SCAFFALE LECCHESE/199: le 'leggende' del nostro territorio, dal Lago alla Brianza
Adelchi, all’inseguimento del cinghiale bianco, viene accecato e miracolosamente risanato dall’acqua di una fonte. Chi è salito alla basilica di San Pietro al monte di Civate conosce la storia. Delle leggende lecchesi, è forse quella assurta a maggior dignità letteraria, fissata sulla carta già nel XIV secolo da Galvano Fiamma. Non solo Adelchi, però. Il mondo popolare è affollato di personaggi reali e immaginari: chi non conosce i sette i fratelli eremiti che vivevano tra Lario e Valsassina? O la strega Bissaga che danzava nella piana di Tartavalle? E poi, sant’Ambrogio, la regina Teodolinda, la contessa Ferlinda, il Medeghino. E altri personaggi minori, gli umili, i contadini qualche volta sprovveduti e qualche altra invece più che arguti, dei quali in alcuni casi si tramanda financo il nome.
Un vasto patrimonio di racconti. «Addentrarsi nella cultura popolare di questa terra lombarda è come aprire uno scrigno magico dove il tempo non ha significato»: così scriveva nel 1994 il giornalista e scrittore milanese Daniele Carozzi, autore di molte “cose” lombarde, introducendo un proprio libro che raccoglieva “Leggende e storie del Lario” pubblicato dall’editore Meravigli. E continuava: «Gli eventi che hanno accompagnato queste popolazioni del lago e dei monti nella loro esistenza crea una narrativa fitta e rigogliosa dove storia e leggenda si fondono fino a essere difficilmente districabili. Ma è il loro fascino. Gli artefici umani del Bene e del Male indossano ora il saio ora la corazza accanto a personaggi religiosi e simbolici quali Angeli e Diavoli o streghe e maghi in una lotta senza soste di spade e incantesimi».
Una serie di storie dalle origini indefinibili e tramandata nei secoli e negli anni soprattutto oralmente e pertanto mutando i dettagli nel corso del tempo.Già nel 1937, l’editore Ettore Bartolozzi pubblicava “Leggende del lago e della montagna”: una dozzina di storie raccontate dalla scrittrice milanese Ferruccia Cappi Bentivegna, della quale abbiamo scarse notizie ma che all’epoca doveva godere di una certa considerazione vista la produzione libraria peraltro decisamente eclettica, passando dal romanzo alle biografie, dall’abbigliamento rinascimentale alla storia della birra. Forse un po’ superficialmente visto che, sic!, innesta il Medeghino sul ceppo dei Medici fiorentini, quando si sa che il “nostro” nulla c’entra con quella schiatta. Però è libro prezioso, stante la rarità. Di più: è praticamente è introvabile. La stessa biblioteca di Lecco ne ha disposizione solo una copia fotostatica.Ma fu soprattutto nel secondo dopoguerra che crebbe l’attenzione nei confronti delle tradizioni popolari e quindi anche delle leggende locali. Era il momento in cui ci rendeva conto che molto di quel patrimonio stava andando perdendosi per sempre. Come certi canti e certi racconti fino ad allora tramandati oralmente.
Alcuni luoghi particolari avevano potuto beneficiare già nell’Ottocento di ricerche di etnografi e folkloristi, ma altre terre erano state invece poco battute, quasi inesplorate. Fu così che non pochi si misero a rastrellare le testimonianze di quel mondo che andava scomparendo, alcuni attrezzati con solidi strumenti culturali, altri animati solo dalla passione ma non per questo meno tenaci o preziosi. E così, proprio in quello scorcio di Novecento, è andata arricchendosi la bibliografia sulle leggende locali. Anche nel nostro territorio.All’area brianzola, non solo lecchese sono per esempio dedicati due volumoni dal formato decisamente ingombrante: in veste elegante, erano stati pubblicati a ridosso delle festività natalizie così da poter essere un lussuoso dono sotto l’albero. Stiamo parlando di “Leggende di Brianza” e di “Altre leggende di Brianza”, usciti dalla Tipolitografica Meroni di Albavilla, il primo nel 1979 e il secondo nel 1982, per iniziativa dello scrittore e storico erbese Giorgio Mauri che intendeva redigere una sorta di corpus del patrimonio di leggende brianzole.Complessivamente sessanta le storie raccontate, scelte probabilmente da un più ampio patrimonio relativo alla Brianza nella sua espressione più estesa, tra il Lecchese, Erba e la Valassina fino alla zona di Monza.
Un discorso che in realtà è valido anche altrove. Del resto, proprio le ricerche effettuate sul campo negli anni Ottanta hanno messo in luce dinamiche simili. Tenendo conto «che la nostra gente – osservano Bassani ed Erba – non aveva, un tempo, in linea di massima, quel gusto del raccontare, del narrare così come l’intendiamo oggi». Anche perché non ce n’era il tempo: si lavorava dall’alba al tramonto e «lo spazio per “raccontare” era faticosamente sottratto agli impegni di lavoro (così come, a volte, quello necessario per mangiare) e lo stare a “cacciar balle”, senza fare altro, era considerata una perdita di “tempo”».E quindi «i nostri vecchi non si compiacevano della “storia” fine a sè stessa. Non mancava invero nel repertorio qualche “storia” divertente per ricreare lo spirito dopo una giornata di fatiche e preoccupazioni. (…) Più spesso i racconti della nostra gente sottintendevano un “insegnamento pratico-moralistico”. Che cosa si doveva imparare? I bambini ad essere buoni e obbedienti; le giovinette ad essere pie, riservate, e star lontano dalle “tentazioni”; tutti ad essere saggi e onesti, a credere nella provvidenza e nella punizione divina». Sottesa era sempre la lotta tra il Bene e il Male. E in Brianza – registra Mauri - «la Fata e il Diavolo ebbero in prestito le sembianze mortali di due personaggi importantissimi per la storia locale, che finirono con l’incarnare i simboli stessi del Bene e del Male: Teodolinda, la regina dei Longobardi, e Federico Barbarossa, imperatore di Germania».
Il diavolo compariva il più delle volte sotto mentite spoglie, «a volte per spaventare - scrivono Bassani ed Erba -, altre volte per “tentare”, per offrire il suo aiuto in cambio di “qualcosa” che gli interessa, altre ancora per procurare dispetti». E con il diavolo, le streghe e i maghi, a volte buoni e a volte malvagi, poche le fate più spesso sostituite dai santi e dalla Madonna che nella cultura popolare sappiamo essersi spesso sovrapposti a divinità pagane o “spiriti” della natura precristiani. Ampio anche il novero delle situazioni: le leggende arrivate fino a noi sembrano testimoniare un tentativo di fornire aiuto e risposte ai diversi momenti della vita di una comunità e a giustificare un calendario di riti, ricorrenze e usi.
Oltre a quella di Adelchi per San Pietro al Monte, c’è la leggenda di Teodolinda a spiegare l’origine del monastero di Cremella e quella di sant’Ambrogio per il convento di Santa Maria sul Monte Barro
E poi il castello di re Desiderio e il castello di Brivio. E ancora Teodolinda che salva il vino brianzolo e ancora sant’Ambrogio che aiuta e poi punisce tre ragazze del Monte di Brianza.Ci sono la tomba del longobardo Taino a Comasira di Vendrogno, i Corni di Canzo che sarebbero le corna del diavolo, un lago misterioso a Rovagnate, un tesoro sepolto nella chiesa di san Vittore a Colle Brianza, caproni e gatti diabolici, folletti che si aggirano tra stalle e fienili, le streghe di Lezzeno, naturalmente la valsassinese Bissaga, o quelle che frequentano i boschi di Perledo e dei Piani Resinelli mentre un ponte stregato stava anche a Mezzacca; le varie “gibiane” e i fantasmi come l’Ercole Manzoni di Barzio, le messe e i tesori dei morti, le apparizioni mariane e appunto i sette eremiti del lago tra cui Miro e Sfirio, e altri asceti, i miracoli dei santi. Non manca il ricordo dei lanzichenecchi che, sappiamo, quando passarono per queste contrade lasciarono pestilenza e devastazioni che il racconto popolar ha cercato evidentemente di esorcizzare. E chi non conosce la leggenda dei tre giovani morti nella grotta di Fiumelatte, tramandata da viaggiatori e scrittori? Ma c’erano anche i giganti dei Campelli. E che dire, infine, del roseto del Bregai e dell’alpe di Moncodeno che, «avvolti di ghiacci e rose», evocano leggende dolomitiche a testimoniare un immaginario senza confini e le ramificazioni diffuse della cultura popolare. Insomma, un mondo.
Un vasto patrimonio di racconti. «Addentrarsi nella cultura popolare di questa terra lombarda è come aprire uno scrigno magico dove il tempo non ha significato»: così scriveva nel 1994 il giornalista e scrittore milanese Daniele Carozzi, autore di molte “cose” lombarde, introducendo un proprio libro che raccoglieva “Leggende e storie del Lario” pubblicato dall’editore Meravigli. E continuava: «Gli eventi che hanno accompagnato queste popolazioni del lago e dei monti nella loro esistenza crea una narrativa fitta e rigogliosa dove storia e leggenda si fondono fino a essere difficilmente districabili. Ma è il loro fascino. Gli artefici umani del Bene e del Male indossano ora il saio ora la corazza accanto a personaggi religiosi e simbolici quali Angeli e Diavoli o streghe e maghi in una lotta senza soste di spade e incantesimi».
Una serie di storie dalle origini indefinibili e tramandata nei secoli e negli anni soprattutto oralmente e pertanto mutando i dettagli nel corso del tempo.Già nel 1937, l’editore Ettore Bartolozzi pubblicava “Leggende del lago e della montagna”: una dozzina di storie raccontate dalla scrittrice milanese Ferruccia Cappi Bentivegna, della quale abbiamo scarse notizie ma che all’epoca doveva godere di una certa considerazione vista la produzione libraria peraltro decisamente eclettica, passando dal romanzo alle biografie, dall’abbigliamento rinascimentale alla storia della birra. Forse un po’ superficialmente visto che, sic!, innesta il Medeghino sul ceppo dei Medici fiorentini, quando si sa che il “nostro” nulla c’entra con quella schiatta. Però è libro prezioso, stante la rarità. Di più: è praticamente è introvabile. La stessa biblioteca di Lecco ne ha disposizione solo una copia fotostatica.Ma fu soprattutto nel secondo dopoguerra che crebbe l’attenzione nei confronti delle tradizioni popolari e quindi anche delle leggende locali. Era il momento in cui ci rendeva conto che molto di quel patrimonio stava andando perdendosi per sempre. Come certi canti e certi racconti fino ad allora tramandati oralmente.
Alcuni luoghi particolari avevano potuto beneficiare già nell’Ottocento di ricerche di etnografi e folkloristi, ma altre terre erano state invece poco battute, quasi inesplorate. Fu così che non pochi si misero a rastrellare le testimonianze di quel mondo che andava scomparendo, alcuni attrezzati con solidi strumenti culturali, altri animati solo dalla passione ma non per questo meno tenaci o preziosi. E così, proprio in quello scorcio di Novecento, è andata arricchendosi la bibliografia sulle leggende locali. Anche nel nostro territorio.All’area brianzola, non solo lecchese sono per esempio dedicati due volumoni dal formato decisamente ingombrante: in veste elegante, erano stati pubblicati a ridosso delle festività natalizie così da poter essere un lussuoso dono sotto l’albero. Stiamo parlando di “Leggende di Brianza” e di “Altre leggende di Brianza”, usciti dalla Tipolitografica Meroni di Albavilla, il primo nel 1979 e il secondo nel 1982, per iniziativa dello scrittore e storico erbese Giorgio Mauri che intendeva redigere una sorta di corpus del patrimonio di leggende brianzole.Complessivamente sessanta le storie raccontate, scelte probabilmente da un più ampio patrimonio relativo alla Brianza nella sua espressione più estesa, tra il Lecchese, Erba e la Valassina fino alla zona di Monza.
Più maneggevole, invece, una pubblicazione dedicata al territorio lecchese: “I nostri vecchi raccontano…” curato da Felice Bassani e da Luigi Erba, pubblicato nel 1982 a Merate da Bertoni Editore. Oltre un centinaio le leggende raccolte tra paesi del lago, la Valsassina, la Valle San Martino e la Brianza. Una decina d’anni dopo, il già menzionato libro di Carozzi. Molto più recente, un fascicolo pubblicato per raccogliere fondi destinati alla chiesa di Corenno Plinio: scritto dal derviese Roberto Pozzi e stampato nel 2020, riunisce “Leggende sacre e profane di Dervio e la sua valle”.
Alcune leggende ritornano in tutte le raccolte a testimoniare un forte radicamento. Talune peraltro hanno una diffusione larghissima: basti pensare ai cosiddetti giorni della merla. Altre si ripropongono variate da un luogo all’altro, altre ancora sono più che locali.
Della Brianza, Mauri spiega che «è terra di leggende. (…) Ruderi abbandonati, case cadenti, palazzi sontuosi, rocche e castelli, hanno sempre come “supporto culturale” una leggenda che ne illustra o il sinistro abbandono o la magnificenza regale e nella quale si muovono, si agitano o languiscono le vicende degli abitanti, (…) Affidate fino al XIX secolo quasi unicamente alla tradizione orale, le leggende brianzole che ci sono pervenute non sono che frange di una vecchia tovaglia e frange sfilacciate: spesso hanno narrazioni brevi, senza sviluppo, sono echi di ciò che sono state, del divertimento procurato, dei sorrisi, delle risate, della meraviglia e della paura, delle sensazioni suscitate negli antichi ascoltatori. Il meglio si è perso per la strada sassosa e angusta».Un discorso che in realtà è valido anche altrove. Del resto, proprio le ricerche effettuate sul campo negli anni Ottanta hanno messo in luce dinamiche simili. Tenendo conto «che la nostra gente – osservano Bassani ed Erba – non aveva, un tempo, in linea di massima, quel gusto del raccontare, del narrare così come l’intendiamo oggi». Anche perché non ce n’era il tempo: si lavorava dall’alba al tramonto e «lo spazio per “raccontare” era faticosamente sottratto agli impegni di lavoro (così come, a volte, quello necessario per mangiare) e lo stare a “cacciar balle”, senza fare altro, era considerata una perdita di “tempo”».E quindi «i nostri vecchi non si compiacevano della “storia” fine a sè stessa. Non mancava invero nel repertorio qualche “storia” divertente per ricreare lo spirito dopo una giornata di fatiche e preoccupazioni. (…) Più spesso i racconti della nostra gente sottintendevano un “insegnamento pratico-moralistico”. Che cosa si doveva imparare? I bambini ad essere buoni e obbedienti; le giovinette ad essere pie, riservate, e star lontano dalle “tentazioni”; tutti ad essere saggi e onesti, a credere nella provvidenza e nella punizione divina». Sottesa era sempre la lotta tra il Bene e il Male. E in Brianza – registra Mauri - «la Fata e il Diavolo ebbero in prestito le sembianze mortali di due personaggi importantissimi per la storia locale, che finirono con l’incarnare i simboli stessi del Bene e del Male: Teodolinda, la regina dei Longobardi, e Federico Barbarossa, imperatore di Germania».
Il diavolo compariva il più delle volte sotto mentite spoglie, «a volte per spaventare - scrivono Bassani ed Erba -, altre volte per “tentare”, per offrire il suo aiuto in cambio di “qualcosa” che gli interessa, altre ancora per procurare dispetti». E con il diavolo, le streghe e i maghi, a volte buoni e a volte malvagi, poche le fate più spesso sostituite dai santi e dalla Madonna che nella cultura popolare sappiamo essersi spesso sovrapposti a divinità pagane o “spiriti” della natura precristiani. Ampio anche il novero delle situazioni: le leggende arrivate fino a noi sembrano testimoniare un tentativo di fornire aiuto e risposte ai diversi momenti della vita di una comunità e a giustificare un calendario di riti, ricorrenze e usi.
Oltre a quella di Adelchi per San Pietro al Monte, c’è la leggenda di Teodolinda a spiegare l’origine del monastero di Cremella e quella di sant’Ambrogio per il convento di Santa Maria sul Monte Barro
E poi il castello di re Desiderio e il castello di Brivio. E ancora Teodolinda che salva il vino brianzolo e ancora sant’Ambrogio che aiuta e poi punisce tre ragazze del Monte di Brianza.Ci sono la tomba del longobardo Taino a Comasira di Vendrogno, i Corni di Canzo che sarebbero le corna del diavolo, un lago misterioso a Rovagnate, un tesoro sepolto nella chiesa di san Vittore a Colle Brianza, caproni e gatti diabolici, folletti che si aggirano tra stalle e fienili, le streghe di Lezzeno, naturalmente la valsassinese Bissaga, o quelle che frequentano i boschi di Perledo e dei Piani Resinelli mentre un ponte stregato stava anche a Mezzacca; le varie “gibiane” e i fantasmi come l’Ercole Manzoni di Barzio, le messe e i tesori dei morti, le apparizioni mariane e appunto i sette eremiti del lago tra cui Miro e Sfirio, e altri asceti, i miracoli dei santi. Non manca il ricordo dei lanzichenecchi che, sappiamo, quando passarono per queste contrade lasciarono pestilenza e devastazioni che il racconto popolar ha cercato evidentemente di esorcizzare. E chi non conosce la leggenda dei tre giovani morti nella grotta di Fiumelatte, tramandata da viaggiatori e scrittori? Ma c’erano anche i giganti dei Campelli. E che dire, infine, del roseto del Bregai e dell’alpe di Moncodeno che, «avvolti di ghiacci e rose», evocano leggende dolomitiche a testimoniare un immaginario senza confini e le ramificazioni diffuse della cultura popolare. Insomma, un mondo.
Dario Cercek