenova a Taceno, apparve come una gran fossa desolata: cumuli di pietre, strati di ghiaia, di sabbia, di fango, larghe pozzanghere limacciose qua e là, tronchi e ciocchi sparsi da per tutti, muri di casolari, di fucine, di pagliai mezzo sepolti in un miscuglio molliccio di mota e di pattume, gore che versavano le loro acque giallastre nel fiume che ruggiva vittorioso nel vecchio greto. E sotto quei macereti e quel viscidume giacevano l’orgoglio degli uomini e il feticcio d’oro che essi adoravano. Schiantati dalla natura, dal Dio più forte».
Come successo in altre località montane, alcuni paesi sarebbero stato sgomberati e ricostruiti più a monte. Un primo progetto venne redatto dall’ingegner Marco Semenza, membro di quella celebre famiglia milanese con villa in Brianza che annoverò ingegneri esperti in dighe e invasi: un’opera per tutte, la centrale idroelettrica tra Calusco e Robbiate.
Il progetto valsassinese fu al centro di un animato dibattito nel periodo a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La biblioteca civica di Lecco ne conserva tracce, come un opuscolo, a firma Bruno Fantoni, stampato a Milano nel 1942 (“La Valsassina e l’utilizzazione della sua ricchezza idroelettrica”) per confutare le argomentazioni dei contrari a quel progetto che invece – si sosteneva – avrebbe avuto favorevoli ricadute non solo economiche ma anche turistiche. E se ciò non sarebbe servito «a lenire il dolore dei valsassinesi di non avere più la valle quale impararono ad amare dai loro padri», sarebbe stato di consolazione il pensiero d’avere «preparato un migliore avvenire alle future generazioni, che non avranno più alcun motivo di rimpianto e saranno trattenute nella loro valle diventata più bella e più provvida».Ciononostante, l’opposizione doveva essere ben tenace e organizzata. Le stesse autorità locali (ricordiamo che si era in epoca fascista) esprimevano contrarietà. Furono poi gli sviluppi della seconda guerra mondiale a far tramontare l’idea. Negli anni Cinquanta, la grande diga sarebbe stata rievocata da un romanzo di Giuseppe Muttoni, il maestro elementare valsassinese dalla vita avventurosa del quale questa rubrica si è già occupata.
Fu nel 1957 che Muttoni pubblicò, con le Edizioni Sia di Bologna, “Il Dio più forte”, un’opera tutta di fantasia, come spiegava lo stesso autore nella premessa aggiungendo però che «l’idea del libro è nata da un fatto che, per ben due volte, ha minacciato di rompere l’armonia del paesaggio valsassinese. Il libro non vuol essere né un monito né una apocalittica profezia. Dio ci scampi e liberi: ha però lo scopo di rammentare ai miei convalligiani che il fantasma del “lago artificiale” non è ancora morto, ma dormicchia sornione in fondo al cassetto di qualche “pezzo grosso”, forse in attesa del momento propizio per un nuovo e più fortunato scatto verso la meta. Chi vivrà, vedrà». Muttoni racconta una Valsassina in cui è già stato realizzato il grande invaso artificiale per la produzione di energia elettrica, con la costruzione di una diga lungo la Pioverna alla stretta del Portone. Le vecchie case eranostate sgomberate, gli abitanti trasferiti in palazzine nuove; l’unico a rifiutarsi di lasciare la propria cascina era il vecchio Selmo: a chi lo consigliava di andarsene come gli altri, rispondeva «che in quella casa era nato, vissuto e voleva morire, come avevano fatto i suoi vecchi. Era sugli ottanta… (…) Viveva di quei pochi baiocchi che la figlia Rubina, setaiola a Como, gli mandava periodicamente».
«La zona della Valsassina – scrive Muttoni -, in parte acquistata e in parte espropriata dalla Società Anonima, trasformata in bacino idrico per la produzione dell’energia elettrica, si stende da Cortenova al ponte di Taceno e comprende sasseti, saliceti, pioppaie, prati grassi e campi fecondi, tutta la plaga delle Terme di Tartavalle, tutta la piana della Tondòla con le sue fiorenti fucine e i suoi cascinali, il paesetto chiamato Piano e il villaggio di Bindo, caro un tempo all’arcivescovo Ariberto d’Intimiano che vi soleva villeggiare. L’opera ciclopica era finita. Era lì, coi suoi muraglioni di cemento e con la sua immane diga in fondo, sull’imbocco delle Strette di Portone, quasi a simboleggiare l’era moderna, l’era del cemento e del ferro, l’era della scienza in lotta all’ultimo sangue con la natura per carpirle i più terribili segreti. Ma la costruzione meravigliosa pareva una cosa morta, Le mancava ancora l’elemento primigenio, per prendere vita e vigore, per diventare utile: l’acqua.»Da qualche mese infatti non pioveva e i torrenti erano del tutto in secca. Un segno del Cielo, secondo la popolazione che guardava alla diga come a un’ingiustizia, covando rabbia e sogni di vendetta: «”Anche il cielo dà contro a quei prepotenti!” dicevano con acre compiacimento gli abitanti ch’eran stati costretti ad abbandonare le case avite destinate dall’anonima alla sommersione». Erano stati trasferiti «nelle casette nuove che l’Anonima aveva fatto costruire sul opiano erboso tra il villaggio e il parco di Villa De Vecchi».
Infine, la sera di San Giovanni – si era dunque alla fine di giugno – arrivò la pioggia: più che un temporale, un diluvio, un giudizio universale: tuoni, fulmini, acqua a catinelle, torrenti che si gonfiavano e rompevano gli argini.
Intanto, però, cominciava finalmente a formarsi anche il lago artificiale: «Cresceva, cresceva» e «cominciava l’agonia della verde conca valsassinese che s’apre tra Cortenova e le Strette di Portone. La gente di Taceno, di Bindo, di Cortenova guardava, con l’animo gonfio di rammarico, di rancore e di ribellione, l’acqua crescere laggiù: torbida, ribollente e schiumosa alle foci dei torrenti, azzurra e lievemente ondosa a mezzo il bacino, sonora di sciabordio contro i muraglioni laterali e l’immane diga in fondo. Ricordava nostalgico un uomo di Cortenova: “Era bella prima questa conca (…)”. (…) Rammentava un vecchio di Taceno: «Guardate, si vedono ancora le cime dei pini, a monte, giù a Tartavalle. Adesso è finita. Addio villeggianti… non li vedremo più».
Un torrente in piena si portò via anche Selmo e la sua casa e fu il motivo del ritorno in valle della figlia Rubinia che decise di rimanere proprio per alimentare la vendetta contro la costruzione della diga: «Quanto odio ha fatto nascere quel lago! E durerà per generazioni quest’ofdo. I valsassinesi sono tenaci nei loro sentimenti, siano questi buoni o cattivi. (…) La natura si ribellerà, si vendicherà».
Il paesaggio era ormai cambiato: «Attraverso i secoli, col radicarsi nella valle della gente venuta da fuori, sotto ’'influsso delle periodiche ventate di civiltà e di benessere, quella zona s’era punteggiata di casolari, di baite, di fucine, di osterie, di terme, s’era arricchita di campi d’oro, di folte alberete. (…) E sui declivi attorno alla conca eran sorti ridenti paesi: Cortenova, sonoro di magli, d’incannatoi, di tramogge, di campane, odoroso di grassi mangiarini allietati da vecchie canzoni; Taceno, piacevole soggiorno estivo, dovizioso di frescura, di marcite opime, ammodernato per la comodità dei visitatori; Bindo, piccolo regno della santa quiete agreste, lenitiva dei crucci dell’anima. Poi, quando tutto sembrava assestato in una tranquillità di vita sana ed aliena da perturbamenti ideologici, in una patriarcale serenità d’animi e di operosità individuale e collettiva, in una comprensione di spiriti ideale per il progresso, il benessere e l’evoluzione sociale di un paese, ecco saltar fuori un fulmine a ciel sereno, il progetto esoso dell’Anonima a scompigliare la placidità attiva dell’esistenza dei valsassinesi, a suscitare risentimenti, a infocare rancori, a creare divergenze d’opinioni, a fomentare lo spirito della ribellione».
Silenziosamente, gruppi di contadini e boscaioli si misero a tagliare alberi e a gettarne i tronchi nei letti dei torrenti così da ostruirli e provocare poi piene improvvise cariche di detriti una volta che l’acqua avesse “rotto”.
«Pioveva a ciel rotto da due giorni, temporali, torrenti ingrossati. In fondo alla valle si sente un muggito: “Almeno andasse al diavolo, una benedetta volta, quell’accidente di bacino che ha fatto mangiare il fegato alla povera gente! Sarebbe la vittoria del Dio più forte, della natura. Eh sì, le forze che scendono dall’alto, dal cielo e dalla montagna, sono il destino stesso”».
«La valle – continua Muttoni -, specialmente nella zona del lago artificiale, era in preda al furore morboso di saccheggio delle acque. Paurosamente gonfia e torbida, la Pioverna rotolava sul fondo della vallata con un’irruenza titanica, rombando epicamente. La Rossiga, il San Biagio, la Maladiga, l’Orscialla e i torrenti minori del Mattolino venivan giù a rompicollo pei loro greti scoscesi e si buttavano nel bacino con rugghi ribollenti e rabbiosi. La furia dell’Orscialla e della Maladiga aveva sgretolato e aperto una larga breccia nel muraglione della diga dal lato di Naré, e per quella rottura le acque si riversavano schiumando nelle Strette del Portone. La strada d’accesso alla diga era franata nel bacino. La plaga da Cortenova a Taceno aveva l’aspetto di un piccolo mendo retrocesso nella lontananza biblica del diluvio. (…) Con un moto ondoso sempre più rapido l’acqua del bacino andava verso la diga, dove la vedeva gonfiarsi, schiumare e dvincolari frenetica. Poi, giù. Spariva in un baratro invisibile. D’improvviso un fragore spaventoso fece tremare la terra. Le voci irose dei torrenti parvero affiochirsi, perdersi in quel nuovo frastuono proveniente dalla gola cupaq del Portone. La diga era crollata. Le acque si buttavano giù nelle Strette dirupate, in sfrenata libertà, mugghiando furenti e vittoriose. Al di sopra della rovina della mirabile opera dell’orgoglioso ingegno umano fluttuava morbidamente una spruzzaglia d’argento, simile ad un arcobaleno, simbolo di pace tra la natura e gli umani».
«A mezzogiorno, sotto la rossa vampa del sole di luglio, la plaga da Cortenova a Taceno, apparve come una gran fossa desolata: cumuli di pietre, strati di ghiaia, di sabbia, di fango, larghe pozzanghere limacciose qua e là, tronchi e ciocchi sparsi da per tutti, muri di casolari, di fucine, di pagliai mezzo sepolti in un miscuglio molliccio di mota e di pattume, gore che versavano le loro acque giallastre nel fiume che ruggiva vittorioso nel vecchio greto. E sotto quei macereti e quel viscidume giacevano l’orgoglio degli uomini e il feticcio d’oro che essi adoravano. Schiantati dalla natura, dal Dio più forte».
Dario Cercek