SCAFFALE LECCHESE/189: 'i Cavalieri della montagna' di Prada e la 'guida alla lettura' di Benini
Il titolo evoca imprese eroiche e atmosfere epiche: “Cavalieri della montagna”. E tali forse le credevano davvero, gli squadristi del fascismo nascente. Le cui imprese, naturalmente, non furono risparmiate al Lecchese. Ne furono teatro anche le montagne. Sotto forma di sfide escursionistiche da coronare a rivoltellate e manganellate. A raccontarle, proprio da parte fascista, è appunto “I cavalieri della montagna”, romanzo del giornalista milanese Sandro Prada, uscito nel 1933 e recentemente (2021) ripubblicato da una piccola casa editrice milanese dell’area di destra, la Aspis.
Il romanzo racconta le vicende di un gruppo di squadristi milanesi assiduo frequentatore delle Grigne. E l’autore in effetti dimostra un’indubbia conoscenza dei luoghi descritti: dalla sosta del “Fermati, o passegger, e bagna il becco” di Laorca al rifugio Porta «che civettava con la sua elegante linea architettonica e col suo spiazzo a veranda dominante parte della valle» e dal quale i “cavalieri” «s’inoltrarono nel bosco Giulia, e salirono la ripida salita per la cresta Cermenati».
Dal punto vista letterario, il romanzo non è un granché. In certe pagine è più simile a un libello di propaganda. Intento non estraneo probabilmente all’autore che pubblicava il volume in quegli anni Trenta in cui il Fascismo trionfante e saldamente al comando del Paese. pur continuando a mandare i dissidenti in galera e al confino, tendeva anche a fornire di sé stesso una storia più “rassicurante”, quasi edulcorata, cercando di rimuovere il fenomeno dello squadrismo originario. Con evidente malumore di chi a quelle origini si sentiva ancora legato.
Il valore del libro è dal punto di vista documentario: per l’opera in sé che rispecchia il pensiero se non proprio di uno squadrista, quanto meno di un sostenitore dello squadrismo che accompagnò la nascita del Fascismo e per gli episodi raccontati che si richiamano a circostanze reali.
A questo proposito, quale interessantissima guida alla lettura, possiamo contare sullo storico Alberto Benini e il suo “Piccozze rosse e cavalieri neri”, uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista “Archivi di Lecco” (uscito poi in estratto), con un corposo apparato illustrativo. Benini ha infatti analizzato e “verificato” il romanzo con acribia, cercando nei documenti e nei giornali dell’epoca le circostanze raccontate da Prada, oltre a individuare le identità reali dei personaggi del romanzo. Per esempio, il canottiere e rocciatore Erminio Dones e quell’Albino Volpi che fece parte della squadra che uccise Giacomo Matteotti e che trovò rifugio a Ballabio appoggiandosi proprio a Dones.
In realtà, il delitto Matteotti è successivo all’epoca raccontata da “Cavalieri della montagna” che si chiude con la marcia su Roma. Spiega Benini: «La fuga di Volpi sulla Grigna e le circostanze che la determinano risultano dalla contaminazione fra due fatti reali: l’omicidio dell’operaio Giuseppe Inversetti durante l’assalto del Circolo Socialista di Foro Bonaparte (21 marzo 1921) e la fuga (e il conseguente arresto) a Ballabio dopo il delitto Matteotti (giugno 1924) di cui Volpi è uno dei protagonisti, assieme al lecchese Amleto Poveromo».
E proprio la rievocazione della figura di Volpi creò qualche problema a Prada che si vide interrompere la pubblicazione a puntate del romanzo sulla rivista del Cai “Lo scarpone”: «Certamente – osserva Benini – Prada si è spinto troppo oltre nel riportare alla luce circostanze e figure che ormai erano state rimosse già da qualche anno almeno nei limiti del possibile». Lo stesso Prada ne dà conto nell’introduzione: «Era (…) inaspettato il contegno di qualche cane randagio e rognoso, il quale non sapendo con chi pigliarsela per la sua duplice disgrazia d’essere randagio e per anco rognoso, dopo vari tentativi di addentare in tutti i modi alle spalle l’Autore, abbaiò contro la pretesa veridicità degli avvenimenti narrati».
Nato nel 1904 e morto nel 1988, Sandro Prada – scrive Benini – «è personaggio di grande interesse nel variegato mondo degli scrittori di montagna. Fondatore di diversi giornali e autore di parecchi libri, spesso pubblicati da case editrici che lo vedevano nel ruolo di proprietario, passò dalle posizioni apertamente fasciste ad un generico spiritualismo nel quale non manca una componente nostalgica e proto-ecologista. Fu fondatore del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna. (…) Un esame attento della attività di Prada ne evidenzia l’attitudine mistificatrice e mutevole, oltre ad un’indole che indulge sistematicamente in un autoincensamento evidenziato dall’attribuzione di strampalati titoli nobiliari (Duca di Vettafiorita) alla vantata appartenenza ad improbabili accademie pseudo-culturali (per lo più sudamericane), all’uso disinvolto dell’attributo “professore” in luogo del più modesto “ragioniere” all’apposizione del motto “Nemo me impune lacesset” (Nessuno mi aggredisce impunemente, ndr) all’esterno della sua abitazione».
E’ indubbio che Prada si rispecchi nel protagonista del romanzo, Italo Fiamma, un nome che di per sé è un programma: «Si coglie – annota Benini – la contraddizione cronologica del tentativo vagamente autobiografico di prestare al protagonista alcuni dei propri tratti (giornalista, scrittore, autore teatrale) considerato che Prada, nato nel 1904, nel 1919 aveva appena 15 anni, un po’ pochi per il ruolo di condottiero che cercava di attribuirsi. Nondimeno l’autore manifesta una discreta abilità nel recuperare spezzoni di vicende biografiche di vari personaggi reali e cucirle alla bisogna addosso al suo protagonista e ai suoi compagni di fede».
Il romanzo si svolge tra Milano e i nostri monti: l’Alpe del Viceré e il Bollettone, i Piani Resinelli e la Grignetta. E’ centrato sulla lotta tra i “cavalieri della montagna” e un’organizzazione che va sotto il nome di Unione proletaria alpinisti il cui simbolo è una mosca. Altro non è che l’Ape, l’Associazione proletaria escursionisti di cui abbiamo già parlato e i cui esponenti sono descritti da Prada in maniera sprezzante: vigliacchi, provocatori, scostanti, ombrosi, non per caso piantati in asso dalle donne che alla loro compagnia preferiscono quella dei più valorosi e allegri fascisti.
C’è infatti spazio anche per la storia d’amore tormentata e tragica di Arma, in qualche modo “lambita” dall’antifascismo (per via di un’amica che è sorella di un militante comunista) ma innamorata di Italo Fiamma. Il quale non declina, ma che nel contempo va trescando con un’attrice per la quale scrive anche un dramma, spiegando a un amico la propria filosofia di comodo: «Tu lo sai: io amo la donna non le donne. Arma e Luciana sono due amori l’uno diverso dall’altro, ma che si integrano e formano insieme, l’amore che io desidero e cerco».
Storia d’amore dall’esito più melodrammatico che tragico e che funge da esile trama. In realtà al centro dell’attenzione vi sono più le “imprese” dei cavalieri della montagna, gli scontri in altra quota con le “mosche rosse”.
«I luoghi della contesa – scrive Benini – cominciano a definirsi nelle zone (il triangolo lariano, le montagne del lecchese) dove l’escursionismo italiano si è diffuso nella sua fase iniziale grazie alle linee ferroviarie facenti capo a Milano. Ma soprattutto, seppure con una cronologia che non sempre si attiene a quella reale, si viene delineando quel conflitto tra “rossi” e “neri” che segnerà profondamente in un breve giro d’anni la storia del giovane stato italiano in un contesto politico-sociale in costante, rapidissima evoluzione» e che porterà alla vittoria del Fascismo.
Del resto, come spiega lo stesso Prada, «“I cavalieri della montagna” è un libro d’azione, e come tale non può permettersi il lusso di offrire pagine di levigata letteratura o di acrobatismo cerebrale. E’ un romanzo strettamente “nostrano” con personaggi, episodi e paesaggi strappati crudamente al vero e trasformati in vocaboli così alla brava, senza abbellimenti né tentativi magici».
Perché – come Italo Fiamma spiega in un discorso pubblico - «i Cavalieri della montagna hanno al loro attivo più fatti che parole, anche se pubblicano giornali, anche se scrivono commedie. (…) Il nostro movimento (…) è essenzialmente informato alla difesa dello spirito. Noi abbiamo eretto i nostri altari sulle montagne ed ora li difendiamo. E siccome la forza bruta che dobbiamo combattere è la stessa che infesta le contrade della nostra Italia» è necessario non lasciare intaccare le montagne «dalla cancrena antinazionale, perciò il compito dei Cavalieri della montagna è quello di alternare alle battaglie diuturne in città le razzie montane, salutari quanto mai. Elementi degenerati, sovvertitoti ed emissari di una propaganda di indubbia origine, fugati dai centri urbani si rifugiano a cospirare sulle montagne».
Il racconto di Parada segue da una prospettiva milanese gli eventi degli anni del primo dopoguerra sarebbero poi sfociati nel fascismo: San Sepolcro, Fiume, D’Annunzio, le adunate, la marcia su Roma. Si inseriscono in questa grande cornice le sfide sui monti, sfide escursionistiche e poi risse e poi spari, vessilli issati sulle cime dagli uni e rimossi dagli altri. E al lettore sovviene la nota vicenda del grande fascio littorio issato sul Torrione Costanza e rimosso dagli apeini.
Un primo appuntamento è all’Alpe del Viceré: «Fiamma e i compagni (…) si erano mossi quasi di corsa ed erano giunti sotto la torre appena in tempo per gettarsi addosso a un folto gruppo di “Mosche rosse”. (…) E lo scontro era stato fulmineo e deciso. I Cavalieri, piombati come bolidi in mezzo agli escursionisti rossi avevano gettato scompiglio menando botte da orbi. In sei contro trenta. Ed erano riusciti a ricacciare nella boscaglia le “Mosche”, che si precipitavano giù per i fianchi del monte sotto la minaccia delle legnate e delle pietre, che furono rotolate immediatamente sulle loro peste».
Successivamente, con un biglietto inviato a Fiamma le “mosche rosse” lanciarono la sfida in Grignetta. I “cavalieri” raggiunsero i Resinelli non trascurando, strada facendo, di imbrattare con sterco bovino l’insegna di un circolo dei lavoratori: «Quando i primi raggi del sole sprazzarono sul ricamo dolomitico della Grigna Meridionale facendone risaltare i dettagli, i Cavalieri erano già sulle varie vie rocciose per la conquista della bella montagna. (…) Ad un tratto si sentì un pauroso precipitar di sassi. I cavalieri istintivamente si addossarono alla roccia aderendo col corpo nelle anfrattuosità. La scarica era avvenuta in alto ed era passata rapidissima sopra le loro teste con un rimbalzar di pietre rintronanti con l’eco giù per il canalone. (…) In breve raggiunsero la vetta che sembrava deserta: e lì per lì credettero di essere stati preda ad una ridicola ossessione. Senonché, girando lo sguardo attorno, scorsero sopra un macigno una bandiera rossa che garriva al vento. Alcuni si affrettarono verso quella e videro sullo stesso masso un cartello con la scritta: “Guai a chi tocca!” e le tre sigle dell’U. P. A. “Bene!” disse uno e, spiccando un salto, raggiunse la bandiera, ne abbatté l’asta, strappò il drappo e lanciandolo a Fiamma gridò: “Prendi: a te l’onore di darla al fuoco”. Il giovane non aveva finto di parlare, che si udirono echeggiare a breve distanza, tutt’ingiro, numerosi spari e lo si vide cader riverso con un grido mozzato in gola. Le pallottole sibilavano sempre più frequenti. I Cavalieri si gettarono bocconi fra le rocce e, appena intuirono le provenienze dei tiri, risposero al fuoco. Il tranello era riuscito. Erano circondati e ben esposti. (…) “A noi”. [Fiamma] si slanciò verso il punto che gli sembrava più propizio per rompere il cerchio degli aggressori. Il grido fatidico e l’esempio del Capo trascinò tutti i Cavalieri. Si videro allora alcune Mosche Rosse abbandonare le loro posizioni e ritirarsi, ma non abbastanza in fretta per evitare di essere raggiunte. (…) E la Cresta Cermenati vide scendere uomini e sassi ad una velocità inconsueta. Sangue ne fu sparso sulla dolomia lombarda in quel giorno, ma senza funeste conseguenze. E i Cavalieri divallarono vittoriosi, anche se i loro feriti erano più numerosi e più gravi».
Da parte sua, Benini ci segnala alcune cronache giornalistiche. Una delle quali ci racconta che la sera del 31 maggio 1919 «col treno proveniente da Milano, alle ore 20,30 giunsero a Lecco un centinaio di bolscevichi alpinisti con i loro gagliardetti rossi e neri. (…) La serata passò calma. Ieri però alla Grigna dove gli escursionisti si erano recati per pigliar aria fresca per le loro grida sconce si presero una fracassata di legnate da un gruppo di escursionisti antibolscevichi».
Ed è proprio il lavoro di Benini che ci aiuta a comprendere il clima dell’epoca, come la lotta politica non risparmiasse sentieri e cime. Liquidando così il luogo comune di un andare in montagna che affratella.
Il romanzo racconta le vicende di un gruppo di squadristi milanesi assiduo frequentatore delle Grigne. E l’autore in effetti dimostra un’indubbia conoscenza dei luoghi descritti: dalla sosta del “Fermati, o passegger, e bagna il becco” di Laorca al rifugio Porta «che civettava con la sua elegante linea architettonica e col suo spiazzo a veranda dominante parte della valle» e dal quale i “cavalieri” «s’inoltrarono nel bosco Giulia, e salirono la ripida salita per la cresta Cermenati».
Dal punto vista letterario, il romanzo non è un granché. In certe pagine è più simile a un libello di propaganda. Intento non estraneo probabilmente all’autore che pubblicava il volume in quegli anni Trenta in cui il Fascismo trionfante e saldamente al comando del Paese. pur continuando a mandare i dissidenti in galera e al confino, tendeva anche a fornire di sé stesso una storia più “rassicurante”, quasi edulcorata, cercando di rimuovere il fenomeno dello squadrismo originario. Con evidente malumore di chi a quelle origini si sentiva ancora legato.
Il valore del libro è dal punto di vista documentario: per l’opera in sé che rispecchia il pensiero se non proprio di uno squadrista, quanto meno di un sostenitore dello squadrismo che accompagnò la nascita del Fascismo e per gli episodi raccontati che si richiamano a circostanze reali.
A questo proposito, quale interessantissima guida alla lettura, possiamo contare sullo storico Alberto Benini e il suo “Piccozze rosse e cavalieri neri”, uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista “Archivi di Lecco” (uscito poi in estratto), con un corposo apparato illustrativo. Benini ha infatti analizzato e “verificato” il romanzo con acribia, cercando nei documenti e nei giornali dell’epoca le circostanze raccontate da Prada, oltre a individuare le identità reali dei personaggi del romanzo. Per esempio, il canottiere e rocciatore Erminio Dones e quell’Albino Volpi che fece parte della squadra che uccise Giacomo Matteotti e che trovò rifugio a Ballabio appoggiandosi proprio a Dones.
In realtà, il delitto Matteotti è successivo all’epoca raccontata da “Cavalieri della montagna” che si chiude con la marcia su Roma. Spiega Benini: «La fuga di Volpi sulla Grigna e le circostanze che la determinano risultano dalla contaminazione fra due fatti reali: l’omicidio dell’operaio Giuseppe Inversetti durante l’assalto del Circolo Socialista di Foro Bonaparte (21 marzo 1921) e la fuga (e il conseguente arresto) a Ballabio dopo il delitto Matteotti (giugno 1924) di cui Volpi è uno dei protagonisti, assieme al lecchese Amleto Poveromo».
E proprio la rievocazione della figura di Volpi creò qualche problema a Prada che si vide interrompere la pubblicazione a puntate del romanzo sulla rivista del Cai “Lo scarpone”: «Certamente – osserva Benini – Prada si è spinto troppo oltre nel riportare alla luce circostanze e figure che ormai erano state rimosse già da qualche anno almeno nei limiti del possibile». Lo stesso Prada ne dà conto nell’introduzione: «Era (…) inaspettato il contegno di qualche cane randagio e rognoso, il quale non sapendo con chi pigliarsela per la sua duplice disgrazia d’essere randagio e per anco rognoso, dopo vari tentativi di addentare in tutti i modi alle spalle l’Autore, abbaiò contro la pretesa veridicità degli avvenimenti narrati».
Nato nel 1904 e morto nel 1988, Sandro Prada – scrive Benini – «è personaggio di grande interesse nel variegato mondo degli scrittori di montagna. Fondatore di diversi giornali e autore di parecchi libri, spesso pubblicati da case editrici che lo vedevano nel ruolo di proprietario, passò dalle posizioni apertamente fasciste ad un generico spiritualismo nel quale non manca una componente nostalgica e proto-ecologista. Fu fondatore del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna. (…) Un esame attento della attività di Prada ne evidenzia l’attitudine mistificatrice e mutevole, oltre ad un’indole che indulge sistematicamente in un autoincensamento evidenziato dall’attribuzione di strampalati titoli nobiliari (Duca di Vettafiorita) alla vantata appartenenza ad improbabili accademie pseudo-culturali (per lo più sudamericane), all’uso disinvolto dell’attributo “professore” in luogo del più modesto “ragioniere” all’apposizione del motto “Nemo me impune lacesset” (Nessuno mi aggredisce impunemente, ndr) all’esterno della sua abitazione».
E’ indubbio che Prada si rispecchi nel protagonista del romanzo, Italo Fiamma, un nome che di per sé è un programma: «Si coglie – annota Benini – la contraddizione cronologica del tentativo vagamente autobiografico di prestare al protagonista alcuni dei propri tratti (giornalista, scrittore, autore teatrale) considerato che Prada, nato nel 1904, nel 1919 aveva appena 15 anni, un po’ pochi per il ruolo di condottiero che cercava di attribuirsi. Nondimeno l’autore manifesta una discreta abilità nel recuperare spezzoni di vicende biografiche di vari personaggi reali e cucirle alla bisogna addosso al suo protagonista e ai suoi compagni di fede».
Il romanzo si svolge tra Milano e i nostri monti: l’Alpe del Viceré e il Bollettone, i Piani Resinelli e la Grignetta. E’ centrato sulla lotta tra i “cavalieri della montagna” e un’organizzazione che va sotto il nome di Unione proletaria alpinisti il cui simbolo è una mosca. Altro non è che l’Ape, l’Associazione proletaria escursionisti di cui abbiamo già parlato e i cui esponenti sono descritti da Prada in maniera sprezzante: vigliacchi, provocatori, scostanti, ombrosi, non per caso piantati in asso dalle donne che alla loro compagnia preferiscono quella dei più valorosi e allegri fascisti.
C’è infatti spazio anche per la storia d’amore tormentata e tragica di Arma, in qualche modo “lambita” dall’antifascismo (per via di un’amica che è sorella di un militante comunista) ma innamorata di Italo Fiamma. Il quale non declina, ma che nel contempo va trescando con un’attrice per la quale scrive anche un dramma, spiegando a un amico la propria filosofia di comodo: «Tu lo sai: io amo la donna non le donne. Arma e Luciana sono due amori l’uno diverso dall’altro, ma che si integrano e formano insieme, l’amore che io desidero e cerco».
Storia d’amore dall’esito più melodrammatico che tragico e che funge da esile trama. In realtà al centro dell’attenzione vi sono più le “imprese” dei cavalieri della montagna, gli scontri in altra quota con le “mosche rosse”.
«I luoghi della contesa – scrive Benini – cominciano a definirsi nelle zone (il triangolo lariano, le montagne del lecchese) dove l’escursionismo italiano si è diffuso nella sua fase iniziale grazie alle linee ferroviarie facenti capo a Milano. Ma soprattutto, seppure con una cronologia che non sempre si attiene a quella reale, si viene delineando quel conflitto tra “rossi” e “neri” che segnerà profondamente in un breve giro d’anni la storia del giovane stato italiano in un contesto politico-sociale in costante, rapidissima evoluzione» e che porterà alla vittoria del Fascismo.
Del resto, come spiega lo stesso Prada, «“I cavalieri della montagna” è un libro d’azione, e come tale non può permettersi il lusso di offrire pagine di levigata letteratura o di acrobatismo cerebrale. E’ un romanzo strettamente “nostrano” con personaggi, episodi e paesaggi strappati crudamente al vero e trasformati in vocaboli così alla brava, senza abbellimenti né tentativi magici».
Perché – come Italo Fiamma spiega in un discorso pubblico - «i Cavalieri della montagna hanno al loro attivo più fatti che parole, anche se pubblicano giornali, anche se scrivono commedie. (…) Il nostro movimento (…) è essenzialmente informato alla difesa dello spirito. Noi abbiamo eretto i nostri altari sulle montagne ed ora li difendiamo. E siccome la forza bruta che dobbiamo combattere è la stessa che infesta le contrade della nostra Italia» è necessario non lasciare intaccare le montagne «dalla cancrena antinazionale, perciò il compito dei Cavalieri della montagna è quello di alternare alle battaglie diuturne in città le razzie montane, salutari quanto mai. Elementi degenerati, sovvertitoti ed emissari di una propaganda di indubbia origine, fugati dai centri urbani si rifugiano a cospirare sulle montagne».
Il racconto di Parada segue da una prospettiva milanese gli eventi degli anni del primo dopoguerra sarebbero poi sfociati nel fascismo: San Sepolcro, Fiume, D’Annunzio, le adunate, la marcia su Roma. Si inseriscono in questa grande cornice le sfide sui monti, sfide escursionistiche e poi risse e poi spari, vessilli issati sulle cime dagli uni e rimossi dagli altri. E al lettore sovviene la nota vicenda del grande fascio littorio issato sul Torrione Costanza e rimosso dagli apeini.
Un primo appuntamento è all’Alpe del Viceré: «Fiamma e i compagni (…) si erano mossi quasi di corsa ed erano giunti sotto la torre appena in tempo per gettarsi addosso a un folto gruppo di “Mosche rosse”. (…) E lo scontro era stato fulmineo e deciso. I Cavalieri, piombati come bolidi in mezzo agli escursionisti rossi avevano gettato scompiglio menando botte da orbi. In sei contro trenta. Ed erano riusciti a ricacciare nella boscaglia le “Mosche”, che si precipitavano giù per i fianchi del monte sotto la minaccia delle legnate e delle pietre, che furono rotolate immediatamente sulle loro peste».
Successivamente, con un biglietto inviato a Fiamma le “mosche rosse” lanciarono la sfida in Grignetta. I “cavalieri” raggiunsero i Resinelli non trascurando, strada facendo, di imbrattare con sterco bovino l’insegna di un circolo dei lavoratori: «Quando i primi raggi del sole sprazzarono sul ricamo dolomitico della Grigna Meridionale facendone risaltare i dettagli, i Cavalieri erano già sulle varie vie rocciose per la conquista della bella montagna. (…) Ad un tratto si sentì un pauroso precipitar di sassi. I cavalieri istintivamente si addossarono alla roccia aderendo col corpo nelle anfrattuosità. La scarica era avvenuta in alto ed era passata rapidissima sopra le loro teste con un rimbalzar di pietre rintronanti con l’eco giù per il canalone. (…) In breve raggiunsero la vetta che sembrava deserta: e lì per lì credettero di essere stati preda ad una ridicola ossessione. Senonché, girando lo sguardo attorno, scorsero sopra un macigno una bandiera rossa che garriva al vento. Alcuni si affrettarono verso quella e videro sullo stesso masso un cartello con la scritta: “Guai a chi tocca!” e le tre sigle dell’U. P. A. “Bene!” disse uno e, spiccando un salto, raggiunse la bandiera, ne abbatté l’asta, strappò il drappo e lanciandolo a Fiamma gridò: “Prendi: a te l’onore di darla al fuoco”. Il giovane non aveva finto di parlare, che si udirono echeggiare a breve distanza, tutt’ingiro, numerosi spari e lo si vide cader riverso con un grido mozzato in gola. Le pallottole sibilavano sempre più frequenti. I Cavalieri si gettarono bocconi fra le rocce e, appena intuirono le provenienze dei tiri, risposero al fuoco. Il tranello era riuscito. Erano circondati e ben esposti. (…) “A noi”. [Fiamma] si slanciò verso il punto che gli sembrava più propizio per rompere il cerchio degli aggressori. Il grido fatidico e l’esempio del Capo trascinò tutti i Cavalieri. Si videro allora alcune Mosche Rosse abbandonare le loro posizioni e ritirarsi, ma non abbastanza in fretta per evitare di essere raggiunte. (…) E la Cresta Cermenati vide scendere uomini e sassi ad una velocità inconsueta. Sangue ne fu sparso sulla dolomia lombarda in quel giorno, ma senza funeste conseguenze. E i Cavalieri divallarono vittoriosi, anche se i loro feriti erano più numerosi e più gravi».
Da parte sua, Benini ci segnala alcune cronache giornalistiche. Una delle quali ci racconta che la sera del 31 maggio 1919 «col treno proveniente da Milano, alle ore 20,30 giunsero a Lecco un centinaio di bolscevichi alpinisti con i loro gagliardetti rossi e neri. (…) La serata passò calma. Ieri però alla Grigna dove gli escursionisti si erano recati per pigliar aria fresca per le loro grida sconce si presero una fracassata di legnate da un gruppo di escursionisti antibolscevichi».
Ed è proprio il lavoro di Benini che ci aiuta a comprendere il clima dell’epoca, come la lotta politica non risparmiasse sentieri e cime. Liquidando così il luogo comune di un andare in montagna che affratella.
Dario Cercek