SCAFFALE LECCHESE/207: il delitto di Giacomo Matteotti nei racconti sui libri

Il 10 giugno ricorrono i cento anni dell’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti da parte dei fascisti, un episodio che avrebbe potuto essere la fine politica di Benito Mussolini, il quale invece ne uscì addirittura rafforzato passando per la celebre rivendicazione del 3 gennaio 1925, il discorso fondativo del regime. Si ricorderà: «Io dichiaro che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto.» Seguirono poi le leggi fascistissime e vent’anni di dittatura.
Qui ci occupiamo soltanto di un paio di dettagli marginali della vicenda e cioè i “riflessi lecchesi” del delitto, come Aroldo Benini titolava un suo articolo pubblicato sulla rivista storica “Archivi di Lecco” (nel numero di aprile-giugno 1997). “Riflessi lecchesi” dei quali si è occupato anche Alberto Benini, che di Aroldo è figlio, nel suo “Piccozze rosse, cavalieri neri”.
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Non si può inoltre trascurare “Il delitto Matteotti” dello storico Mauro Canali, pubblicato dall’editore bolognese “Il Mulino” per la prima volta nel 1997 e ancora quest’anno, dopo altre successive edizioni. Pur restando qualche ombra, il libro di Canali è ritenuto la versione definitiva di quanto accaduto tra il 10 giugno e il 16 agosto 1924, cioè tra il giorno in cui Matteotti venne prelevato sotto casa dai sicari e il giorno in cui ne venne ritrovato il cadavere deturpato e sotterrato alla bell’e meglio in un campo.
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La prima edizione del 1997 e quella più recente del 2024

Prima di tutto alcuni nomi. La squadra fascista che rapì e uccise Matteotti era capitanata da Amerigo Dumini e composta anche da Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Sono i cinque che erano a bordo dell’auto sulla quale venne caricato Matteotti. Attorno a questi ruotavano altre figure, tra cui l’austriaco Otto Thierschald. Due, in particolare, sono i personaggi che ci interessano: innanzitutto Poveromo e poi Volpi.
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Amleto Poveromo era un lecchese, di professione macellaio con negozio in piazza XX Settembre. Volpi, di professione falegname, era “sansepolcrista” e squadrista, milanese e come altri milanesi frequentava le Grigne: dopo il delitto cercò rifugio a Ballabio, contando sull’appoggio del fascistissimo canottiere a alpinista Erminio Dones che proprio sulle guglie delle Grigne ha dato ampia prova del suo estro sportivo.
Poveromo, nato a Lecco il 14 aprile 1893, era il terzogenito di Domenico Poveromo, commesso, e di Paolina Beretta, stiratrice. Nel giugno 1924 aveva 31 anni, era sposato e padre di due figli. Dal punto di vista penale, aveva un precedente per furto, con condanna a dieci mesi di reclusione, risalente al 1911, un’altra epoca e un altro mondo. Nei mesi del fascismo nascente non si era tirato indietro. Gravitava su Milano ed «era una vecchia conoscenza di Volpi – scrive Canali -, che lo aveva utilizzato in diverse occasioni contro gli oppositori. Anch’egli nel novembre del 1923, era stato in missione in Francia assieme a Dumini, con un passaporto falso intestato a Cesare Mariani, la stessa identità che fornì all’hotel Dragoni [a Roma] quando vi scese il 22 maggio del 1924 per prender parte all’uccisione di Matteotti».
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Albino Volpi (in primo piano) ed Erminio Dones

Dunque, gli uomini reclutati da Dumini, tra cui Poveromo, arrivarono a Roma il 22 maggio. Nei giorni seguenti – ci fa sapere Aroldo Benini -, il lecchese scrisse una cartolina di saluti alla moglie e ai figli. 
Il 5 giugno presentò alla questura capitolina regolare richiesta per ottenere il porto d’armi: quella richiesta corredata di fotografia è riemersa dagli archivi romani ed è esposta in una mostra allestita al Museo di Roma fino al 16 giugno (“Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia”).
Continua Canali: «Il gruppetto impiegò la mattinata di domenica 8 giugno ad accertare se Matteotti non fosse effettivamente partito [per Vienna]. Dumini, Tierschald e Poveromo si mossero essenzialmente attorno a Montecitorio, fino a quando, alle 13, l’austriaco non vide uscire Matteotti che si dirigeva verso casa». Proseguendo con la lettura di Canali, arriviamo dunque al pomeriggio del 10 giugno: «Due dei cinque, seguiti da altri, corsero incontro a Matteotti e lo afferrarono. Matteotti riuscì in un primo momento a respingerli entrambi, gettandone a terra uno. Sopraggiunge in quel momento un terzo aggressore – probabilmente Poveromo, il più robusto – che tramortì il malcapitato segretario del Psu colpendolo con un potentissimo pugno al volto. Matteotti si abbattè sull’asfalto. (…) Si poté accertare la presenza sul luogo del delitto solo di Dumini, Viola, Poveromo, Volpi e Malacria, mentre sugli altri tre non si poté andare oltre dei ragionevoli sospetti.»
A proposito del colpo di Poveromo, dettagliano Marzio Breda e Stefano Caretti (“Il nemico di Mussolini”, 2024, editore Solferino): Poveromo, «massiccio ed evidentemente esperto in risse» ferma Matteotti «con un diretto al volto. Potente. Devastante. Matteotti s’incurva sulla schiena e, dopo aver battuto la testa sullo spigolo del marciapiede, si affloscia per terra».
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Ritratto di Giacomo Matteotti

Il seguito è noto: Matteotti lottò coi suoi aggressori ma venne ucciso già nell’auto e il suo cadavere sepolto in un bosco della Quartarella dove appunto verrà ritrovato il 16 agosto. «A uccidere il deputato – leggiamo ancora nel libro di Breda e Caretti - fu una ferita con «arma da punta e taglio». Un pugnale, del tipo usato dagli “arditi” nella Grande guerra (…). Che affondato tra il petto e l’ascella sinistra, gli aveva lacerato polmoni e cuore». E il sospetto su chi abbia pugnalato a morte Matteotti «ondeggia ancora adesso» tra Viola e Poveromo.
I sicari avrebbero lasciato la capitale quasi subito e infatti Volpi e Poveromo sarebbero stati “quasi” arrestati il 13 giugno: Poveromo a Lecco e Volpi a Milano. Quasi arrestati, si diceva. Aroldo Benini, infatti, ci informa che Poveromo riesce ad eclissarsi sotto gli occhi degli agenti che lo dovrebbero catturare, trova ricetto in una soffitta di proprietà di amici, non lontano dalla sua abitazione, e viene poi definitivamente arrestato il 28 giugno; Volpi, invece, «avendo richiesto e ottenuto di passare per la sede del Fascio di Milano, dopo un colloquio col federale Mario Giampaoli, riesce a sfuggire a coloro che lo hanno arrestato, e trova quindi rifugio in un albergo, a Ballabio, alle porte della Valsassina, da dove pensava di raggiungere la non lontana Svizzera.» 
Il passaggio lecchese di Volpi viene ricostruito nel dettaglio da Alberto Benini: «Già nel tardo pomeriggio di venerdì 13 giugno, una parte della scena si sposta nel lecchese, proprio con l’arrivo di Volpi e Dones provenienti da Milano, nel centro della città. Possiamo seguirla grazie all’articolo che il settimanale “Il Nuovo Prealpino” dedica alla questione nel suo numero di sabato 21 giugno. L’articolo, siglato “r” e che, analizzato attentamente, mostra di essere stato redatto su informazioni opportunamente fornite dalla Vice-prefettura di Lecco, si deve quasi certamente alla penna di Arnaldo Ruggiero (1890-1989)».
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L'Albergo della Grigna

Riassumiamo: Volpi prese alloggio all’Albergo della Grigna di Ballabio sotto nome falso. Come già ricordato, il punto di riferimento per Volpi a Ballabio è Dones. E la mattina di sabato 14 giugno Dones, Volpi e un altro gruppo di Arditi salirono in Grigna e al Rifugio Porta «furono notati la domenica da alcuni escursionisti lecchesi per il loro contegno circospetto e quasi sospettoso». Il lunedì, Dones venne fermato e accompagnato alla sottoprefettura: «Il Dones – scriveva Ruggiero -, dapprima negò perfino di aver veduto il Volpi, poi davanti alle schiaccianti prove del contrario finì ad ammettere di essersi con lui trovato, ma non volle dire dove questi si trovasse. Anzi, indicò una pista falsa e non ci fu verso di tirargli fuori altro». Fu invece un amico dello stesso Dones a indicare l’Albergo della Grigna che fu messo sotto assedio da una settantina tra carabinieri e appartenenti alla Milizia volontaria».
Continua Alberto Benini: «Nel timore che gli Arditi milanesi potessero tentare a Lecco o a Milano una sortita per liberare il loro capo, Volpi e i suoi compagni, tutti indiziati di favoreggiamento, gli arrestati vennero mandati a Brescia in camion e da lì in ferrovia (via Parma-Sarzana) su vagone cellulare, raggiunsero Roma e il carcere di Regina Coeli. (…) Le parole che ricordo pronunciate da mia nonna Elisabetta Marinelli Resinelli (1903-1986), che raccontava come suo fratello Bernardo (Dino) Marinelli centurione della Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale, le avesse confidato: “Noi li avevamo presi, ma poi ci hanno ordinato di lasciarli scappare”. Queste parole si incrociavano con la testimonianza di Ida Grossi (1916-2006) che ricordava proprio in quei giorni in cui si trovava in villeggiatura a Ballabio Superiore, che sua mamma era stata avvicinata da Amleto Poveromo che conosceva benissimo perché abitante, come la sua famiglia, a Lecco in piazza XX Settembre dove gestiva una macelleria, che le aveva intimato, parlando in dialetto: “Signora, lei non ci ha visti...”.»
In carcere – ci informa Aroldo Benini – Poveromo «si farà confezionare – come del resto i suoi camerati che godono dello stesso trattamento, a spese del Partito fascista – un pigiama guarnito di pelliccia di astrakan. Nella corrispondenza coi suoi colleghi della “Ceka”, che inspiegabilmente riesce a intrattenere scavalcando la direzione del carcare, si firma “Nini”».
Agli arresti seguì un processo farsa. Scrive Canali: «La Corte d’Assise di Chieti (…), con sentenza 24 marzo 1926, assolveva Viola e Malacria per non aver commesso il fatto. Volpi, Dumini e Poveromo venivano condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di reclusione, dei quali 1 anno e 9 mesi all’incirca già scontati in attesa della sentenza. I tre avrebbero dunque dovuto scontare ancora 4 anni e 2 mesi di carcere, ma veniva loro applicato il massimo del condono, cioè quattro anni, di modo che il periodo da trascorrere in carcere veniva ridotto a due mesi». Osserva Aroldo Benini: «La cosa incredibile è che subito dopo l’attentato Zamboni contro Mussolini (31 ottobre 1926) Volpi e Poveromo guidarono le squadre milanesi che devastarono le abitazioni degli antifascisti. Erano stati liberati infatti esattamente due mesi dopo la sentenza di Chieti. Nonostante le apparenze, tutto era perfettamente regolare.»
Liberato - ci informa ancora Aroldo Benini - «Poveromo si dovette adattare a riprendere l’attività di macellaio, che ha in comune col fratello più giovane, Umberto. Risulta specializzato in particolare nel contrabbando e nella frode al fisco. Ne parla infatti, pur senza nominarlo, il “Corriere della sera” del 12 luglio 1935, alla viglia della guerra di Abissinia, protagonista, come “incorreggibile frodatore del dazio”, di un clamoroso episodio quando, inseguito da un’auto velocissima lanciata a oltre 100 km orari dagli agenti delle imposte di consumo a bordo di un’auto non meno veloce, insieme a due colleghi è riuscito a seminare la macchina degli agenti e a sfuggirla, avendo messo tra sé e gli inseguitori, in via Padova, verso Crescenzago, un carro tirato da un cavallo per evitare il quale gli agenti sono finiti con la loro auto nelle acque della Martesana “mentre i contrabbandieri hanno proseguito la loro pazza corsa, dileguandosi in direzione di Bergamo”: (…) sull’auto c’era una grande quantità di carne macellata».
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La richiesta di porto d'armi di Poveromo

Per il fascismo, però, il problema reale di Poveromo era la vanagloria: «Più volte – scrive Canali - s’era lasciato andare nel raccontare in pubblici ritrovi il ruolo da lui svolto nell’omicidio Matteotti. Se veniva interpellato sul fatto del 10 giugno 1924, Poveromo non esitava a “descrivere per filo e per segno (…) come si svolse quel doloroso episodio”. E dal suo racconto, ripetuto in tutti i locali pubblici di Porta Venezia, e accompagnato dalla descrizione doviziosa e imbarazzante di quelle tragiche ore, balzava evidente la volontarietà del crimine. Il regime non poteva perciò tollerare il protrarsi di tale situazione. Subito dopo la conclusione vittoriosa della guerra contro l’Abissinia, Poveromo veniva spedito in Eritrea, dove gli venivano assegnate lucrosissime concessioni per i trasporti e il commercio. Una nota fiduciaria riferiva che per i suoi trasporti era arrivato a possedere circa 200 macchine, ognuna delle quali rendeva dalle 3 alle 4 mila lire mensili. Alcune fotografie lo ritraggono in Africa nelle pose classiche del ricco e soddisfatto colono dedito ai commerci e alla caccia. Anche in Africa, Poveromo non aveva smesso di vantarsi riguardo al suo ruolo nel delitto Matteotti. Tanto che alcuni italiani di ritorno dalla colonia, avevano riferito che a “Decamerè certo Poveromo dice pubblicamente di essere stato lui l’uccisore di Matteotti e di godere per tale sua azione la stima di S.E. il Capo del Governo e di altre autorità di Roma.” Una notizia che aveva allarmato il governo di Roma, che attraverso la Direzione generale di PS fece diffidare “in modo opportuno il connazionale in oggetto, residente a Decamerè”, invitandolo a non propalare ulteriormente voci e notizia inconsulte che lo “renderebbero immeritevole del benevolo interessamento a suo riguardo di alte Personalità”.»
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«Subito dopo la Liberazione – aggiunge Aroldo Benini -, un gruppo di partigiani provvede ad arrestare Poveromo. E’ il 1° maggio 1945 quando egli apre la serie delle confidenze pur negando la sua diretta responsabilità quanto all’assassinio di Matteotti. (…) Condannato all’ergastolo il 4 aprile 1947, insieme a Dumini e a Viola, Poveromo vide presto trasformata la sentenza in una condanna a vent’anni di reclusione. (…) Sarebbe uscito dunque dal carcere nel 1977, quando avesse compiuto 84 anni. (…) Ma egli muore, nel carcere di Parma, il 18 giugno 1953, senza che la stampa locale neppure se ne accorga.» 
Su Wikipedia apprendiamo che Amleto Poveromo è sepolto al Cimitero Maggiore di Milano.
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Dario Cercek
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