SCAFFALE LECCHESE/229: i libri sul Monte Barro, tra storia e... sogni

Il Monte Barro in competizione con Sankt Moritz. Se oggi qualcuno saltasse fuori con un’affermazione del genere, gli si darebbe del matto. Eppure nel 1911 c’era chi ci credeva. Sentite qua: il Monte Barro può «costituire una stazione climatica di soggiorno durante l’inverno, non altrimenti che S. Moritz, Maloja e molte altre che vanno sorgendo ad ogni nuovo ritorno delle brume invernali». Sta scritto nella relazione tecnica “Per una ferrovia-funicolare di Monte Barro” stampata dalla tipografia Pietro Cairoli di Como.
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Gli autori sono due ingegneri, indicati come A. Campiglio ed E. Fossati. Il primo è Ambrogio Campiglio, direttore delle Ferrovie Nord di Milano: nel 1886, per conto di una società milanese, aveva acquistato il vecchio convento poco sotto la vetta allo scopo di farne un albergo. E nel 1911 redigeva con Fossati lo studio di fattibilità per una funicolare che avrebbe dovuto raccogliere i villeggianti alla stazione ferroviaria di Sala al Barro e condurli all’hotel. In attesa di sfidare Sankt Moritz, la funicolare avrebbe comunque potuto fare concorrenza a quella del Monte Generoso. Tra Sala al Barro e la vetta era inoltre prevista una tappa intermedia a Camporeso.
Spiegano i due ingegneri: «L’amena località, già meta di escursioni degli abitanti di Lecco e della Brianza, attrasse tosto molte persone e fu specialmente raccomandata dai medici per cure climatiche dei bambini, stante la saluberrima aria e le ottime acque sorgive ricche di bicarbonato di calce e leggermente magnesiache. (…) Il Monte Barro potrebbe attirare le molte persone che d’estate si recano in Svizzera dove si contano 54 ferrovie a dentiera (a cremagliera, ndr) e funicolari esistenti, 5 in costruzione e 37 già concesse». 
Del resto, spiegano i due tecnici, il Monte Barro non dà la possibilità di lunghe escursioni e non sono quindi gli alpinisti la “risorsa”, bensì il più largo pubblico comune che «reclama mezzi comodi e diserta i luoghi, anche ameni, quando vi si deve recare a piedi o a cavallo». 
Alla fine, non se ne fece niente, ma è indubbio che se il progetto fosse stato realizzato avrebbe completamente cambiato la percezione del Monte Barro da parte dei lecchesi.
Dalla città lo si guarda come una vetta modesta che si erge isolata, quasi “orfana” a chiudere la vista verso la pianura, mentre in realtà non è altro che la cuspide della dorsale collinare che si alza tra Santa Maria Hoé  e Olgiate per culminare appunto nel Barro. E infatti il Monte Barro – scritto proprio così, con l’iniziale maiuscola anche per Monte - è brianzolo prima che lecchese. Non a caso, la croce di vetta, eretta dai galbiatesi, guarda verso Galbiate e la Brianza.  
Molto si è scritto del Monte Barro, anche se non vi è ancora una pubblicazione che ne offra una sintesi esauriente.  Possiamo comunque provare a stilare una bibliografia essenziale.
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Nel 1983 l’associazione degli “Amici di Galbiate”, vicina alla parrocchia, pubblicava “Il Santuario e l’Eremo di Monte Barro in Brianza”: argomento centrale la chiesa e il convento diventato poi albergo, sanatorio e infine centro accoglienza del Parco, situati poco sotto la vetta con l’attenzione è rivolta soprattutto all’aspetto religioso per quanto sia fonte di molte informazioni storiche. Nel 1988, per le edizioni del Parco usciva “Monte Barro, una gita nel tempo” dello storico oggionese Virginio Longoni, un libro importante per i ricercatori e per la ricostruzione delle epoche storiche anche se un po’ ostico per il lettore comune.
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E’ del 2000, invece, “Camporeso e cascine circostanti: una microstoria agraria e sociale” edito ancora dal Parco e scritto da Giuseppe Panzeri che proprio dell’ente Parco è stato anima oltre che presidente: sotto la lente appunto il piccolo villaggio di Camporeso che dal 2003 ospita il museo etnografico. E proprio nel 2003 Silvia Tenderini pubblicava con l’editore Viennepierre “Una visita al monte Barro” con l’attenzione rivolta agli scavi archeologici dei Piani di Barra alla quale la stessa autrice aveva partecipato quale archeologa.
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Nel 2011, l’ente-parco onorava la memoria del suo ex presidente, appunto Giuseppe Panzeri deceduto l’anno precedente, con la pubblicazione di una “Storia del Parco Monte Barro” assemblando una serie di testi scritti nel corso del tempo dallo stesso Panzeri e che consentono di ripercorrere le tappe del progetto di salvaguardia ambientale della zona. Infine, nel 2015, sempre su iniziativa del Parco, usciva “Tre chiese sul Barro” con testi ancora di Panzeri e del suo successore alla guida dell’ente di tutela dell’area, Federico Bonifacio: al centro dell’attenzione, le tre chiese che racchiudono la storia religiosa del monte Barro e cioè Santa Maria che è appunto quella dell’Eremo, San Michele e Sant’Agata a Pescate. Scorrendo titoli e argomenti, risulta evidente come il Monte Barro offra più di una suggestione. 
Longoni ci accompagna lungo più di mille anni di storia muovendo naturalmente dal mito di quell’antica città di Barra forse mai esistita ma della quale ancora si favoleggia: nell’Ottocento fu lo storico brianzolo Carlo Redaelli e tradurre un passo di Caio Plinio il Vecchio sul quale poi «si accanirono, senza apprezzabili risultati, i ricercatori comaschi e bergamaschi».  E soltanto «un atto di fede nelle parole dello scrittore latino» ha consentito di tenere in vita un mito. Carezzato anche nel 1988, quando vennero avviati gli scavi archeologici ai Piani di Barra per portare alla luce la fortezza gota del V secolo. Scrive Tenderini: «La gente di Galbiate avrà sentito l’eco di antiche storie. Qualche moneta, dichiarata genericamente “romana” era affiorata dal terreno. Ma la curiosità popolare va di solito alla ricerca di tombe, che per tradizione nascondono tesori. Nessuna tomba e nessun tesoro erano mai stati trovati, e quei pochi resti di mura non interessavano nessuno. Persino durante gli scavi, davanti ai muri evidenti, alle torri, ai focolari e ai vasi, i visitatori increduli dichiaravano che erano “tutti sassi”, e chiedevano se finalmente avessimo trovato “il tesoro”».
Anche il Monte Barro, inoltre, ha le sue immancabili leggende longobarde.  Proprio all’alto Medioevo, tra l’altro dovrebbero risalire le origini della chiesa “incompiuta” di San Michele, quella della tradizionale, celeberrima e ormai tramontata sagra di cui ci siamo occupati anche in questa rubrica.
Ma anche della chiesa di San Vittore che nel XV secolo sarebbe stata trasformata in Santa Maria. Scrive Panzeri in “Tre chiese”:  «Era stato il verificarsi di eventi miracolosi attorno a una vetusta statua della Madonna da secoli venerata in quel tempietto e che alcuni avevano tentato inutilmente di trafugare, a spingere i maggiorenti galbiatesi a intraprendere i lavori di ingrandimento della chiesetta originaria» inizialmente dedicata a San Vittore e ora alla Madonna e a chiamare «i francescani di San Giacomo di Lecco per i quali approntarono anche alcune stanze presso la chiesa costruendo un piccolo romitorio in grado di accogliere una decina di religiosi». 
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Sembra che si sia fatto avanti anche un sacerdote milanese, don Bernardino Caimi, con un visionario progetto di un Sacro Monte che riproducesse i luoghi sacri della Terrasanta, senza però riuscire a convincere i galbiatesi: così il prete se ne andò altrove e il Sacro Monte lo realizzò a Varallo Sesia. Anche in quell’occasione, il Monte Barro sarebbe potuto diventare altro.
In quanto ai francescani, il convento funzionò per circa tre secoli, venne chiuso una prima volta nel 1798 e poi riaperto dal 1800 al 1810, quando venne soppresso definitivamente: «Ciò avvenne – chiosano polemicamente gli “Amici” – in seguito alle leggi eversive napoleoniche per incamerare i beni di questo come di innumerevoli altri conventi, e con il ricavato della loro vendita finanziare gli affari della guerra».
L’edificio passò più volte di mano (proprio gli “Amici di Galbiate” ci forniscono l’elenco dettagliato dei vari proprietari) fino ad arrivare appunto al 1886 e all’ingegner Ambrogio Campiglio. Quando il convento divenne albergo: inaugurato il 12 luglio 1889 rimase in esercizio fino al 1927 «Funzionava esclusivamente nel periodo estivo – scrivono gli “Amici” – e, nonostante le difficoltà di accesso, riuscì, nei suoi quarant’anni di vita, ad attirare una scelta clientela, proveniente dall’area milanese». Del resto, come già scriveva lo stesso Carlo Redaelli, nel 1825, «nessun altro luogo del Milanese offre forse come il Montebarro vedute sì estese, sì variate e pittoresche, non dirò soltanto dalla più alta vetta, ma anche dal convento de’ Francescani, e da altre parti»
Panorama apprezzato anche dallo scrittore Francis Scott Fitzgerald, quello del “Grande Gatsby”, nell’estate del 1921 in vacanza a Bellagio: «L’autista italiano – scrisse a un amico - ha insistito per farci visitare il Grand Hotel Monte Barrio (sic) che ci ha decantato per la stupenda vista che da là sopra si poteva ammirare. La salita in auto è durata almeno un’ora, ma ne è valsa la pena. Arrivati all’hotel ci siamo accomodati all’aperto su una terrazza a strapiombo, con una incantevole vista su piccoli laghi».
Della visita ci parla Panzeri, ma resta da capire come abbia fatto lo scrittore ad arrivare in auto fino all’albergo. Nel libro degli “Amici” infatti, leggiamo che una strada carrozzabile non esisteva e che «per accedere all’albergo (…) alcuni villeggianti anziché percorrere gli ameni sentieri del monte, o servirsi di una cavalcatura, si facevano portare all’albergo in portantina da giovani e robusti galbiatesi».
La carrozzabile vera e propria fu realizzata nel 1932, con la trasformazione dell’albergo in sanatorio da parte dei coniugi gallaratesi Felice e Gianna Balassi.
Ormai  - scrive ancora Panzeri – calava «l’affluenza dei milanesi che trovavano più comode e raggiungibili altre mete rispetto a quelle del Monte Barro» e l’albergo era andato «incontro a un melanconico declino». Si era invece «nel periodo in cui ferveva la campagna antitubercolare (…) in cui il Regime era impegnato al massimo per debellare una malattia che in Italia provocava circa 50 mila morti all’anno». Il Monte Barro garantiva un «particolare microclima (…) dovuto alle correnti d’aria costante provenienti dalla Valle dell’Adda e in parte della presenza di maestosi e secolari faggi e tigli che favoriscono una deliziosa frescura. Anche d’inverno la temperatura è sensibilmente più mite. Per questo motivo la località si prestava egregiamente per ospitare una clinica per affetti da malattie polmonari».
La strada restò a lungo privata e ciò fu causa di non poche tensioni tra i Balassi e i galbiatesi finché nel 1965 divenne pubblica, mentre il sanatorio avrebbe funzionato fino al 1968.
Però – è la considerazione degli “Amici di Galbiate” - la determinazione dalla Balassi nel difendere l’uso privato della strada «anche se mosso da esigenze di tenere lontana la gente del sanatorio e da una certa rivalsa nei confronti dei maggiorenti galbiatesi, finì per risolversi in un efficace strumento di tutela ambientale: si immagini cosa sarebbe successo dei Piani di Barra e della montagna se quell’unica strada di accesso al monte fosse stata aperta al pubblico transito negli anni Trenta Quaranta e Cinquanta quando il Comune non aveva nessuno strumento urbanistico per regolamentare le costruzioni.»
Il sanatorio funzionò fino al 1968. L’anno successivo moriva Gianna Balassi lasciando il complesso in eredità all’istituto per anziani “Airoldi e Muzzi” di Lecco: «E in effetti si tentò di portarvi qualche anziano – scrivono ancora gli “Amici” -  che però non vi stava volentieri, anzi si immalinconiva sempre più preso da crisi di sconforto per la solitudine in cui era confinato».
Finché nel 1976 passò al consorzio del Monte Barro che si era costituito nel frattempo, embrione di quello che sarà poi il Parco regionale. Un’idea che aveva cominciato a prendere forma nel 1969. Fu Giuseppe Resinelli, che di lì a pochi anni sarebbe anche diventato sindaco di Lecco, a scrivere sul settimanale cattolico “Il Resegone” nel numero del 5 settembre di quell’anno ««L’altra sera, al crepuscolo guardavamo al Monte Barro: pulito da un temporale recente pareva la réclame delle macchine da scrivere svedesi, scrivi riposandoti la vista. Ci è sembrato un miracolo: ancora intatti i prati, i boschi. Ecco – abbiamo detto tutti – sarebbe bello che rimanesse così. (…) Bisognerebbe farne un parco, ci siamo detti». 
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Secondo Giuseppe Panzeri, quell’articolo fui la scintilla: «Fu seguito da altri interventi. (…) Si veniva così a costituire, di fatto, un comitato promotore per la salvaguardia del Monte Barro presieduto dal sindaco di Galbiate Cesare Golfari». Il quale comitato si presentò pubblicamente nel dicembre 1970 con una volume-manifesto (“Monte Barro. Una montagna da salvare”) al quale collaborarono gli stessi Panzeri, Golfari e Resinelli con Bruno Bianchi, Luigi Corti, Luigi Dell’Oro e Pierino Luconi.
Nel 1976 il Monte Barro sarebbe stato riconosciuto come riserva naturale locale e nel 1983 si sarebbe poi arrivati all’istituzione del Parco naturale regionale vero e proprio. Il resto è storia recente.
Dario Cercek
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