SCAFFALE LECCHESE/222: si susseguono le guide dedicate... ai misteri del nostro territorio

Il mistero affascina, si sa. Se non esiste, lo si crea. In passato e ancora ai nostri giorni. Basta curiosare in internet. 
Potremmo sorridere e infatti sorridiamo di quel tal Ortensio Lando, che le enciclopedie ci dicono essere stato un umanista raffinato: nel 1549 diede alle stampe un “Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia” nel quale ci racconta anche di un pozzo brianzolo, a Perego per la precisione, che al posto dell’acqua dava vino. «E che vino», sottolineava tripudiante: tale da non avere rivali nemmeno in quelli all’epoca più celebrati. Chissà come un fior di studioso potesse accreditare tale facezia. Così riflettiamo. Già, chissà. Poi corriamo dietro a improbabili fantasmi che suonano un vecchio pianoforte nella valsassinese Villa De Vecchi. Che è tra le mete predilette dei “turismo del mistero”, turismo che può contare su vere e proprie “baedeker”.
Un elenco delle guide ai luoghi misteriosi o magici, leggendari o insoliti, sarebbe lungo. In alcuni casi si tratta di opere di assoluta serietà, in altri di inventari improvvisati, mentre si moltiplicano i siti internet dove naturalmente tutto fa brodo. Per scoprire, alla fine della fiera, che i misteri non sono così tanti e che misteri non lo sono poi nemmeno.
Partiamo da un paio di libri pubblicati ormai mezzo secolo fa dalla editrice “Sugar”: una “Guida alla Lombardia misteriosa” uscita nel 1968 (in seconda edizione nel 1981) e una “Guida ai misteri e segreti della Brianza” del 1970 (seconda edizione 1987).
Lo spessore culturale è elevato. Basti dire che l’opera è diretta da Mario Spagnol e Luciano Zeppegno, che la redazione è di indubbia levatura e ci sono collaboratori del calibro di Piero Chiara e Giampaolo Dossena. 
01._Commentario_Ortensio_Lando.jpg (109 KB)Però, più che inventari di misteri, si tratta di guide dotte: raccolgono curiosità storiche con qualche licenza e considerazioni tra il serio e il faceto. Come fa Pinuccia Ferrari, per mantenerci nell’alveo di Ortensio Lando, la quale scrive: «Uno dei più illustri fantasmi italiani è il vino di Brianza morto e assurto al Cielo dei Rimpianti dei colti gastronomi lombardi». Alla fine degli anni Sessanta, in effetti, il vino brianzolo o lecchese in genere sembrava essere scomparso: qualche privato si produceva il suo nostranello senza pretese. Oggi è un’altra storia: il nostranello è rimasto, ma si è cominciato anche a produrre vino di non trascurabile gusto.
Ci sono poi riferimenti a Carlo Porta, a Stendhal, a Carlo Emilio Gadda, ai fratelli Cesare e Ignazio Cantù, a Giuseppe Parini, a Vincenzo Monti ospite nella villa di Luigi Aureggi a Castello Brianza, a Domenico Balestreri («il più grande poeta milanese in milanese del settecento») che soggiornava a Villa Greppi di Monticello, a Gaetana Agnesi («dopo Stendhal l’unica occasione europea della Brianza») e naturalmente ad Alessandro Manzoni. Ci sono la Brianza manzoniana e i luoghi “canonici” con le relative discussioni e ipotesi. E un capitolo, affidato allo scrittore Gianni Guadalupi, è dedicato a «un luogo manzoniano ignorato» che sarebbe quella «casa – le parole manzoniane - dove andava, per il solito molta gente» e della quale – osserva Guadalupi - «nessuno degli innumerevoli indagatori dei luoghi manzoniani (…) si è mai (volutamente?) occupato». Sarebbe il casino (o bordello o postribolo). Che si trovava nell’Osteria del Moro in piazza del Mercato e cioè in piazza XX Settembre (per la precisione all’odierno numero 34). E pertanto Guadalupi ne propone l’elevazione «alla piena dignità di luogo manzoniano, magari con l’erezione di una di quelle lapidi di cui è così prodiga l’amministrazione comunale». A oggi, la proposta non ha comunque avuto seguito. 
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Alla città Lecco la “Guida della Brianza” dedica molte pagine (oltre il doppio rispetto a Monza). Vi si citano episodi e personaggi dimenticati, in alcuni dei quali i lettori di questa rubrica si sono già imbattuti: il dantesco Guido di Monfort recluso nel castello di Lecco, il Medeghino, Carlo Borromeo e le streghe, la Bissaga, l’indemoniato Boccaletto, una famiglia Gherardi che esercitava la magia bianca, il farmacista Francesco Gerosa, l’omicidio di Cristoforo Airoldi ad Acquate nel 1567, un contenzioso tra usurai, la peste manzoniana, lo Stoppani, la Scapigliatura, ma anche l’ormai scomparsa Lecco sotterranea, le grotte di Laorca, gli umett de Porta Noeuva, l’intagliatore Giacomo Mattarelli. Uscendo dalla città, il santuario della Rocchetta ad Airuno, il leggendario ponte romano di Isella, la basilica di San Pietro al Monte (collocata, sic!, sul monte Barro), la decantata eco polisillaba di Galbiate, vecchie leggende, monatti, frati impiccati per furti sacrileghi, parroci stregoni, gli armaioli di Missaglia, le torbiere di Bosisio, i “firlinfoe” di Montevecchia, il traghetto di Imbersago. Naturalmente le leggende del Fiumelatte. Senza dimenticare il colle di Balisio e cioè la Val Puzzolente: «Nota un tempo per l’impressionante sentore di formaggio che la pervadeva tutta e che derivava da una stupenda produzione di robioline, taleggi e altri formaggi molli e odorosi. Potenza del turismo: la puzza è praticamente scomparsa. Si teme sia scomparso anche il formaggio».
Come si vede, la lettura è “gustosa” e interessante, ma di misteri veri e propri non c’è traccia. Non ne abbondano, del resto, nemmeno le guide più recenti e “specializzate”.
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Non abbiamo la pretesa di tentare una bibliografia dei “misteri” lecchesi. Ci limitiamo a una spigolatura superficiale. Qualche titolo: “Lombardia misteriosa” di Massimo Centini e Laura Rangoni (Editore Macchione, Varese, 2001); “Misteri & Leggende della Lombardia” di Marco Alex Pepé che si presenta come ricercatore nel campo dell’imponderabile (Editoriale Programma, Treviso, 2019); “Sette misteri. Viaggio nell’occulto tra Como, Lecco e Brianza” di Francesco Camagna (Dominioni Editore, Como, 2023); “Lombardia insolita e misteriosa” di Luciano Sartorio, milanese, «da sempre appassionato di misteri» (Edizioni del Capricorno, Torino, 2021). C’è poi la serie delle “Guide insolite” pubblicate dalla romana Newton-Compton, tra le quali alcune dedicate espressamente a fantasmi, diavoli e angeli.
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Sostanzialmente, si contano sulle dita di una mano i misteri apparenti del Lecchese. 
Comuni a quasi tutte le guide sono il masso avello di Bulciago e i suoi riti pagani legati all’acqua tanto che l’autorità religiose negli anni scorsi decise di blindare il tutto con una grata metallica; il Fiumelatte di Varenna con il corredo di note leggende; il tesoro sotto la chiesa di Colle Brianza (anche questa una antica leggenda tra le diverse di cui abbiamo parlato) mentre in Valsassina si sentirebbero «ancora narrare le gesta della Carcassa, una stranissima creatura il cui aspetto non risulta molto chiaro dalle frammentarie descrizioni: sembrerebbe una sorta di fantasma con tratti che riconducono alla tipica iconografia della strega» o «simile allo scheletro di un mulo». 
06._LOMBARDIA_INSOLITA_E_MISTERIOSA.jpg (70 KB)Ricorrono poi le cosiddette Piramidi di Montevecchia: si tratta della curiosa teoria di un architetto, Vincenzo Di Gregorio, che negli anni Novanta ha ipotizzato come tre colline nella zona di Rovagnate siano autentiche piramidi preistoriche; ha pubblicato un libro (“Il mistero delle piramidi lombarde”, stampato nel 2020 con l’editore romano “Fermento”) e pare che abbia cercato di convincere la Soprintendenza a effettuare scavi senza essere preso in considerazione. 
07._copertina_SETTE_MISTERI.jpg (58 KB)A completare la mappa ci sono cani misteriosi a Colico, il sasso di Preguda a Valmadrera che lo Stoppani ci ha detto essere un masso erratico ma che per certi fantasiosi sarebbe invece un meteorite; un masso inciso a Premana, il santuario d’Imbevera, ma anche Villa Uva di Missaglia, tra un teschio ritrovato e un “quadrato magico” purtroppo andato in frantumi.
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Senza dimenticare che anche a Villa Manzoni a Lecco «sono stati registrati fenomeni strani – scrive Massimo Centini - quali rumori di passi, luci che si accendevano e spegnevano all’improvviso, tintinnii di mazzi di chiavi» però «pare che da alcuni anni il silenzio sia tornato ad avvolgere ogni cosa». E poi le espressioni del sacro: una Madonna piangente a Lierna della quale ormai si sono tutti dimenticati e la fonte miracolosa di San Gerolamo a Somaaca.
In realtà, però, sono due i luoghi di maggior suggestione anche se per motivi differenti: le rovine di Consonno sopra Olginate e il rudere della Villa De Vecchi a Cortenova in Valsassina, dove appunto i fantasmi suonano il pianoforte.
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Di Consonno parlava già la “Guida alla Lombardia misteriosa” della Sugar nella prima edizione del lontano 1968, quando il villaggio fantastico voluto a partire dal 1962 dal conte Mario Bagno (1901-1995) era nel pieno del suo splendore: definendolo capitale del kitsch, la guida rilevava che il luogo «sembra avviato a diventare quel centro turistico internazionale che immagina il suo creatore (…) però per ragioni un po’ diverse da quelle che pensa il conte (…) la sua energia demolitrice è stata un po’ troppo focosa e la collina di Consonno, sconvolta, rischia di franare». Quasi un presagio: la frana che ha messo fine al “sogno” di Consonno sarebbe arrivata nel 1976 interrompendo la strada da Olginate. Peraltro, la voce viene riportata pari pari anche nella seconda edizione del 1981 e in quella sui misteri della Brianza del 1987, quando la “Las Vegas della Brianza” aveva chiuso baracca da oltre un decennio. Diventata ormai meta di una sorta di pellegrinaggio dello sfacelo che dura ancora oggi (con tanto di visite guidate).
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Nel 2016, lo storico Marco Revelli nel suo “viaggio eretico nell’Italia che cambia” (“Non ti riconosco”, Einaudi) scriveva: «Nel cuore della Brianza, a mezz’ora d’auto da Milano, c’è un fantasma di pietra. (…) Ed è sicuramente il più bizzarro “ghost village” italiano. (…) delirio di un “imprenditore moderno” che sognava di anticipare il futuro facendone la Las Vegas lombarda. (…) una città dei balocchi (…) una Disneyland lombarda, un casinò nel verde e insieme un centro commerciale ante litteram. (…) Sempre più assurda, sempre più pacchiana… Finché un giorno, nell’ottobre, 1976, tutto finì. (…) Ero preparato al disastro di Consonno. (…) Ma lo sfacelo che mi apparve davanti appena sceso dall’auto mi colpì con la violenza interiore di un incubo mattutino, lasciandomi immobile e stordito. (…) Consonno mi apparve in quel mezzogiorno, come una sorta di girone infernale postmoderno. Un monumento alla devastazione, alla distruzione, all’annientamento. Alla frantumazione e all’implosione. La rappresentazione plastica della fine di tutte le fini. Come se, appunto, li si fosse condensato tutto il negativo del mondo intorno, tutti i vapori tossici, tutti i fantasmi di un immaginario avvelenato, tutti gli umori maligni di un tempo andato in rovina». 
10._CONSONNO_MAGONE_copertina_CITTA__FANTASMA.jpg (90 KB)Anche il torinese Marco Magnone nel suo “Viaggio nelle città fantasma del Nordovest” (Espress Edizioni, Torino, 2012), dopo una serie di località piemontesi, ha voluto fare tappa a Consonno: «A rincorrere sogni troppo grandi, succede che si finisce in un incubo. (…) Un delirio senza progetto né coscienza. (…) La decomposizione di Consonno ha raggiunto livelli a cui la natura non ha mai potuto avvicinarsi». E il simbolo diventa la “Buddleja Davidi”, detta anche l’albero delle farfalle, che spunta sulle rovine: «Molto diffusa negli ambienti degradati. (…) Specie transitoria, apre la strada ad altre più esigenti, grazie al suo progressivo apporto di materia organica».
12._CONSONNO_Atlante_paesi_fantasma.jpg (106 KB)Però, annota Riccardo Fanelli nel suo “Atlante dei paesi fantasma” (Sonzogno, 2022): «Si fa presto a liquidare tutto questo come una pacchianata mostruosa, realizzata in spregio all’ambiente, agli uomini, al buon gusto, ma in quel momento storico di senso ne aveva, eccome. Era l’Italia che entrava nella cultura del consumismo».
consonnolibro2.jpg (134 KB)Di fatto, le rovine di Consonno sono lì e nessuno è in grado di prefigurare qualcosa di differente Tra quelle rovine, qualcuno vi vede anche fantasmi: forse lo stesso conte Bagno «costretto dalla sua attrazione per Consonno – scrive Francesco Camagna nel suo “Sette misteri” -, ad aggirarvisi continuamente nella speranza che la sua creatura rinasca dalle ceneri. Altri vogliono che sia il vecchio custode, altri ancora il sacrestano, così inestricabilmente legati al loro paese da essere rimasti ad abitarlo anche dopo la morte».
villa-de-vecchifai.jpg (103 KB)In quanto a fantasmi, comunque, è appunto la valsassinese Villa De Vecchi il loro regno. Secondo un sito internet americano, la vecchia villa sarebbe tra i sette luoghi più infestati al mondo. E ci sarebbero anche fotografie a documentarlo.
Siamo nella villa voluta da Felice De Vecchi, pittore, viaggiatore e patriota, come recitano le biografie. Costruita tra il 1854 e il 1856, è praticamente abbandonata dal 1938. La sua struttura eclettica e il colore rosso delle facciate hanno affascinato chi la scorgeva dalla strada provinciale. Ma l’abbandono e il degrado l’hanno appunto trasformata nella casa dei fantasmi. E sulla sua storia sono cominciate a fiorire balzane leggende.
«In particolare – scrive ancora Camagna - negli anni a ridosso del Duemila, la residenza ha attirato su di sé diverse dicerie: si racconta di una vecchia fontana nel giardino che spilla sangue; di alcune voci che si intrecciano dentro la villa nelle ore serali; ombre, infine, sono gettate sulle vite dei proprietari e sulla loro morte». 
Omicidi o suicidi, figlie scomparse e pianoforti che spariscono e riappaiono all’improvviso: «sono molti i filoni lungo i quali le fantasie più fertili si sono sbizzarrite (…) A corroborare l’apparato misterico sarebbe stato il presunto passaggio nella villa di Aleister Crowley, inglese, celebre nel campo del misticismo e dell’esoterismo. (…) Le leggende vogliono che l’esoterista abbia dimorato nella villa per tre giorni, dopo di che se ne sarebbe andato perché scosso e spaventato da alcune presenze fantomatiche nell’edificio che intonavano lugubri litanie e gli sussurravano spaventosi ammonimenti, impedendogli il sonno e qualsiasi altra attività».
Lorenzo Sartorio va oltre, parlando di riti orgiastici e adorazione del demonio: ««Si dice che (…) nel corso di una messa nera, il Maligno vi avesse fatto davvero la sua apparizione, impossessandosi di uno dei presenti. La mattina dopo, la polizia avrebbe rinvenuto una serie di corpi senza vita massacrati a mani nude, ma l’autore di questi delitti non sarebbe mai stato identificato».
In realtà, se maledizione c’è stata è che il suo architetto, Alessandro Sidoli sarebbe morto nel 1855 a soli 43 anni, quando i lavori per la villa non erano ancora stati completati. E lo stesso Felice De Vecchi non ebbe vita lunga, morto nel 1862 a 46 anni. Certo è che le insolite linee architettoniche e l’inconsueto colore rosso sembravano fatti apposta per ispirare enigmi.
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Nel 1991, in un volumetto pubblicato dalla Comunità montana valsassinese (“Villa De Vecchi a Cortenova. Riscoperta di un capolavoro” di Davide Turati e Vittorio Goia) si leggeva: «La villa si trova oggi in uno stato di totale abbandono che si protrae da più di cinquant’anni e la mancanza di manutenzione ha ovviamente facilitato l’avanzarsi del degrado. (…) La Comunità montana della Valsassina (ne) ha inoltre elaborato una ipotesi concreta di riutilizzazione che, unitamente agli intenti di sensibilizzazione e promozione culturale (…) guarda a un futuro migliore per questa eccezionale architettura».
In realtà, la villa è di proprietà privata e poco può fare il pubblico. Da quei buoni propositi sono passati ormai più di trent’anni e il degrado appare irreversibile.
Dario Cercek
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