SCAFFALE LECCHESE/194: i libri-strenna milanesi dedicati ai paesaggi lombardi
Lecco, una città «brutta e ricca, venuta su come tutti gli organismi prepotenti di giovinezza, seguendo più l'istinto che un piano organico». Così, nel 1934, scriveva il milanese Alex Visconti. Segno che già allora il paesaggio della conca lecchese doveva apparire in qualche modo compromesso. Nonostante il Resegone, gli altri monti e una certa “sensazione d’intimità”. Alex Visconti, nato nel 1884 e morto nel 1955, sarebbe il professor Alessandro Visconti, giurista, docente universitario di storia del diritto ma anche cultore di storia locale milanese: proprio con il diminutivo Alex firmava le collaborazioni giornalistiche e gli studi su temi “meneghini”.
Tra le altre opere, negli anni Trenta fu autore di alcune strenne natalizie dedicate al paesaggio lombardo e pubblicate a scopo benefico a favore dell’ospedale “Gaetano Pini”, un’autentica istituzione per i milanesi e che in questo 2024 celebra i 150 anni: fu infatti nel 1874 che Gaetano Pini aprì un asilo che divenne scuola e poi ancora istituto per rachitici, parola pressoché scomparsa essendo fortunatamente scomparsa la malattia un tempo diffusissima tra le classi popolari per condizioni di igiene e malnutrizione. E così l’istituto divenne nel secondo dopoguerra centro ortopedico e quindi presidio ospedaliero. A collaborare con Visconti nella confezione di quelle strenne c’era il pittore Giannino Grossi, nato nel 1889 e morto nel 1969, anch’egli milanese ma ben ricordato a Varenna dove viene considerato un figlio adottivo. Pittore di un certo talento, soggiornava spesso nella località lariana fatta naturalmente oggetto di molte sue vedute. Dopo la morte, Varenna lo ha ricordato per quarant’anni dedicandogli la mostra internazionale di pittura naif nata nel 1971 proprio in sua memoria. Dall 2011, la rassegna è intitolata a Pierantonio Cavalli che in quei quarant’anni ne fu instancabile organizzatore.
La prima delle strenne “lombarde” di Visconti e Grossi uscì nel 1931 ed era dedicata alla Brianza. Dobbiamo pensare a una calorosa accoglienza, tanto appunto da inaugurare una vera e propria collana in origine forse non prevista: appunto “Paesaggi lombardi”, con escursioni tra Adda e Po, tra laghi e valli. E se il primo volume racconta della Brianza, il quarto, uscito nel 1934, ci accompagna “dal Resegone allo Stelvio” e quindi da Lecco alla Valtellina. Stampati dalle milanesi Arti Grafiche Bertarelli, i volumi presentano i testi di Visconti come “itinerari sentimentali” e le illustrazioni di Grossi come “impressioni pittoriche”. Non si tratta infatti di saggi storici veri o di guide alla visita di un territorio, bensì di un racconto che unisce nozioni ed emozioni, proprio al pari di quei libri strenna illustrati che nella seconda metà del secolo avrebbero avuto una vera e propria esplosione. Va peraltro detto che il patrimonio culturale su cui poggia il racconto di Visconti è sostanzialmente ancora quello degli scrittori ottocenteschi. In mezzo secolo, poco era cambiato.
A proposito di Brianza, meglio sarebbe, si sa, parlare di Brianze, delle diverse aree geografiche che nel corso del tempo si sono fuse l’una nell’altra arrivando a un’estensione quasi indefinita: «Ma dov’era mai questa Brianza dai confini così elastici e vaghi da abbracciar quasi mezza la Lombardia del nord? Quei di Musocco e di Niguarda si riputavan già brianzoli in confronto di quei di Vigentino e di Gratosoglio affogati nelle paludi della “bassa”». Di Brianza, dunque, ce n’è più d’una. Ma non solo geograficamente. Anche dal punto di vista “sentimentale”: c’è la Brianza dei milanesi e quella dei brianzoli.Andando indietro nel tempo, la Brianza era una regione limitata «ai colli che da Montevecchia vanno progredendo in ampiezza e altitudine verso nord fino ad Oggiono. (…) come mai è avvenuto, buon Dio, che la Brianza sia invece diventata nei secoli successivi tanto vasta da estendersi fino al Seveso a occidente, fino ad Asso a nord e a Monza – quasi – a sud? Un po’ c’entra la politica e un po’ la smania della villeggiatura». La politica perché nel Cinquecento il Vicariato della Brianza inglobò quello della Martesana per cui il nome «più giovane e più audace di Brianza a poco a poco soppiantò il più vecchio. E così si fece tutta Brianza delle pievi di Vimercate, Pontirolo, Gorgonzola, Corneliano, Brivio, Missaglia, Oggiono, Garlate, Agliate, Mariano, Seveso e Desio». La villeggiatura, invece, perché quando questa «divenne una moda e si gareggiò nel lusso delle ville, allora tutta l’alta campagna milanese, a partire da Cormano, Bruzzano, Crescenzago e Cernusco sul Naviglio, fu Brianza».
Sull’epoca della villeggiatura, Visconti si sofferma a lungo, cantandone malinconicamente il tramonto. Negli anni Trenta, era ormai in declino e molte dimore di prestigio finivano con il restare chiuse tutto l’anno. Lo scrittore ricorda come in passato le grandi sagre popolari, come quelle della Madonna del Bosco o della Madonna di Imbevera, fossero frequentate anche dai signori: «essi amavan mescolarsi con la folla contadina in una pittoresca confusione». Nell’Ottocento, ne aveva pure scritto Cesare Cantù in un «racconto romanzesco abbastanza complicato di avvenimenti» che è una delle novelle lombarde di cui ci siamo occupati tempo addietro
Ma era – annota Visconti - «cent’anni fa: ora è il silenzio e la quiete; e anche alla sagra i gran signori non si trovan più; sono lontani dalla Lombardia; sono lassù fra le Dolomiti nei grandi alberghi e ballano al suono di ritmi nuovi e inusitati. Il mondo diventa sempre più piccolo. (…) Dovunque ville, ampi giardini chiusi da solenni cancellate. Ma perché un’aria triste di abbandono? (…) La gioconda vita della villeggiatura si è spenta e un’onda di oblio quasi un’immatura vecchiezza grava su queste ville chiuse. Torneranno quei tempi? Forse sì, quando un giorno l’uomo comprenderà l’infinita vanità di certe modernissime villeggiature “à la page”. (…) Apriamo le ville: vogliamo vedere ancora i magnifici signori riempir le sale di ospiti: vogliamo ancora udire il grave erudito dissertar fra l’archeologo, lo storico e il filosofo sulle origini e sul divenir dell’umanità».
Dulcis in fundo (e non commentiamo), «vogliam veder le signore smetter quell’aria mascolina, che è una maschera imposta loro da una moda perversa e riprender la loro squisita funzione di impeccabili padrone di casa….».
E ancora: «Le strade risuonano di festosi tintinii di sonagliere – è il quadretto forse un po’ melenso offertoci dallo scrittore -: sono le carrozze signorili che passano recando liete comitive in visita da una villa all’altra. Le villanelle cantano canzoni antiche; ma già si delinea la fine di quest’angolo di paradiso lombardo. Schiere d’operai costruiscono una nuova strada, mai prima veduta da queste parti e stendono pesanti regoli di ferro. La fine dei velociferi e delle “Milleposte” è decretata; una locomotiva fischia allegra tra il verde. Da Monza a Lecco è un volo; e più in su ancora lungo il lago (…) il treno fragoroso corre verso le belle Alpi di Valtellina. E gli uomini ansiosi di cose nuove s’affrettano verso i monti. Sulla Brianza scende un velo d’oblio. Qua e là le ville restano chiuse tutto l’anno; o si aprono per troppo breve stagione; non più nitrir di cavalli, ma rombar di motori a segnare una nuova sensibilità, una nuova arte, un nuovo gusto».
Fu alla seconda metà dell’Ottocento che arrivò la ferrovia e «la fase sentimentale della Brianza si trovava ad una svolta: incominciava a far capolino l’industria, il segreto del benessere di questa plaga».
Che dire, inoltre del dialetto parlato? «Ancora genuino come è ancora semplice la vita» perché «si sa, un’altra cosa è la città indemoniata piena di peccatucci, i suoi abitanti devono essere diavoli incarnati per poter resistere a tante seduzioni senza crepare. (…) E’ certo che è una gran vitaccia, a vederli, in confronto ai cittadini, sembran nonni a quarant’anni, mah! Che volete: la vanga e il badile non duri».
E dal dialetto alle usanze, ai canti, alle leggende. Come quella arcinota di Adelchi e San Pietro al Monte sopra Civate: «Bella la leggenda – la chiosa -: ma gli avanzi di questi edifici medievali ancora oggi impongono ammirazione e rispetto vedendoli così a mezza costa sull’irto dorso del monte selvaggio. Una gita lassù val la pena di farla. E’ tutto un mondo antico, lontano infinitamente da noi, che si schiude. (…) Pochi conoscono Civate: meglio così. Quel giorno in cui invece dell’antica mulattiera avremo una bella strada per automobili, l’incanto sarà rotto».
«E poi Cassiciaco – si legge ancora -: questo paese merita un trattamento a parte perché dimostra come la Brianza fosse luogo di villeggiatura anche al tempo di Roma e poi perché vi fu ospite S. Agostino. C’è però un guaio serio su cui convien subito fermarsi ed è che gli storici, i geografi, i biografi non son ben sicuri dove diavolo sia stato questo Cassiciaco; nel cui territorio l’agiato Verecondo possedeva la sua villa». La questione tra Cassago nel Lecchese e Casciago nel Varesotto non è ancora risolta oggi, «però per la Brianza vi sono molte e serie ipotesi favorevoli. E noi amiamo pensare che il professore delle scuole superiori di Milano, Agostino, trovasse Iddio e la pace della sua grande anima, nella dolce serenità dei colli brianzoli in faccia alle Prealpi serene fra il sorriso della natura eternamente festosa».
Lasciata la Brianza alle spalle, come detto, il quarto volume ci conduce invece da Lecco al Passo dello Stelvio. Tanta parte è comunque riservata alla Valtellina. Dell’ottantina di pagine, infatti, sono una quindicina è dedicata al tratto lecchese che è poi la sponda orientale del lago. Con inevitabili richiami manzoniani. La partenza è appunto da Lecco, «un gran borgo al giorno d'oggi che si incammina a diventar città”» città che sappiamo già come la veda Visconti: brutta e ricca, cresciuta disordinatamente, «col suo vecchio nucleo attorno al lago ancora pittoresco; coi bassi portici della fine del settecento e il resto d'una torre castellana dove stavano quei soldati spagnoli “che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese...”. Ma prima eran sforzeschi e viscontei, gente della medesima risma; e lasciamoli al loro posto quei soldati d'una volta, che ci interessano assai poco».
Dal ponte visconteo, si vede il Resegone che «nella sua maestà brianzolesca s'inaureola d'oro ai raggi del sole», una montagna dalla larga rinomanza quando la si poteva vedere fin da Milano, «ma oggi chi mai può discernerlo fra la babele di case alte che divorano i bei campi milanesi fino a Greco, fino a Sesto e più in là?». E poi il monte Barro che difende la Brianza e il Moregallo che strapiomba: «Quanta intimità in questo paesaggio petit burgeois che par di quegli oggetti relegati in soffitta dopo che gli eredi dei nonni rinnovano la casa per metterla all'onor del mondo!».Da Lecco si percorre verso la Valtellina la strada «superba e liscia come una pista» costruita tra il 1821 e il 1824 dagli austriaci per potervi «far passare in fretta e furia gli eserciti. La vecchia mulattiera correva più in alto e non era comoda. Anche i lanzichenecchi preferirono deviare in Valsassina da Bellano, piuttosto che cacciarsi tra le rupi impervie che dividono Mandello da Lecco: tanto più che prima di Abbadia un vecchio castello medievale tagliava il passaggio e poteva dar da fare alle genti d'arme che non potevano giovarsi delle artiglierie. Quel castello fu fatto saltare per aprir la strada militare; ed oggi se ne vede un resto di torre squarciata, ma ancor salda. Gli automobilisti vi passano accanto e non se ne accorgono neppure!». Incuranti del paesaggio e dei quadri e delle foto che lo hanno immortalati: «Non si dice più che bel quadro bensì che bella strada quella del lago, piena di curve e di imprevisti; però ho tenuto una media di settanta. E la gente si congratula».
Le tappe lungo la costiera sono Mandello, Lierna, Varenna e il Fiumelatte, Esino «dove un tempo si arrivava per mulattiera e “oggi è una rinomata stazione climatica con automobili, grammofoni, radio e danze», Regoledo con il suo stabilimento ternale («Per la brevità del tempo che da Milano s'impiega a giungere a Regoledo, questi bagni meritansi ormai il titolo di Caffè di Lombardia: titolo giustificato anche dal continuo andarvi e ritornare nell'istesso giorno». E proseguendo, naturalmente quella meraviglia della natura che è l’Orrido di Bellano, poi Corenno, l’abbazia di Piona e, infine, «la tristezza del Pian di Spagna! Ne abbiamo viste tante di pianure l'anno passato, pingui, ridenti, 'plantureuses' si direbbe con un aggettivo che in questo momento non so tradurre: questa è desolata, disperata anzi come un Antinferno. Ah, ma la Valtellina che s'apre pochi chilometri più in su non è l'Inferno».
Per parte nostra ci fermiamo qui, al Pian di Spagna.
Tra le altre opere, negli anni Trenta fu autore di alcune strenne natalizie dedicate al paesaggio lombardo e pubblicate a scopo benefico a favore dell’ospedale “Gaetano Pini”, un’autentica istituzione per i milanesi e che in questo 2024 celebra i 150 anni: fu infatti nel 1874 che Gaetano Pini aprì un asilo che divenne scuola e poi ancora istituto per rachitici, parola pressoché scomparsa essendo fortunatamente scomparsa la malattia un tempo diffusissima tra le classi popolari per condizioni di igiene e malnutrizione. E così l’istituto divenne nel secondo dopoguerra centro ortopedico e quindi presidio ospedaliero. A collaborare con Visconti nella confezione di quelle strenne c’era il pittore Giannino Grossi, nato nel 1889 e morto nel 1969, anch’egli milanese ma ben ricordato a Varenna dove viene considerato un figlio adottivo. Pittore di un certo talento, soggiornava spesso nella località lariana fatta naturalmente oggetto di molte sue vedute. Dopo la morte, Varenna lo ha ricordato per quarant’anni dedicandogli la mostra internazionale di pittura naif nata nel 1971 proprio in sua memoria. Dall 2011, la rassegna è intitolata a Pierantonio Cavalli che in quei quarant’anni ne fu instancabile organizzatore.
La prima delle strenne “lombarde” di Visconti e Grossi uscì nel 1931 ed era dedicata alla Brianza. Dobbiamo pensare a una calorosa accoglienza, tanto appunto da inaugurare una vera e propria collana in origine forse non prevista: appunto “Paesaggi lombardi”, con escursioni tra Adda e Po, tra laghi e valli. E se il primo volume racconta della Brianza, il quarto, uscito nel 1934, ci accompagna “dal Resegone allo Stelvio” e quindi da Lecco alla Valtellina. Stampati dalle milanesi Arti Grafiche Bertarelli, i volumi presentano i testi di Visconti come “itinerari sentimentali” e le illustrazioni di Grossi come “impressioni pittoriche”. Non si tratta infatti di saggi storici veri o di guide alla visita di un territorio, bensì di un racconto che unisce nozioni ed emozioni, proprio al pari di quei libri strenna illustrati che nella seconda metà del secolo avrebbero avuto una vera e propria esplosione. Va peraltro detto che il patrimonio culturale su cui poggia il racconto di Visconti è sostanzialmente ancora quello degli scrittori ottocenteschi. In mezzo secolo, poco era cambiato.
A proposito di Brianza, meglio sarebbe, si sa, parlare di Brianze, delle diverse aree geografiche che nel corso del tempo si sono fuse l’una nell’altra arrivando a un’estensione quasi indefinita: «Ma dov’era mai questa Brianza dai confini così elastici e vaghi da abbracciar quasi mezza la Lombardia del nord? Quei di Musocco e di Niguarda si riputavan già brianzoli in confronto di quei di Vigentino e di Gratosoglio affogati nelle paludi della “bassa”». Di Brianza, dunque, ce n’è più d’una. Ma non solo geograficamente. Anche dal punto di vista “sentimentale”: c’è la Brianza dei milanesi e quella dei brianzoli.Andando indietro nel tempo, la Brianza era una regione limitata «ai colli che da Montevecchia vanno progredendo in ampiezza e altitudine verso nord fino ad Oggiono. (…) come mai è avvenuto, buon Dio, che la Brianza sia invece diventata nei secoli successivi tanto vasta da estendersi fino al Seveso a occidente, fino ad Asso a nord e a Monza – quasi – a sud? Un po’ c’entra la politica e un po’ la smania della villeggiatura». La politica perché nel Cinquecento il Vicariato della Brianza inglobò quello della Martesana per cui il nome «più giovane e più audace di Brianza a poco a poco soppiantò il più vecchio. E così si fece tutta Brianza delle pievi di Vimercate, Pontirolo, Gorgonzola, Corneliano, Brivio, Missaglia, Oggiono, Garlate, Agliate, Mariano, Seveso e Desio». La villeggiatura, invece, perché quando questa «divenne una moda e si gareggiò nel lusso delle ville, allora tutta l’alta campagna milanese, a partire da Cormano, Bruzzano, Crescenzago e Cernusco sul Naviglio, fu Brianza».
Sull’epoca della villeggiatura, Visconti si sofferma a lungo, cantandone malinconicamente il tramonto. Negli anni Trenta, era ormai in declino e molte dimore di prestigio finivano con il restare chiuse tutto l’anno. Lo scrittore ricorda come in passato le grandi sagre popolari, come quelle della Madonna del Bosco o della Madonna di Imbevera, fossero frequentate anche dai signori: «essi amavan mescolarsi con la folla contadina in una pittoresca confusione». Nell’Ottocento, ne aveva pure scritto Cesare Cantù in un «racconto romanzesco abbastanza complicato di avvenimenti» che è una delle novelle lombarde di cui ci siamo occupati tempo addietro
Ma era – annota Visconti - «cent’anni fa: ora è il silenzio e la quiete; e anche alla sagra i gran signori non si trovan più; sono lontani dalla Lombardia; sono lassù fra le Dolomiti nei grandi alberghi e ballano al suono di ritmi nuovi e inusitati. Il mondo diventa sempre più piccolo. (…) Dovunque ville, ampi giardini chiusi da solenni cancellate. Ma perché un’aria triste di abbandono? (…) La gioconda vita della villeggiatura si è spenta e un’onda di oblio quasi un’immatura vecchiezza grava su queste ville chiuse. Torneranno quei tempi? Forse sì, quando un giorno l’uomo comprenderà l’infinita vanità di certe modernissime villeggiature “à la page”. (…) Apriamo le ville: vogliamo vedere ancora i magnifici signori riempir le sale di ospiti: vogliamo ancora udire il grave erudito dissertar fra l’archeologo, lo storico e il filosofo sulle origini e sul divenir dell’umanità».
Dulcis in fundo (e non commentiamo), «vogliam veder le signore smetter quell’aria mascolina, che è una maschera imposta loro da una moda perversa e riprender la loro squisita funzione di impeccabili padrone di casa….».
E ancora: «Le strade risuonano di festosi tintinii di sonagliere – è il quadretto forse un po’ melenso offertoci dallo scrittore -: sono le carrozze signorili che passano recando liete comitive in visita da una villa all’altra. Le villanelle cantano canzoni antiche; ma già si delinea la fine di quest’angolo di paradiso lombardo. Schiere d’operai costruiscono una nuova strada, mai prima veduta da queste parti e stendono pesanti regoli di ferro. La fine dei velociferi e delle “Milleposte” è decretata; una locomotiva fischia allegra tra il verde. Da Monza a Lecco è un volo; e più in su ancora lungo il lago (…) il treno fragoroso corre verso le belle Alpi di Valtellina. E gli uomini ansiosi di cose nuove s’affrettano verso i monti. Sulla Brianza scende un velo d’oblio. Qua e là le ville restano chiuse tutto l’anno; o si aprono per troppo breve stagione; non più nitrir di cavalli, ma rombar di motori a segnare una nuova sensibilità, una nuova arte, un nuovo gusto».
Fu alla seconda metà dell’Ottocento che arrivò la ferrovia e «la fase sentimentale della Brianza si trovava ad una svolta: incominciava a far capolino l’industria, il segreto del benessere di questa plaga».
Che dire, inoltre del dialetto parlato? «Ancora genuino come è ancora semplice la vita» perché «si sa, un’altra cosa è la città indemoniata piena di peccatucci, i suoi abitanti devono essere diavoli incarnati per poter resistere a tante seduzioni senza crepare. (…) E’ certo che è una gran vitaccia, a vederli, in confronto ai cittadini, sembran nonni a quarant’anni, mah! Che volete: la vanga e il badile non duri».
E dal dialetto alle usanze, ai canti, alle leggende. Come quella arcinota di Adelchi e San Pietro al Monte sopra Civate: «Bella la leggenda – la chiosa -: ma gli avanzi di questi edifici medievali ancora oggi impongono ammirazione e rispetto vedendoli così a mezza costa sull’irto dorso del monte selvaggio. Una gita lassù val la pena di farla. E’ tutto un mondo antico, lontano infinitamente da noi, che si schiude. (…) Pochi conoscono Civate: meglio così. Quel giorno in cui invece dell’antica mulattiera avremo una bella strada per automobili, l’incanto sarà rotto».
«E poi Cassiciaco – si legge ancora -: questo paese merita un trattamento a parte perché dimostra come la Brianza fosse luogo di villeggiatura anche al tempo di Roma e poi perché vi fu ospite S. Agostino. C’è però un guaio serio su cui convien subito fermarsi ed è che gli storici, i geografi, i biografi non son ben sicuri dove diavolo sia stato questo Cassiciaco; nel cui territorio l’agiato Verecondo possedeva la sua villa». La questione tra Cassago nel Lecchese e Casciago nel Varesotto non è ancora risolta oggi, «però per la Brianza vi sono molte e serie ipotesi favorevoli. E noi amiamo pensare che il professore delle scuole superiori di Milano, Agostino, trovasse Iddio e la pace della sua grande anima, nella dolce serenità dei colli brianzoli in faccia alle Prealpi serene fra il sorriso della natura eternamente festosa».
Lasciata la Brianza alle spalle, come detto, il quarto volume ci conduce invece da Lecco al Passo dello Stelvio. Tanta parte è comunque riservata alla Valtellina. Dell’ottantina di pagine, infatti, sono una quindicina è dedicata al tratto lecchese che è poi la sponda orientale del lago. Con inevitabili richiami manzoniani. La partenza è appunto da Lecco, «un gran borgo al giorno d'oggi che si incammina a diventar città”» città che sappiamo già come la veda Visconti: brutta e ricca, cresciuta disordinatamente, «col suo vecchio nucleo attorno al lago ancora pittoresco; coi bassi portici della fine del settecento e il resto d'una torre castellana dove stavano quei soldati spagnoli “che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese...”. Ma prima eran sforzeschi e viscontei, gente della medesima risma; e lasciamoli al loro posto quei soldati d'una volta, che ci interessano assai poco».
Dal ponte visconteo, si vede il Resegone che «nella sua maestà brianzolesca s'inaureola d'oro ai raggi del sole», una montagna dalla larga rinomanza quando la si poteva vedere fin da Milano, «ma oggi chi mai può discernerlo fra la babele di case alte che divorano i bei campi milanesi fino a Greco, fino a Sesto e più in là?». E poi il monte Barro che difende la Brianza e il Moregallo che strapiomba: «Quanta intimità in questo paesaggio petit burgeois che par di quegli oggetti relegati in soffitta dopo che gli eredi dei nonni rinnovano la casa per metterla all'onor del mondo!».Da Lecco si percorre verso la Valtellina la strada «superba e liscia come una pista» costruita tra il 1821 e il 1824 dagli austriaci per potervi «far passare in fretta e furia gli eserciti. La vecchia mulattiera correva più in alto e non era comoda. Anche i lanzichenecchi preferirono deviare in Valsassina da Bellano, piuttosto che cacciarsi tra le rupi impervie che dividono Mandello da Lecco: tanto più che prima di Abbadia un vecchio castello medievale tagliava il passaggio e poteva dar da fare alle genti d'arme che non potevano giovarsi delle artiglierie. Quel castello fu fatto saltare per aprir la strada militare; ed oggi se ne vede un resto di torre squarciata, ma ancor salda. Gli automobilisti vi passano accanto e non se ne accorgono neppure!». Incuranti del paesaggio e dei quadri e delle foto che lo hanno immortalati: «Non si dice più che bel quadro bensì che bella strada quella del lago, piena di curve e di imprevisti; però ho tenuto una media di settanta. E la gente si congratula».
Le tappe lungo la costiera sono Mandello, Lierna, Varenna e il Fiumelatte, Esino «dove un tempo si arrivava per mulattiera e “oggi è una rinomata stazione climatica con automobili, grammofoni, radio e danze», Regoledo con il suo stabilimento ternale («Per la brevità del tempo che da Milano s'impiega a giungere a Regoledo, questi bagni meritansi ormai il titolo di Caffè di Lombardia: titolo giustificato anche dal continuo andarvi e ritornare nell'istesso giorno». E proseguendo, naturalmente quella meraviglia della natura che è l’Orrido di Bellano, poi Corenno, l’abbazia di Piona e, infine, «la tristezza del Pian di Spagna! Ne abbiamo viste tante di pianure l'anno passato, pingui, ridenti, 'plantureuses' si direbbe con un aggettivo che in questo momento non so tradurre: questa è desolata, disperata anzi come un Antinferno. Ah, ma la Valtellina che s'apre pochi chilometri più in su non è l'Inferno».
Per parte nostra ci fermiamo qui, al Pian di Spagna.
Dario Cercek