SCAFFALE LECCHESE/224: la Russia e i Monti Urali nel diario di viaggio di Mario Cermenati

Diciamo i Monti Urali. A scuola ci hanno insegnato che su quel crinale corre il confine tra Europa e Asia. Vien dunque da immaginare una barriera insormontabile. Poi, scopri che la vetta più alta misura 1895 metri. Più o meno, il Resegone. Già poco più di un secolo or sono ce lo spiegava già Mario Cermenati che preferiva parlare di Oural e non di Urali perché «la locuzione più propria è la prima, adoperata dai russi e meglio rispondente alla realtà, poiché, invece di una catena propriamente detta di montagne, siamo di fronte a una vasta regione ondulata, le cui massime altezze arrivano poco più in su dei 1600 metri».
Proprio in questi giorni – l’8 ottobre – ricorrono i cento anni della morte dello scienziato e politico lecchese che per la bellezza di trentaquattro anni fu presidente della sezione cittadina del Club Alpino Italiano. La quale il 22 maggio scorso ha festeggiato il traguardo dei 150 anni. Dunque, doppio anniversario.
Di Cermenati queta rubrica si è già occupata in più di un’occasione, a cominciare dalla biografia scritta da Aroldo Benini
Questa volta, ci dedichiamo alla “relazione” di Cermenati sul viaggio in Russia effettuato nel 1897, partecipando al convegno internazionale dei geologi: 142 scienziati provenienti da tutto il mondo dei quali sette italiani, portati a visitare monti e miniere e a raccogliere pietre.
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Oural e non Urali, dunque. Però, dobbiamo immaginare una qualche discussione con il Club Alpino nazionale che nel 1900 pubblicava nel proprio bollettino la relazione di Cermenati, poi stampata anche in estratto. Perché se Cermenati sceglieva di titolare il proprio testo “Un viaggio nell’Oural”, in copertina si legge invece “Un viaggio nei Monti Urali”.  Un colpo al cerchio e uno alla botte.
E comunque la pubblicazione condensa le due conferenze tenute a Roma da Cermenati su invito della Società Geografica Italiana e «illustrate da 70 proiezioni luminose di fotografie e disegni»: già allora si usavano le  “slide”.
Chi ha già frequentato gli scritti di Cermenati, sa che il nostro aveva penna briosa e, anche se a volte inevitabilmente si dilunga in questioni un po’ troppo tecniche, la lettura è gradevole anche per noi profani che di geologia non capiamo nulla e un sasso vale l’altro. Il racconto si può leggere come un diario di viaggio, ma anche come un vero e proprio reportage su un angolo della Russia di allora.
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Dopo ottanta ore di treno da Roma, Mario Cermenati arrivava il 25 luglio 1897 a Mosca dove era fissato l’appuntamento per i visitatori dell’Oural e da dove «si doveva muovere tutti assieme la sera del 30 luglio. (…) Un treno speciale è destinato a noi, e ciascuno prende il posto che gli è stato assegnato e che deve mantenere per tutto il viaggio. (…) Noi italiani otteniamo, per noi soli, un intero vagone di seconda classe, dove ci accomodiamo egregiamente» e dove «il nostro bravo cameriere» è «un russo che capiva perfettamente, senza conoscere una jota, il mio dialetto lecchese»
 «Il treno – continua la descrizione - è formato da dodici lunghi carrozzoni di prima e seconda classe: più altri quattro vagoni destinati agli uffici dell’amministrazione, ad uso infermeria ed a magazzino dei bagagli. I carrozzoni, nuovi fiammanti, appena usciti dalla fabbrica, sono puliti e comodi, e non hanno nulla da vedere con quelli con cui ci deliziano le nostre speculatrici società ferroviarie. (…) Altre cinquanta persone, fra cuochi e camerieri, viaggiano in un secondo treno, che segue il nostro, ed è costituito da venti carrozzoni, dei quali: tredici sono trasformati in altrettante sale da pranzo, tre servono da cucina e due da ghiacciaia per il deposito e la conservazione delle provviste. La spedizione è insomma è molto bene organizzata e, per quanto non sorrida troppo l’idea di dover passare in treno oltre due settimane, pure si acquista molta lena e fede nell’ammirare l’eccellente disposizione di ogni cosa».
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Non c’è che dire: la Russia zarista non lesinò mezzi per ospitare i geologi stranieri, portati di qui e di là, coccolati dalle autorità e dagli imprenditori privati che li ospitarono nelle loro miniere. Presi per la gola con pranzetti da leccarsi i baffi. Un menù: pasticcio di pesce, porchetta da latte con crema ed altre salse, cetrioli in salamoia («cibo di cui i russi vanno ghiotti»), arrosti di volatili diversi, dolci svariati. E c’era sempre «il prelibato caviale che alcuni colleghi trangugiavano a grandi cucchiaiate». Senza parlare dei lautissimi antipasti.
Certo, ci sono anche i disagi, come le corse «su certe carrozze, dai sussulti infernali» trainate da cavalli «quasi sempre di aspetto desolante, discendenti certo dalla celebre bestia dell’Apocalisse; ma tirano con una forza e corrono con una velocità, che manco si sognerebbe di trovare in essi. Si direbbero ipposcheletri elettrizzati.» O come le sei ore di viaggio in “chibitka”: «E’ una cesta di vimini, sospesa su due spranghe, con due ruote e tirata da un ronzinante. (…) I cavalli russi, come ho già osservato, anche se d’infima razza, corrono disperatamente: figuratevi come dovevamo sentirci in quella corsa vertiginosa attraverso fitte pinete, dai cui rami bisognava guardarci per non romperci il cranio; giù per chine ripidissime, che ci facevano supporre di trovarci a cavallo d’una valanga; attraverso fiumi e ghiareti che ci davano la sensazione d’essere sulla famosa sedia elettrica con cui si giustiziano i condannati a morte. (…) Una continua grandinata di fango ci assaliva da ogni parte».
Attorno ai forestieri, comunque, il servizio d’ordine era a maglie strette: «Quando si risale in treno una vera folla si accalca al nostro passaggio e, appena il convoglio si muove, una strepitosa acclamazione ci segue. Vedo molti poveri diavoli, sparuti e stracciati, che agitano i berretti e ci salutano entusiasticamente. Ma alcuni severi gendarmi pretendono di frenare quell’innocente entusiasmo, ed impongono silenzio, con modi poco gentili, a quelli che alzano troppo la voce e, più degli altri, si affannano a gesticolare. In Russia anche gli applausi sono regolati dalla polizia!».
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Ciò nonostante, un occhio attento coglie le sfumature: «Si vedono, specie nei cameroni d’aspetto di terza classe, strani aggrovigliamenti di persone – sdraiate l’una sull’altra, o appoggiate sovra sudici involti – che attendono, dormendo, l’ora della partenza. Appunto nella stazione di Samara ho visto, fra questi gruppi, una donna che dormiva profondamente, mentre a’ suoi piedi, in posizione pericolosa, un bambino di poche settimane strillava come un matto, senza che nessuno si accorgesse o mostrasse di accorgersene. Svegliai io stesso la poco sollecita madre, ma questa, anziché sapermene grato, mi lanciò un’occhiata, come per dirmi: seccatore!».
O, in Siberia, dove si cercava e si trovava l’oro, alla vista di «certe capanne sotterranee di curiosissima fattura; con brevi pertugi a fior di terra e col tetto coperto da fogliame e da mota. Quei poveri contadini s’intanano là dentro durante i mesi invernali, e vi passano lunghe giornate, soffrendo, il più delle volte, col freddo, la fame. Onde pensavo tra me: strano paese questa Siberia! Sotto al suolo l’oro, il re dei metalli, la fonte della ricchezza: sopra di esso, la miseria più acuta, più squallida. Crudele antitesi: sotto alla terra, i sorrisi; sopra, le lagrime delle cose!».
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Sono più d’una le miniere che la popolosa comitiva ebbe modo di visitare: «Si discende per una stretta spaccatura per una quindicina di scale verticali (…) si prosegue, a dorso incurvato, per anguste gallerie (…) si batte il capo o coi gomiti contro qualche ostacolo, magari buscandosi dei terribili colpi, come accadde a chi vi parla, che scivolò maledettamente sovra un piano inclinato». Ma oltre ai piccoli incidenti di percorso, Cermenati arricchisce il suo racconto di dati e di considerazioni economiche e politiche. Che riemergeranno nel futuro del politico radicale eletto in Parlamento: nel 1917 Cermenati fonderà la rivista “La miniera italiana” proprio per promuovere lo sviluppo minerario del nostro Paese evitando che le risorse del nostro sottosuolo fossero gestite da società estere.
Tornando alla fine dell’Ottocento, in quegli anni si andava costruendo la ferrovia transiberiana: «E’ stata con ragione paragonata alla civiltà viaggiante; essa ha la missione di trasformare una vasta parte del mondo, fin qui sconosciuta e piena di misteri, in una regione civile, di risorse inesauribili, e soprattutto d’una fertilità da vincere la concorrenza dell’Europa e dell’America riunite. La Siberia – vastissimo granaio – è destinata a divenire un centro attivo della civiltà, di questa dea sempre giovane e sempre in moto che – dopo tanti viaggi dall’Asia all’Europa, dall’Europa all’America, dall’America all’Australia – fermerà per qualche secolo la sua sede colassù, ove finora non aveva pensato di stabilirsi, malgrado le continue sue peregrinazioni geografiche».
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La storia andrà diversamente e la Siberia nell’immaginario collettivo è la terra del più duro reclusorio politico. Come già lo era allora. Infatti, Cermenati ne dà conto: «Vidi uno dei convogli che trasportano i condannati in Siberia. Quella vista mi strinse il cuore (…) e non vi nascondo che mi mise di malumore, pensando che tra questi nostri simili condannati alla deportazione – e se ne condannano in media diecimila all’anno – vi saranno stati bensì dei delinquenti volgari, indegni di compassione, ma che, fra di essi, e forse in numero maggiore, v’erano confuse fior di anime oneste, colpevoli solo d’aver aspirato a quelle trasformazioni politiche, che sono il primo passo a quelle condizioni sociali migliori, donde debbono scaturire e la redenzione morale ed il benessere materiale di tutta quanta l’umanità. A costoro mandai dal profondo dell’anima un mesto saluto».
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Nel viaggio ci fu spazio anche per le escursioni. Al Gran Taganai, per esempio, una delle più alte cime dell’Oural e che «ha qualcosa che mi ricordava il mio Resegone e le mie Grigne,; e non vi nascondo che tale rassomiglianza mi fece in quel dì piacevolmente sussultare il cuore». Anche se quel giorno era avvolto dalla nebbia e «la comitiva decise di fermarsi». Ma «a me dispiacque la decisione presa di non tentare la vetta, e non volli ottemperarvi. Per un socio del Club Alpino – presidente, per giunta, di una sezione – era quella una vergognosa ritirata. (…) Fatti appena pochi passi, la cosiddetta guida, accusando certo malanno ai piedi, si rifiutò di salir oltre. Maggiormente stizzito, mi proposi di ascendere solo, e m’avviai su per la cresta, mentre i colleghi ripigliavano la via della discesa». A Cermenati si unì un collega americano: «Procedendo a tastoni, con ogni cautela, e lavorando di braccia e di ginocchia, nei punti più scabrosi, toccammo finalmente la vetta, dalla quale scappammo però subito, per evitare di rimanervi gelati – i gradi sotto zero dovevano essere parecchi – o di venirne rotolati dalle raffiche sibilanti. Ed a salti, giù pei macereti e pei boschi, in brev’ora ci ricongiungemmo alla comitiva».
Dario Cercek
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