SCAFFALE LECCHESE/214: la riconciliazione a suon di libri con la Valsassina dell'avventuriero Muttoni

Era un maestro elementare di Primaluna, Cortabbio per la precisione. Un giorno decise di andarsene. In maniera un po’ brusca, a quanto pare. Emigrò in Sudamerica, tra Uruguay e Argentina, dove svolse più mestieri. Fu poi giornalista per la comunità italiana in Africa: a Bengasi in Libia, allora colonia, redattore-capo del quotidiano “Cirenaica Nuova”; successivamente ad Alessandria d’Egitto, redattore del “Giornale d’Oriente”. Nell’animo, un problema irrisolto con la propria terra d’origine, la Valsassina. A riconciliazione avvenuta, ne divenne un autentico cantore: «Mi riterrò compensato della mia oscura fatica se riuscirò a far penetrare nelle nari dei miei pochi lettori l'odore aspro ma sano della terra valsassinese, a riaccendere nel cuore dei miei conterranei lontani, l'amore e la nostalgia delle montagne native».
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Oggi, Giuseppe Muttoni (1899-1968) è praticamente dimenticato. Eppure, un piccolo ricordo lo meriterebbe. Per la biografia, avventurosa come sì è visto, prima che per i romanzi e i racconti pubblicati in poco più vent’anni. 
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Il primo libro è “Riverberi del deserto”. Datato 1932, esce per una piccolissima casa editrice (“Quaderni di poesia” di Emo Cavalleri con sede tra Milano e Como): raccoglie una serie di racconti che lo stesso Muttoni definisce «pagine di nostalgia africana»: ci sono il deserto e il ghibli, i fumatori di hascisc, episodi di guerra. Lo sguardo dello scrittore – va detto - è quello dell’occidentale civilizzato alle prese con i barbari, con tribù indigene pronte alla “crociata” contro l’Italia. Siamo del resto nel pieno dell’epoca fascista e del mito dell’Oltremare, così che il criminale di guerra Rodolfo Graziani viene definito un «magnifico condottiero».
Non abbiamo date precise, ma deve essere proprio negli anni Trenta che avviene il ritorno alle radici. Il ritorno a vivere e insegnare in Valsassina. Scrive un suo prefatore, Angelo Luzzani: «Ritornò appena poté, come e proprio dell'italiano, tra i suoi monti. Scrisse due o tre volumi insegnando nel contempo ai bambini a compitare. Non so se il Linati gli sia stato maestro anche in questo, ma nei mesi liberi dall'insegnamento percorse, più a piedi che con altri mezzi, le vali della sua provincia – e sono molte e belle – indugiò sul lago».
La riscoperta delle origini alimenta la passione per i luoghi. Annota
lo scrittore Ettore Cozzani: «Giuseppe Muttoni è un suddito e un devoto della Grigna. Scalatore, ma più forte contemplatore, della bella montagna che ripete, in piena Lombardia, a poca distanza dal Lario, nelle forme, e nella nudità, nello slancio verticale, nella mutevolezza dei colori, il miracolo delle Dolomiti. Egli ama, vive e soffre e canta questa sua plaga, e ne rispetta come signore e venera come divinità la bellissima aerea mole che gli ha dato elevazioni e vertigini, gli ha insegnato ardimento e gli ha profusa bellezza. (…) Ecco, per modesto ch'egli voglia restare, la Montagna ha un amante di più e un poeta di più la letteratura di montagna».
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Aveva quarant’anni quando nel 1939, finanziato dall’amico industriale Remo Cademartori, pubblicò per la Tipografia Editoriale Memo di Milano “Verde valle natia”, una decina di racconti ambientati in Valsassina e con qualche richiamo alle leggende locali tra lupi e cacciatori, disgrazie e rivalità d’amore, i bravacci dei Fondra e la strega Bissaga, caprai-eroi e le furie della Pioverna. Era, appunto, il libro della riconciliazione con la valle. 
Lo si evince anche dalla prefazione di Carlo Ferrario, (allora federale fascista di Como con casa in Valsassina che con Muttoni aveva condiviso l’esperienza di “Cirenaica Nuova”): «L'Autore è stato un profugo volontario della sua terra per capriccio e per insofferenza. Gli orizzonti intravisti dalla finestra di studente magistrale gli avevano messo lentamente nel sangue – veleno sottile – il desiderio di andare verso lidi sconosciuti, verso nuove forme di vita, verso emozioni nuove. Man mano che la sua selvatica natura di orsacchiotto ringhioso si andò addomesticando al contatto corruttore della vita cittadina gli crebbe l'uggia per l'angustia del suo orizzonte nativo e con l'uggia un odio cupo e sordo per la semplicità, la modestia e la monotonia delle cose che gli erano d'attorno. La misura fu presto colma ed un gesto inconsulto di ribellione all'autorità cui era professionalmente sottoposto creò il fatto decisivo per far le valigie. Calpestati gli affetti che lo avevano tenuto in soggezione, infranti i ceppi che lo avevano tenuto in schiavitù, non misurò più – nell'improvvisa euforia – le distanze. America, Cirenaica, Egitto: metropoli immense e deserti sconfinati; impieghi rimunerativi, vita comoda, lussi, bagordi; duro lavoro manuale, disoccupazione, miseria, fame. Ecco il flusso ed il riflusso che caratterizzano la sua corsa disordinata. Fra l'uno e l'altro approdo due ritorni sconsolati e tristi da segugio bastonato per aver invano inseguito la lepre. Ad ogni ritorno la terra natia gli parla con mille voci suadenti e carezzevoli. Ma né il niveo splendore dei monti, né la fiamma che divampa sul focolare avito la prima volta; né il trionfo paradisiaco nella primavera, la seconda, riescono a guarirlo dal suo sordo rancore. Chiude gli occhi per non vedere. Tura le orecchie per non udire. (…) E' al terzo ritorno che la guarigione si compie».
Non a caso in “Verde valle natia” la celebrazione del ritorno è più che evidente. Non solo per la novella di Albarosa che, quasi richiamata da una voce del destino, torna dopo anni al proprio villaggio e vi giunge all’indomani del funerale della vecchia madre; attraverso le sensazioni della protagonista, Muttoni indaga le emozioni di un ritorno in valle dopo tanti anni. Non solo, s’è detto. I racconti hanno infatti la cornice di un’altra vicenda, quella di Armanda che, che, accompagnata dal fidanzato Sandro, fa anch’ella ritorno al paese natio in Valsassina: «Guarda, qui sono cresciuta». Nella casa di Teresa, la vecchina che li ospita, Armanda ritrova un vecchio quaderno gualcito nel quale si narrano alcune storie che altro non sono che i racconti del nostro libro.
«Quel quaderno lì – le spiega la vecchina - è passato per le mani di tutte le ragazze del paese! Sono racconti della nostra valle scritti da un giovanotto del paese, un ragazzone istruito che aveva girato mezzo mondo facendo un po' tutti i mestieri e soffrendo spesso anche la fame, poveretto. Uno scavezzacollo, a dire il vero, ma non cattivo e che sapeva farsi voler bene da tutti. Io l'ho alloggiato per alcuni mesi e qui, proprio in questa stanza, ha scritto tutta quella roba lì. (…) Un'indole un po' selvatica, iracondo e solitario, ma in fondo una buona pasta d'uomo capace di squisitezze e di tratti di cortesia che gli avrebbero invidiato anche i signori più compiti. Non era certo un seguace convinto di alcuni comandamenti divini. Detestava il prossimo perché, diceva, la gente gli aveva sempre fatto del male. Se ne infischiava sempre delle dicerie sul conto suo, dei consigli da lui non richiesti, ma che certi parenti suoi s'arrogavan il diritto di dargli, dei debiti, di tutti i ridicoli convenzionalismi paesani. Spregiudicato e caustico, metteva volentieri alla berlina certe ipocrite forme d'esistenza di alcune persone del luogo e versava a fiotti il vetriolo della sua sua ironia sui fatterelli piccanti della cronachetta amorosa della valle. Era sempre squattrinato e trasandato nel vestire, poveraccio. (…) La gente dabbene diceva ch'era un poeta, gli altri affermavano che era un cervello balzano, colmo di nozioni inutili e nocive all'andazzo normale della vita. Possedeva in misura assai scarsa il senso della previdenza, era prodigo di quei pochi bajocchi che ogni tanto raggranellava, traendo a tutti i bacherozzoli, e per questo stava quasi sempre a stecchetto e, di quando in quando, poveraccio, era costretto a trangugiar saliva invece di pane. Quel quaderno lì l'ha lasciato a me dicendomi: “Un giorno qualcuno verrà a chiedervelo per pubblicarlo. Voi glielo darete, Teresa”. Qui in paese è già passato per molte mani. Si vede che qualche cosa d'interessante c'è in quei racconti».
Inutile dire che nel giovanotto trasandato e un po’ scavezzacollo, Muttoni ritragga sé stesso. Così come nel Sandro che decide sia ormai «venuto il momento di interrompere la vita errabonda», accettando l’invito di Armanda a sposarsi e fermarsi in Valsassina. 
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Alla memoria valsassinese, ormai, Muttoni si “consacra”. Anche se dovranno comunque passare quasi dieci anni perché torni a pubblicare. Lo farà nel 1948, dunque a fascismo caduto e guerra finita, con “La valanga del Graneer”, storia del capraio Turlulu innamorato di Rosellina che è però promessa sposa al pastore Santino. Respinto e accecato dall’invidia e dall’ira, Turlulu decide di provocare una valanga che seppellisca i due sposi proprio nel giorno delle nozze.  Il romanzo uscì per l’editore romano-milanese Mario Gastaldi, una vecchia conoscenza di Muttoni: dirigeva quella collana “Romantica” di Cavalleri nella quale furono pubblicati i “Riverberi del deserto”.
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Tre anni dopo, nel 1951, sempre con Gastaldi, pubblica “Piccolo mondo alpestre”: anche in questo caso c’è di mezzo una storia d’amore: quella di Nardo Rupestri e Maristella che dovrebbero sposarsi. Di mezzo, però, c’è la misteriosa gravidanza di una capraia, Milla. Il padre del nascituro sarebbe proprio Nardo che vorrebbe mandare Milla da una “donna pratica”: così sussurrano all’orecchio del padre di lui, il vecchio Bondio. Il quale, tornato caccia il figlio da casa: «Per la prima volta, da un paio di generazioni, un Rupestri lasciava la casa. Il vecchio Bondio soleva dire, a vanto della sua famiglia, che durante tutto un secolo, soltanto una persona – un fratello di suo padre dal cervello un po' fuori di bilico – se n'era scappata in America. Tutti gli altri eran nati, cresciuti, avevano lavorato ed eran morti nella casa dei vecchi. Ora però un altro uomo se n'andava e scacciato: un uomo giovane e sdegnato, che aveva il fermo proposito di non ritornare più.» Lo straripamento della Pioverna e l’alluvione che ne segue sarebbe una sorta di punizione divina.
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Nel 1953, ancora per Gastaldi, è la volta di “Cronache del Lario”, un’altra serie di racconti. Alcuni appartengono alla “tradizione” valsassinese: la solita Bissaga, il signorotto di Marmoro e cioè il bandito Lasco e poi l’Ercole Manzoni, il malvagio vissuto nel Settecento del quale il diavolo s’era preso pure il corpo e non solo l’anima. Altri si rifanno a vicende storiche: Simone Arrigoni e l’assedio di Baiedo nel 1462, la frana di Gero del 1762 e il passaggio dei lanzichenecchi nel 1629, con un Muttoni “manzoniano”: «Eran passati i cavalli di Wallenstein, quelli di Arnhault, quelli di Montecuccoli, quelli di Ferrari», mentre i valsassinesi in fuga si riparavano nella Grotta dei Darden. Altri ancora, infine, frutto di fantasia: un cercatore di tesori, vacche folgorate all’alpe, una zampogna misteriosa, storie d’amore più o meno infelice, cieli infuocati e zoccoli misteriosi.
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Nel 1955, nuovamente con Gastaldi, pubblica “Apocalisse in Valsassina” dedicato all’arrivo del colera nel 1835: «E’ scoppiato il colera a Lecco e a San Giovanni alla Castagna. La gente di quei paesi scappa verso la nostra valle. Quelli di Pasturo per paura della malattia difendono la strada che mena in paese coi coltelli, con le falci e con le forche. I fuggiaschi urlano che vogliono entrare per mangiare e per dormire. (…) E la notte del 5 ottobre la rabbia repressa da tanto tempo scoppiò con virulenza incontenibile. (…) Con le falci, le forche, i coltelli branditi che mandavan bagliori cruenti, quella turba di dannati valicò il ponticello di legno sulla Pioverna. (…) Allora una civetta squittì da un larice sopra l’abbeveratoio di Co’ Nava. Parve un segnale. (…) L’orgia notturna di sangue era cominciata. La luna, grande e gialla, venne su dalle profondità turchine dell’orizzonte a illuminare la valletta di Nava che tutto era finito. (…) Sulle aie delle baite costruite alle estremità dei pascoli, giacevan cadaveri d’uomini e di donne orrendamente straziati. (…) Fu nella notte tempestosa del Venerdì Santo che il morbo scoppiò virulento. (…) La morte gialla, venuta dalle steppe asiatiche, menò a perdizione con la gran falce nei villaggi valsassinesi. Rise beffarda in faccia agli uomini più vigorosi, guardò maligna e spietata nelle culle, soffiò pestifera nei letti nuziali odorosi di spigo e nei giacigli malcolenti».
L’epidemia è raccontata attraverso alcuni destini personali, tra cui quello di Rizio, figlio di Tognacco che dovrebbe impersonale Gesù in quella Passione del venerdì santo: il rito dell’Entierro di cui abbiamo già avuto occasione di parlare.
La riconciliazione di Muttoni con la Valsassina si è ormai compiuta. Testimoniata dal trasporto di alcune passi: «E in quel momento passò un brivido nell’aria. “Il vento!” esclamarono a un tempo i due uomini, con una punta d’apprensione nella voce. Dal bosco del Giark venne su un lungo e misterioso mormorio. I due uomini si piegarono in avanti come per ascoltare meglio. Un lungo sibilo tagliò l’aria e si perdette remotamente giù nelle profondità dei botri. Il mormorio del bosco rinforzò. Una nuova folata schioccò e si distese ampiamente lungo i fianchi della montagna. Il mormoprio del bosco divenne canto, si tramutò in sinfonia. L’aria ora vibrava tutta di quel suono. Pareva un fantasioso strumento musicale sfiorato da innumerevoli mani e bocche esperte, il bosco. (…) I du uomini ascoltavano la voce prodigiosa come davanti a un altare. “Lazzaro senti?” fece Rizio. “Il bosco parla - rispose Lazzaro, senza voltarsi -. Il bosco ha uno spirito ed una voce come gli uomini”. “Proprio così. E’ una cosa viva, creata da Dio, anche il bosco”».
Oppure: «Il ghiaieto, morena di un antico ghiacciaio scomparso, finiva sull’orlo di una breve conca ingombra di macigni. (…) Da un lato della conca si spalancava una voragine piena d’ombra e fascinosa come il canto di una sirena; dall’altro lato e di fronte la montagna s’impennava con cuspidi, piramidi, prismi, tetti, fenditure tortuose e gibbosità taglienti. (…) In quel chiuso e ostile recesso, rimaneva una bellezza, un senso misterioso della bellezza, percepibile soltanto dall’anima degli amanti della montagna. Nel mistero panico di quell’ombra viola che colmava il baratro vicino era la bellezza; nello scorcio potente della Parete vergine oltre la voragine era la bellezza; nell’orrore di quel ribollimento di pietre era la bellezza; nella feroce purità di quella solitudine era la bellezza: nella verticalità di quei pinnacoli intorno, nella tetraggine di quell’occhio di cielo lassù, nelle fantasiose prospettive di quei torrioni, nel folle equilibrio di quei primi sovrapposti era la bellezza».
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L’ultimo libro che Muttoni ci ha lasciato è stato “Il Dio più forte”, pubblicato nel 1957 dalle Edizioni Sia di Bologna. Racconta di una Valsassina in cui è stato realizzato un grande invaso artificiale per la produzione di energia elettrica, con la realizzazione di una diga lungo la Pioverna alla stretta del Portone. Ma di questo val la pena parlare diffusamente altra occasione.
Dario Cercek
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