Lecco: altro omaggio a Chiappori, con ricordi dell'uomo
Dietro l’artista, l’uomo. E dell’uomo si è parlato, mettendo in fila aneddoti e ricordi personali, considerazioni, riflessioni, letture in filigrana di un protagonista della cultura, lecchese e non solo. Venerdì sera alla biblioteca civica “Pozzoli”, Alfredo Chiappori è stato raccontato da chi l’ha conosciuto. Si trattava del secondo dei due incontri collaterali alla mostra allestita fino alla fine dell’anno dedicata alle illustrazioni realizzate da Chiappori per la “Fiaba” di Wolfgang Goethe. Un mese fa, con l’intervento di Michele Tavola e Claudio Puglisi si era parlato proprio del rapporto di Chiappori con l’opera di Goethe, l’altra sera invece si è voluto dare spazio appunto all’artista lecchese nella sua quotidianità.
Sollecitati dal giornalista Gianfranco Colombo, hanno dato il loro contributo la figlia dell’artista Sara Chiappori, l’ex direttore dei musei civici Gianluigi Daccò, l’attore Walter Castelnuovo e il designer Fabio Dodesini.
Sara Chiappori ha ricordato come crescere con tale papà non fosse semplicissimo, ma è stato molto divertente: «Ho passato molto tempo con lui da bambina. Mia madre lavorava fuori casa, lui invece aveva lo studio in casa, studio nel quale ero… abbastanza ammessa e molta della mia infanzia è trascorsa in quello studio. Era un luogo incantato, un mondo altro. C’erano i colori, i pastelli, le vernici, i pennini e tanti, tantissimi altri oggetti: aprivano finestre che per me erano un grande invito alla fantasia. E poi c’era sempre musica. Mio padre aveva un orecchio musicale incredibili, pur non avendo studiato musica e devo a lui la mia educazione musicale anche se non è stata metodica, ma vivendo con lui certe cose passavano per osmosi. E da lui ho imparato anche ad amare la lettura. Lui aveva anche qualche pretesa: per esempio mi fece leggere “Delitto e castigo” di Dostoevskij che aveva undici o dodici anni. Fu una lettura difficile, ma decisi che sarei arrivata fino in fondo. E quando rilessi quel libro che ero una liceale, mi accorsi che molte cose mi erano rimaste. Aveva fatto bene a farmelo leggere così presto. E di quello che si leggeva, con lui si discuteva. Anche animatamente. Ho scoperto il piacere della dialettica. Inoltre, a lui devo anche la mia iniziazione teatrale. A pensare a certe situazioni, oggi mi vengono i brividi. Papà era un anticlericali, ma comunque ricevetti la Prima Comunione: avevo 8 anni e in quei giorni a casa erano ospitati alcuni attori del gruppo di Jerzy Grotowski . Furono molto gentili, vennero a messa, mi regalarono dei fiori, io non mi rendevo conto di chi fossero: ero con un pezzo del teatro del Novecento e non lo capivo. Me ne sarei resa conto dopo: la gratitudine arriva sempre tardi».
Daccò, invece, Chiappori lo ha conosciuto da bambino, un periodo della vita in cui tre anni in più fanno la differenza e quegli anni in più li aveva appunto Chiappori: «Lo invidiavo, faceva delle cose straordinarie. Un giorno aveva ipnotizzato il Carlino, un nostro amico, e quello dopo non si svegliava più. Gli buttammo addosso acqua su acqua e finalmente rinvenne…. Oppure l’abbaino di legno in cui andava ad ascoltare la musica ad altissimo volume. Io abitavo vicino e la sentivo per bene. E’ per quello che odio il “Bolero” di Ravel, perché un’estate Alfredo la sentiva in continuazione. A palla. Non ne potevo più. Da ragazzi, si era messo già a collaborare con Sora per i cartelloni dei cinema lecchesi (i cartelloni oggi non esistono più, allora accompagnavano i manifesti ufficiali dei film programmati). Per non parlare della chiesa di San Michele sul Monte Barro: disse che sotto c’era la chiesa di re Desiderio. Riuscì a convincere il sindaco e ci mettemmo a scavare. L’avesse saputo la Soprintendenza non so cosa sarebbe successo. Naturalmente non trovammo niente. Poi ci perdemmo di vista. Quando vinsi il concorso per direttore dei musei lecchesi, tornai a Lecco dopo quindici anni trascorsi a Milano. Per me era cominciare daccapo. Lui mi mise in contatto con Vera Durbé, direttrice della galleria d’arte di Livorno passata alla storia per la beffa dei busti di Modigliani, ma che aveva ideato la formula del museo progressivo e cioè ospitare mostre di artisti contemporanei che in cambio avrebbero lasciato proprie opere così da incrementare il patrimonio della galleria. E così facemmo anche a Lecco per arricchire la Galleria d’arte moderna».
Castelnuovo ha invece tratteggiato la figura di Chiappori quale uomo di teatro, un’esperienza periodizzabile in quattro fasi. Una prima fase che era quella delle politiche culturali, quando Chiappori chiedeva che si portasse la cultura a Lecco anziché portare i lecchesi a Milano. La seconda fase è quella tra il 1976 e il 1978. Sono gli anni ruggenti del laboratorio teatrale. Chiappori era presidente della commissione teatrale e avviò quella sperimentazione che portò a Lecco il teatro indiano e giapponese, ma anche i protagonisti del Novecento, Grotowski, appunto, e non solo. Quel laboratorio attirò molti giovani lecchesi che oggi sarebbero guardati come disadattati ma che spontaneamente diedero vita a gruppi teatrali, uno dei quali ancora esiste ed è il Teatro Invito. La terza fase ha come data di partenza il 1978 quando mise in piedi il gruppo del “Comballo”: lui era il regista. L’ultima fase è quella della riflessione e delle discussioni. Sull’arte come veicolo e cioè sull’arte come lavoro su sé stesso. E Chiappori, sia nella pittura che nel teatro, attraverso l’arte ha sempre perseguito quell’obbiettivo.
E’ stata poi la volta di un pirotecnico Dodesini che Chiappori lo ha avuto come professore al liceo scientifico “Grassi”: «Era un sadico bastardo, perché sembrava godere della nostra ignoranza, nel farti sentire i vuoti di cultura che era uno stimolo a studiare. Noi a quell’età avevamo altro per la testa e dei professori non avevamo un’alta considerazione. Mi chiedevo come una persona così intelligente, colta e di prestigio avesse bisogno di insegnare. Il fatto è che sapeva tutto. Ed era uno dei professori con i quali si stava in silenzio e si studiava. Da giovani, incontrare persone così è fondamentale per la tua formazione, per un giovane sono come pietre miliari, stelle polari».
Infine, Colombo ha ricordato quando si avvicendarono nel ruolo di vicepreside del liceo: «Mi insegnò una cosa che poi ho adottato anche in altre attività e non solo nella scuola. Mi disse: “I professori sono dei rompiballe. Se vengono a lamentarsi tu non fare niente. Se poi tornano, allora ci pensi”. E infatti, nella gran parte dei casi, nessuno tornava la seconda volta…»
Sollecitati dal giornalista Gianfranco Colombo, hanno dato il loro contributo la figlia dell’artista Sara Chiappori, l’ex direttore dei musei civici Gianluigi Daccò, l’attore Walter Castelnuovo e il designer Fabio Dodesini.
Sara Chiappori ha ricordato come crescere con tale papà non fosse semplicissimo, ma è stato molto divertente: «Ho passato molto tempo con lui da bambina. Mia madre lavorava fuori casa, lui invece aveva lo studio in casa, studio nel quale ero… abbastanza ammessa e molta della mia infanzia è trascorsa in quello studio. Era un luogo incantato, un mondo altro. C’erano i colori, i pastelli, le vernici, i pennini e tanti, tantissimi altri oggetti: aprivano finestre che per me erano un grande invito alla fantasia. E poi c’era sempre musica. Mio padre aveva un orecchio musicale incredibili, pur non avendo studiato musica e devo a lui la mia educazione musicale anche se non è stata metodica, ma vivendo con lui certe cose passavano per osmosi. E da lui ho imparato anche ad amare la lettura. Lui aveva anche qualche pretesa: per esempio mi fece leggere “Delitto e castigo” di Dostoevskij che aveva undici o dodici anni. Fu una lettura difficile, ma decisi che sarei arrivata fino in fondo. E quando rilessi quel libro che ero una liceale, mi accorsi che molte cose mi erano rimaste. Aveva fatto bene a farmelo leggere così presto. E di quello che si leggeva, con lui si discuteva. Anche animatamente. Ho scoperto il piacere della dialettica. Inoltre, a lui devo anche la mia iniziazione teatrale. A pensare a certe situazioni, oggi mi vengono i brividi. Papà era un anticlericali, ma comunque ricevetti la Prima Comunione: avevo 8 anni e in quei giorni a casa erano ospitati alcuni attori del gruppo di Jerzy Grotowski . Furono molto gentili, vennero a messa, mi regalarono dei fiori, io non mi rendevo conto di chi fossero: ero con un pezzo del teatro del Novecento e non lo capivo. Me ne sarei resa conto dopo: la gratitudine arriva sempre tardi».
Daccò, invece, Chiappori lo ha conosciuto da bambino, un periodo della vita in cui tre anni in più fanno la differenza e quegli anni in più li aveva appunto Chiappori: «Lo invidiavo, faceva delle cose straordinarie. Un giorno aveva ipnotizzato il Carlino, un nostro amico, e quello dopo non si svegliava più. Gli buttammo addosso acqua su acqua e finalmente rinvenne…. Oppure l’abbaino di legno in cui andava ad ascoltare la musica ad altissimo volume. Io abitavo vicino e la sentivo per bene. E’ per quello che odio il “Bolero” di Ravel, perché un’estate Alfredo la sentiva in continuazione. A palla. Non ne potevo più. Da ragazzi, si era messo già a collaborare con Sora per i cartelloni dei cinema lecchesi (i cartelloni oggi non esistono più, allora accompagnavano i manifesti ufficiali dei film programmati). Per non parlare della chiesa di San Michele sul Monte Barro: disse che sotto c’era la chiesa di re Desiderio. Riuscì a convincere il sindaco e ci mettemmo a scavare. L’avesse saputo la Soprintendenza non so cosa sarebbe successo. Naturalmente non trovammo niente. Poi ci perdemmo di vista. Quando vinsi il concorso per direttore dei musei lecchesi, tornai a Lecco dopo quindici anni trascorsi a Milano. Per me era cominciare daccapo. Lui mi mise in contatto con Vera Durbé, direttrice della galleria d’arte di Livorno passata alla storia per la beffa dei busti di Modigliani, ma che aveva ideato la formula del museo progressivo e cioè ospitare mostre di artisti contemporanei che in cambio avrebbero lasciato proprie opere così da incrementare il patrimonio della galleria. E così facemmo anche a Lecco per arricchire la Galleria d’arte moderna».
Castelnuovo ha invece tratteggiato la figura di Chiappori quale uomo di teatro, un’esperienza periodizzabile in quattro fasi. Una prima fase che era quella delle politiche culturali, quando Chiappori chiedeva che si portasse la cultura a Lecco anziché portare i lecchesi a Milano. La seconda fase è quella tra il 1976 e il 1978. Sono gli anni ruggenti del laboratorio teatrale. Chiappori era presidente della commissione teatrale e avviò quella sperimentazione che portò a Lecco il teatro indiano e giapponese, ma anche i protagonisti del Novecento, Grotowski, appunto, e non solo. Quel laboratorio attirò molti giovani lecchesi che oggi sarebbero guardati come disadattati ma che spontaneamente diedero vita a gruppi teatrali, uno dei quali ancora esiste ed è il Teatro Invito. La terza fase ha come data di partenza il 1978 quando mise in piedi il gruppo del “Comballo”: lui era il regista. L’ultima fase è quella della riflessione e delle discussioni. Sull’arte come veicolo e cioè sull’arte come lavoro su sé stesso. E Chiappori, sia nella pittura che nel teatro, attraverso l’arte ha sempre perseguito quell’obbiettivo.
E’ stata poi la volta di un pirotecnico Dodesini che Chiappori lo ha avuto come professore al liceo scientifico “Grassi”: «Era un sadico bastardo, perché sembrava godere della nostra ignoranza, nel farti sentire i vuoti di cultura che era uno stimolo a studiare. Noi a quell’età avevamo altro per la testa e dei professori non avevamo un’alta considerazione. Mi chiedevo come una persona così intelligente, colta e di prestigio avesse bisogno di insegnare. Il fatto è che sapeva tutto. Ed era uno dei professori con i quali si stava in silenzio e si studiava. Da giovani, incontrare persone così è fondamentale per la tua formazione, per un giovane sono come pietre miliari, stelle polari».
Infine, Colombo ha ricordato quando si avvicendarono nel ruolo di vicepreside del liceo: «Mi insegnò una cosa che poi ho adottato anche in altre attività e non solo nella scuola. Mi disse: “I professori sono dei rompiballe. Se vengono a lamentarsi tu non fare niente. Se poi tornano, allora ci pensi”. E infatti, nella gran parte dei casi, nessuno tornava la seconda volta…»
D.C.