SCAFFALE LECCHESE/212: il Monte Legnone raccontato nei quattro volumi di Angelo Sala
La più alta ma la più trascurata delle montagne lecchesi. Così il giornalista e storico lecchese Angelo Sala ci introduce alla sua “escursione” sul Legnone in quella serie di quattro volumi dedicati ad altrettante vette lecchesi pubblicati tra da Bellavite Editore una ventina d’anni fa. Quello dedicato al Legnone è datato 2005 e, come gli altri, ha un notevole corredo fotografico con le immagini scattate da Ivo Buttera (alcune delle quali qua riproduciamo).
E in effetti, quella sorte di grande massiccia cuspide angolare tra Valtellina e Lario, per quanto frequentatissima, non gode della fama di una Grigna o di un Resegone, entrati ormai nel mito lecchese.
Eppure – prosegue Sala - «è montagna da record. Questo bastione dell’estremo ovest delle Orobie, oltre a rappresentare una delle cime più belle e panoramiche di tutte le Prealpi, con i suoi 2609 0 2610 metri (non saremo noi a mettere la parola fine) è la vetta più alta delle montagne lecchesi. Le sue pendici, ricoperte da fitti boschi fin quasi a duemila metri, precipitano a ovest su Colico e il Lario, a sud sulla Val Varrone, a nord sulla Valtellina, dando luogo a una delle pareti con il dislivello in assoluto più alto di tutto l’arco alpino».Chi frequenta lo Scaffale si ricorderà il “Viaggio da Milano ai tre laghi” pubblicata nel 1794 da Carlo Amoretti, naturalista e agronomo nato a Oneglia e morto a Milano, il quale riprendeva le considerazioni del sacerdote e scienziato Carlo Ermenegildo Pini che nel 1780 «trovò essere il Legnone il monte che ha il più alto pendio continuato: poiché il San Gottardo, il Mon-bianco, il Monte-rosa ec., che molto più alti sono, presa l’altezza perpendicolare, non hanno dalle loro radici alla sommità tanta distanza quanta ve n’ha da Colico o da Piona alla cima del Legnone».
Inevitabile, dunque, che «i principali itinerari che portano in cima – continua Sala -sono lunghi e impegnativi: senza una preparazione adeguata è consigliabile accontentarsi di mete a quote più basse. (…) E pensare che meno di un secolo fa si poteva arrivare in vetta… motorizzati. Nel corso della prima guerra mondiale, quando il Legnone rappresentò il bastione attorno al quale venne incernierato il sistema difensivo lungo il confine nord – la cosiddetta linea Cadorna che interessò l’intera frontiera italo-svizzera dal Gran San Bernardo allo Stelvio – venne realizzata una spettacolare strada militare che dai mille metri dell’Alpe Gallino, lungo la strada della Val Varrone, porta ai 2396 metri della Bocchetta del Legnone. (…) ancora percorribile con mezzi fuoristrada fino ai 1647 metri dell’Alpe di Campo. Poi la strada è malconcia e percorribile solo a piedi perché i tornanti, realizzati con muri a secco e privi di manutenzione, stanno lentamente ma inesorabilmente scivolano a valle. (…) Un itinerario ardito. (…) Oggi che i mezzi militari sono un ricordo lontano, questa strada, se restaurata e resa di nuovo percorribile, potrebbe rappresentare un ottimo diverso approccio alla montagna lecchese. Nessuna paura di un’invasione di mezzi motorizzati.»
La strada «venne realizzata con l’obiettivo di unire le retrovie alla linea fortificata realizzata tra la Cima Scoggione e il Pizzo Valtorta. (…) Tuttavia, lassù, nessuno fu costretto a combattere, così come nessuno, nemmeno l’orecchio più fino, udì il rombo del cannone, la scarica della mitraglia, il ta-pum dei cecchini, le cui eco si spegnevano lontanissime sulle montagne di nord-est. (…) La minaccia di guerra era così vaga che gli apprestamenti non avrebbero resistito a un cannoneggiamento perché fatti di muri a secco, per nulla rinforzati come invece avveniva sulle linee di combattimento.»
Naturalmente, però, il Legnone non può essere ridotto a una semplice memoria bellica.
Il rischio c’è, del resto, se ai resti della linea Cadorna con annesso il forte di Montecchio, ci aggiungiamo anche il più antico forte di Fuentes.
E’ la zona del Pian di Spagna, «una magica zona dove Valtellina e Valchiavenna convergono e dove i fiumi Adda e Mera sfociano nel Lario. Qui si stende uno degli ambienti più rari e preziosi dell’intero arco alpino: il sistema paludoso del Piani di Spagna. Si trattava di una vasta zona di paludi ed acquitrini selvaggia e malsana, tormentata dalla malaria che colpiva sia i pochi abitanti della zona che, in particolare, i soldati spagnoli che dal Forte di Fuentes, presidiavano la frontiera nord dello Stato di Milano. (…) Benché ridotto ad una imponente rovina, il Forte di Fuentes rivela ancora la sua grande potenza. (…) Testimonianza di quanto strategica sia stata questa porzione di territorio nel corso dei secoli. Una conferma che arriverà, tre secoli dopo l’edificazione del Fuentes, dalla costruzione di un altro forte. Il Montecchio Nord di Colico (…) è l’unico esempio di architettura fortificata italiana della prima guerra mondiale giunto sino a noi completo di cupole in acciaio, cannoni e buona parte dell’impiantistica.»
Per quanto impervio e in molti tratti selvaggio ancora oggi, il Legnone abbraccia comunque un territorio vastissimo che racchiude molte altre testimonianze di storia. Sala ci accompagna lungo itinerari differenti, secondo l’orientamento geografico.
Un itinerario sul versante valtellinese con suggestioni politiche e religiose ma anche naturali, addentrandoci in quella Val Lesina che «vuol dire impervi boschi di faggi e castagne alle quote più basse; poi vuol dire migliaia di abeti messi a dimora dall’uomo e del tutto spontanei dai mille metri in su; poi infine vuol dire migliaia di svettanti larici, estremo baluardo della vegetazione alpina d’alto fusto. (…) La valle è difficile da scoprire, ma facile da visitare. Lo sfruttamento sapiente della risorsa forestale ne ha evitato la massiccia antropizzazione, (…) Il ripido tratturo con il quale inizia la scarpinata verso la Val Lesina conserva ancora ampi tratti della magistrale pavimentazione originaria. (…) Quel tracciato che si percorre serviva alla salita e alla discesa dei montanari, ma la sua conformazione risponde al prevalente compito di scivolamento a fondovalle dei tronchi.». Ed è da queste parti che venne segnalato uno degli “ultimi” orsi delle Orobie: «Fu avvistato dopo che ebbe ucciso una giumenta all’Alpe Tagliata. Fu, quindi, ferito nei dintorni della casera di Mezzana, per poi essere braccato e finito in Val Fraina, sul versante opposto della catena del Legnone, nel territorio di Premana».
Va tenuto conto che Sala scriveva ormai vent’anni fa, quando l’orso era dato ormai per scomparso sui nostri monti. Orso che, come il lupo, sembra ora ritornare.
Sul versante a lago, le suggestioni medievali dell’abbazia di Piona, ma anche di Dorio: «il paese sceso dal monte» perché lungo il pendio che sale da duecento a milleottocento metri di altitudine, «sarebbe meglio parlare non di un abitato che “sale”, bensì di un agglomerato di case che è “sceso”. Il nucleo originario – c’è ancora, si chiama Mandonico ed è praticamente abbandonato- era in posizione elevata» poi le strade di comunicazione richiamarono a valle gli abitanti.» E poi Corenno Plinio, Dervio con il suo castello e Bellano.
Ma voltando le spalle al dolce paesaggio lariano ci si addentra in un’altra terra di particolare asperità: la Valvarrone che è «con quella della Troggia, la parte più alpestre della Valsassina» ed è terra tanto stretta e impervia che non c’è stata la possibilità di un grande sviluppo», così che nell’epoca dello spopolamento della montagna gli abitanti scendevano a lavorare nelle industrie sorte sul lago. E ciò ha preservato i luoghi per scoprire alcuni dei quali Sala ci propone alcuni itinerari, risalendo a poco a poco la valle fin su sui “monti” e cioè agli alpeggi sopra Pagnona e Premana. Più dolce, rispetto alla Valvarrone, è invece la Val Muggiasca, quella di Vendrogno, che prende il nome del monte Muggio: «Intorno a questo monte, Enrico Teruzzi narra una leggenda ingenua. “Migliaia di anni fa, un gigante di nome Muggio sentendosi vecchio e ormai prossimo alla fine si fece un gran manto verde, se lo gettò sulle spalle ormai curve e si addormentò in un sonno di secoli e millenni».
L’abbiamo riassunto forse un po’ alla spiccia, questo libro sul Legnone. Perché in realtà è difficile riassumere quelle che sono autentiche passeggiate alla scoperta dei vari differenti aspetti di una straordinaria montagna, con l’autore nei panni di una guida che strada facendo si sofferma su un dettaglio, racconta una storia, cita brani di coloro che prima di lui hanno descritto il Legnone e quel “figlioletto” che è il Legnoncino. Un passo lento, dunque, per poter cogliere le tante suggestioni: «In queste valli ogni angolo, ogni scorcio, ogni pietra si carica di valori, di significati che ci riconducono ad un passato, ad una storia vissuta. Segni che possiamo ritrovare nelle architetture contadine, nelle baite, nei resti dei castelli e dei forti di cui sono costellate, nelle chiesette isolate, nelle antiche chiese, nei camminamenti e nelle trincee della prima guerra mondiale. È l’emozione di guardare la storia».
E in effetti, quella sorte di grande massiccia cuspide angolare tra Valtellina e Lario, per quanto frequentatissima, non gode della fama di una Grigna o di un Resegone, entrati ormai nel mito lecchese.
Eppure – prosegue Sala - «è montagna da record. Questo bastione dell’estremo ovest delle Orobie, oltre a rappresentare una delle cime più belle e panoramiche di tutte le Prealpi, con i suoi 2609 0 2610 metri (non saremo noi a mettere la parola fine) è la vetta più alta delle montagne lecchesi. Le sue pendici, ricoperte da fitti boschi fin quasi a duemila metri, precipitano a ovest su Colico e il Lario, a sud sulla Val Varrone, a nord sulla Valtellina, dando luogo a una delle pareti con il dislivello in assoluto più alto di tutto l’arco alpino».Chi frequenta lo Scaffale si ricorderà il “Viaggio da Milano ai tre laghi” pubblicata nel 1794 da Carlo Amoretti, naturalista e agronomo nato a Oneglia e morto a Milano, il quale riprendeva le considerazioni del sacerdote e scienziato Carlo Ermenegildo Pini che nel 1780 «trovò essere il Legnone il monte che ha il più alto pendio continuato: poiché il San Gottardo, il Mon-bianco, il Monte-rosa ec., che molto più alti sono, presa l’altezza perpendicolare, non hanno dalle loro radici alla sommità tanta distanza quanta ve n’ha da Colico o da Piona alla cima del Legnone».
Inevitabile, dunque, che «i principali itinerari che portano in cima – continua Sala -sono lunghi e impegnativi: senza una preparazione adeguata è consigliabile accontentarsi di mete a quote più basse. (…) E pensare che meno di un secolo fa si poteva arrivare in vetta… motorizzati. Nel corso della prima guerra mondiale, quando il Legnone rappresentò il bastione attorno al quale venne incernierato il sistema difensivo lungo il confine nord – la cosiddetta linea Cadorna che interessò l’intera frontiera italo-svizzera dal Gran San Bernardo allo Stelvio – venne realizzata una spettacolare strada militare che dai mille metri dell’Alpe Gallino, lungo la strada della Val Varrone, porta ai 2396 metri della Bocchetta del Legnone. (…) ancora percorribile con mezzi fuoristrada fino ai 1647 metri dell’Alpe di Campo. Poi la strada è malconcia e percorribile solo a piedi perché i tornanti, realizzati con muri a secco e privi di manutenzione, stanno lentamente ma inesorabilmente scivolano a valle. (…) Un itinerario ardito. (…) Oggi che i mezzi militari sono un ricordo lontano, questa strada, se restaurata e resa di nuovo percorribile, potrebbe rappresentare un ottimo diverso approccio alla montagna lecchese. Nessuna paura di un’invasione di mezzi motorizzati.»
La strada «venne realizzata con l’obiettivo di unire le retrovie alla linea fortificata realizzata tra la Cima Scoggione e il Pizzo Valtorta. (…) Tuttavia, lassù, nessuno fu costretto a combattere, così come nessuno, nemmeno l’orecchio più fino, udì il rombo del cannone, la scarica della mitraglia, il ta-pum dei cecchini, le cui eco si spegnevano lontanissime sulle montagne di nord-est. (…) La minaccia di guerra era così vaga che gli apprestamenti non avrebbero resistito a un cannoneggiamento perché fatti di muri a secco, per nulla rinforzati come invece avveniva sulle linee di combattimento.»
Naturalmente, però, il Legnone non può essere ridotto a una semplice memoria bellica.
Il rischio c’è, del resto, se ai resti della linea Cadorna con annesso il forte di Montecchio, ci aggiungiamo anche il più antico forte di Fuentes.
E’ la zona del Pian di Spagna, «una magica zona dove Valtellina e Valchiavenna convergono e dove i fiumi Adda e Mera sfociano nel Lario. Qui si stende uno degli ambienti più rari e preziosi dell’intero arco alpino: il sistema paludoso del Piani di Spagna. Si trattava di una vasta zona di paludi ed acquitrini selvaggia e malsana, tormentata dalla malaria che colpiva sia i pochi abitanti della zona che, in particolare, i soldati spagnoli che dal Forte di Fuentes, presidiavano la frontiera nord dello Stato di Milano. (…) Benché ridotto ad una imponente rovina, il Forte di Fuentes rivela ancora la sua grande potenza. (…) Testimonianza di quanto strategica sia stata questa porzione di territorio nel corso dei secoli. Una conferma che arriverà, tre secoli dopo l’edificazione del Fuentes, dalla costruzione di un altro forte. Il Montecchio Nord di Colico (…) è l’unico esempio di architettura fortificata italiana della prima guerra mondiale giunto sino a noi completo di cupole in acciaio, cannoni e buona parte dell’impiantistica.»
Per quanto impervio e in molti tratti selvaggio ancora oggi, il Legnone abbraccia comunque un territorio vastissimo che racchiude molte altre testimonianze di storia. Sala ci accompagna lungo itinerari differenti, secondo l’orientamento geografico.
Un itinerario sul versante valtellinese con suggestioni politiche e religiose ma anche naturali, addentrandoci in quella Val Lesina che «vuol dire impervi boschi di faggi e castagne alle quote più basse; poi vuol dire migliaia di abeti messi a dimora dall’uomo e del tutto spontanei dai mille metri in su; poi infine vuol dire migliaia di svettanti larici, estremo baluardo della vegetazione alpina d’alto fusto. (…) La valle è difficile da scoprire, ma facile da visitare. Lo sfruttamento sapiente della risorsa forestale ne ha evitato la massiccia antropizzazione, (…) Il ripido tratturo con il quale inizia la scarpinata verso la Val Lesina conserva ancora ampi tratti della magistrale pavimentazione originaria. (…) Quel tracciato che si percorre serviva alla salita e alla discesa dei montanari, ma la sua conformazione risponde al prevalente compito di scivolamento a fondovalle dei tronchi.». Ed è da queste parti che venne segnalato uno degli “ultimi” orsi delle Orobie: «Fu avvistato dopo che ebbe ucciso una giumenta all’Alpe Tagliata. Fu, quindi, ferito nei dintorni della casera di Mezzana, per poi essere braccato e finito in Val Fraina, sul versante opposto della catena del Legnone, nel territorio di Premana».
Va tenuto conto che Sala scriveva ormai vent’anni fa, quando l’orso era dato ormai per scomparso sui nostri monti. Orso che, come il lupo, sembra ora ritornare.
Sul versante a lago, le suggestioni medievali dell’abbazia di Piona, ma anche di Dorio: «il paese sceso dal monte» perché lungo il pendio che sale da duecento a milleottocento metri di altitudine, «sarebbe meglio parlare non di un abitato che “sale”, bensì di un agglomerato di case che è “sceso”. Il nucleo originario – c’è ancora, si chiama Mandonico ed è praticamente abbandonato- era in posizione elevata» poi le strade di comunicazione richiamarono a valle gli abitanti.» E poi Corenno Plinio, Dervio con il suo castello e Bellano.
Ma voltando le spalle al dolce paesaggio lariano ci si addentra in un’altra terra di particolare asperità: la Valvarrone che è «con quella della Troggia, la parte più alpestre della Valsassina» ed è terra tanto stretta e impervia che non c’è stata la possibilità di un grande sviluppo», così che nell’epoca dello spopolamento della montagna gli abitanti scendevano a lavorare nelle industrie sorte sul lago. E ciò ha preservato i luoghi per scoprire alcuni dei quali Sala ci propone alcuni itinerari, risalendo a poco a poco la valle fin su sui “monti” e cioè agli alpeggi sopra Pagnona e Premana. Più dolce, rispetto alla Valvarrone, è invece la Val Muggiasca, quella di Vendrogno, che prende il nome del monte Muggio: «Intorno a questo monte, Enrico Teruzzi narra una leggenda ingenua. “Migliaia di anni fa, un gigante di nome Muggio sentendosi vecchio e ormai prossimo alla fine si fece un gran manto verde, se lo gettò sulle spalle ormai curve e si addormentò in un sonno di secoli e millenni».
L’abbiamo riassunto forse un po’ alla spiccia, questo libro sul Legnone. Perché in realtà è difficile riassumere quelle che sono autentiche passeggiate alla scoperta dei vari differenti aspetti di una straordinaria montagna, con l’autore nei panni di una guida che strada facendo si sofferma su un dettaglio, racconta una storia, cita brani di coloro che prima di lui hanno descritto il Legnone e quel “figlioletto” che è il Legnoncino. Un passo lento, dunque, per poter cogliere le tante suggestioni: «In queste valli ogni angolo, ogni scorcio, ogni pietra si carica di valori, di significati che ci riconducono ad un passato, ad una storia vissuta. Segni che possiamo ritrovare nelle architetture contadine, nelle baite, nei resti dei castelli e dei forti di cui sono costellate, nelle chiesette isolate, nelle antiche chiese, nei camminamenti e nelle trincee della prima guerra mondiale. È l’emozione di guardare la storia».
Dario Cercek