SCAFFALE LECCHESE/181: la storia dell'APE nel libro 'Sentieri proletari'

Oggi si può anche scherzare su un calice di troppo o su certe epiche ciucche da rifugio alpino. Un secolo fa, il tema era un po’ più delicato. Non che l’alcolismo non sia più un problema, ma allora era un’autentica piaga sociale. Associazioni filantropiche e società di temperanza si moltiplicavano. Per ragioni più che evidenti, la lotta all’alcolismo impegnava anche le organizzazioni socialiste. Non appare dunque strano che un gruppo escursionistico scegliesse di chiamarsi Associazione antialcolica proletari escursionisti con lo scopo tra gli altri di «organizzare gite sociali a portata di tasche proletarie: escursioni preferibilmente di un giorno, pranzo al sacco, omnibus o bicicletta per gli spostamenti, spesa collettiva (ovviamente niente alcool, su questo punto non erano previste eccezioni)».
Inizialmente erano stati i ceti aristocratici e borghesi a vedere la montagna con occhi diversi rispetto al passato. Con l’avanzare del Novecento, anche le classi popolari scoprivano a poco a poco il “tempo libero”, le attività sportive, il camminare per diletto, l’arrampicare. Pur con non pochi sospetti e forti resistenze, dibattiti e polemiche, l’associazionismo di inizio secolo allargava i propri orizzonti. Non soltanto la cultura, dunque, per elevare le classi popolari: proprio di quei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento fiorivano le iniziative per alfabetizzare e acculturare anche gli strati inferiori, per diffondere le biblioteche popolari. Allontanando gli uomini dalle osterie e dell’abbruttimento alcolico: «Più libri, meno litri» era lo slogan di una campagna lanciata dal Bollettino delle biblioteche popolari. 
Risale a quell’epoca la nascita di un’associazione che, per una serie di circostanze, ha una fortissima tradizione nel nostro territorio. Ed è appunto l’Associazione antialcolica proletari escursionisti. Che avrebbe scelto sin dall’inizio l’ape quale simbolo. Per poi perdere, con il mutare dei tempi, l’accezione di antialcolica. 
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Nel riquadro l'autore Alberto Di Monte

A raccontarci le vicende dell’associazione tra epopea e più prosaici momenti c’è il libro “Sentieri proletari. Storia dell’Associazione Proletari Escursionisti”. pubblicato da Mursia nel 2015, quando l’attività dell’associazione, dopo qualche anno di stanca, stava ricevendo un nuovo impulso da parte di alcuni giovani che ne riscoprivano la storia ma anche gli addentellati politici. L’autore è Alberto Di Monte che nella quarta di copertina viene presentato come un geografo e webmaster vimercatese ed «appassionato escursionista». E siamo, più o meno, cent’anni dopo i primi passi del sodalizio costituito ufficialmente nel 1919.
Scrive Di Monte: «Le prime esperienze autonome (…) videro la luce nella città di Torino, a partire dal 1916. In quegli anni “L’Ordine Nuovo” diretto da Antonio Gramsci si distingueva, nel coro unico della sinistra antisportiva e paludata, con relazioni di gite e un’apertura non comune al tema della cura di sé nelle ore di svago. Specialmente in provincia le organizzazioni sportive esistenti non corrispondono alle nuove aspirazioni dei ceti popolari e qui lo scontento si fece presto mormorio e il mormorio iniziativa».
In verità, l’escursionismo operaio aveva già una bella tradizione. Se l’Uoei – appunto Unione operaia escursionisti italiani – aveva fatto la sua comparsa nel 1911, i lecchesi si appoggiavano fin dal 1883 alla Società alpina operaia intitolata ad Antonio Stoppani
L’Ape, rispetto alle associazioni preesistenti, aveva però una più marcata connotazione politica, un impegno “militante”. Fu costituita il 7 novembre 1919, periodo del tutto particolare per la storia italiana: la prima guerra mondiale era finita da un anno, ma gli strascichi drammatici si facevano ancora sentire; eravamo nel pieno del cosiddetto biennio rosso con l’occupazione delle fabbriche e le rivendicazioni non solo salariali dei lavoratori; la manodopera operaia si consolidava, in parte aumentava il proprio benessere rispetto ai contadini, ma soprattutto andava conquistando peso sociale. Era l’origine di quella che poi sarebbe stata definita la società di massa. E prendeva corpo il movimento fascista.
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«Le sezioni dell’Ape e di altre nascenti organizzazioni – ci racconta Di Monte - erano così spesso ospitate dalle camere del lavoro, dalle cooperative e dai circoli. Dentro si potevano trovare socialisti massimalisti e riformisti, anarchici e, di lì a poco, comunisti. L’alcool, ingrediente base di ogni bevanda consumata nelle osterie nei giorni di riposo, era stigmatizzato come il peggiore dei mali del tempo». 
Eppure lo sport di massa era comunque guardato con una certa diffidenza: il liberale Benedetto Croce e il socialista Filippo Turati «tuonavano contro la decadenza morale dell’attività motoria, perché considerata espressione di disimpegno materiale, edonismo ed eroismo di stampo nazionalista».
Ma l’Ape crebbe e mise radici: si arrivò all’apertura di 26 sezioni distribuite un po’ in tutta Italia. Anche a Napoli, dove l’attività venne inaugurata con una gita a Sorrento e Capri con orchestrina al seguito. Nel 1921, il primo congresso nazionale.
Si moltiplicarono le iniziative, i momenti di ritrovo e di svago, le gare. Nel 1923, per esempio, venne organizzata la “cicloalpina”: da Mariano Comense a Lecco in bicicletta e poi escursione a piedi al rifugio Rosalba. Nonostante la rivista sociale ammonisse «a non sovraccaricare operai e famiglie con gite fisicamente troppo impegnative». Se l’escursionismo restò centrale, vennero comunque promosse anche attività complementari: la sezione lecchese per esempio decise di dotarsi di una fanfara. 
Venne poi l’alpinismo vero e proprio. La prima ascensione fu nella zona della Grignetta con la salita di quell’affascinante sperone di roccia nei pressi del Torrione Costanza che ancora oggi porta il nome di Punta Giulia in memoria della giovane alpinista apeina Giulia Resta Riva.
E prese forma l’ipotesi di costruire un rifugio sociale ai Piani Resinelli: «L’idea era di dotarsi di un primo campo base nella stagione invernale 22-23. Un ricovero a disposizione di tutti gli associati che facilitasse l’accesso (…) bypassando le strutture preesistenti e i loro costi proibitivi. Fu comprato il terreno e persino versata una prima caparra per l’acquisto del materiale da costruzione, ma i lavori sul campo non partiranno mai».
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Anche perché nel frattempo, la Storia aveva “svoltato”. Il 1922 fu l’anno dei fascisti al governo. Ma già da tempo gli squadristi avevano gli alpinisti “rossi” nel mirino. Nell’agosto di quello stesso anno, la sede di Pavia dell’Ape venne incendiata. «Negli stessi giorni a Lecco vengono attaccati dalle squadre fasciste, oltre alla Camera del lavoro, prima il circolo dei ferrovieri, quindi la cooperativa “La Moderna”. Tutte le organizzazioni cittadine di ispirazione socialista sono così “avvertite” nell’arco di una settimana». Ci si barcamenò per quattro anni, poi nel 1926 arrivarono lo scioglimento dell’associazione e una serie di arresti. Il terreno ai Piani Resinelli venne venduto: altre erano ormai le esigenze primarie che non la costruzione di un rifugio. Il ricavato dalla vendita del terreno, infatti, venne destinato «alle iniziative del Soccorso rosso che aiutava i militanti della sinistra processati e detenuti nelle carceri», come ci informa nella prefazione lo storico Alessandro Pastore.
Se l’associazione non esisteva più ufficialmente, i legami tra le persone rimasero e pure gli slanci: molti suoi esponenti si impegnarono nella lotta antifascista e nelle iniziative clandestine.  Scrive Di Monte, anche se in maniera un po’ vaga: «A partire dagli anni Trenta, anche per effetto dell’entrata in vigore del Codice penale Rocco, è sempre più difficile per i partiti riunirsi al riparo da sguardi indiscreti e chiacchieroni. Alcuni ex apeini, a cominciare dalla Bergamasca, dal Lecchese, e più in generali nei centri minori dell’arco prealpino, si prestano a tutta una serie di attività di collegamento e supporto. Si organizzano espatri verso il confine per persone in pericolo e si programmano accompagnamenti affinché i partiti della sinistra possano effettuare riunioni clandestine in montagna. I più attivi si ritrovano in baite e capanne anche solo per intonare ancora una volta i cori e farsi così coraggio a suon di cantate. Non sono cose di cui si possa discutere pubblicamente, tuttavia l’insieme di queste iniziative, individuali e collettive, restituisce ancora una volta all’ambiente montano quel senso di evasione, anche solo temporanea, dalla bassezza e dai tumulti della vita urbana».
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Si “battagliava” anche tra le guglie della Grigna, battaglie simboliche prima di quelle autentiche della guerra e della Resistenza: furono alcuni “apeini”, per esempio, a distruggere a martellate il fascio littorio che era stato innalzato nel 1931 sulla cima del Torrione Costanza. Sullo stesso Torrione, una nuova via di salita – aperta nel 1933 da quei fuoriclasse dell’epoca che erano Riccardo Cassin , il “boga” Mario Dell’Oro e Mary Varale – venne non a caso intitolata “Via del littorio”.
Arrivò poi la guerra: furono ex iscritti lecchesi dell’Ape a lanciare una campagna di sostegno umanitario agli alpini inviati in Russia: «Cinquemila pacchi riempiranno un convoglio speciale di cui la Storia ha perso le tracce». E poi la Resistenza: non pochi “apeini” vi presero parte. Un nome per tutti. Quello di Pierino Vitali, alpinisticamente ricordato come il primo a scalare senza mezzi artificiali l’Ago Teresita nel 1929 con Giovanni Gandin e Giuseppe Riva: «Figlio di operai con la tempra del leader». Ex alpino, partecipò alla Resistenza nelle file della 112^ brigata Garibaldi. Esule in Svizzera perché ricercato, verrà ucciso dai nazifascisti nei pressi di Villeneuve in provincia di Aosta. 
Liberata l’Italia dai nazifascisti e lasciata alle spalle la guerra, riprese anche la vita associativa e nel 1948 veniva costituita la cooperativa Alveare Alpino che sarebbe il tanto agognato rifugio: un’area di 1566 metri quadri venne acquistata con l’azionariato popolare e nel 1952 si arrivò all’inaugurazione. Seguirono tre decenni di intensa attività. Poi, il declino. Negli anni Ottanta, il mondo era diventato tutt’altra cosa rispetto non solo a quello degli anni Dieci del Novecento, ma anche a quello degli anni Cinquanta e anche l’andare in montagna aveva subito un’evoluzione che a volte erra stata una rivoluzione. I ranghi dell’associazione cominciarono ad assottigliarsi: «nei primissimi anni Ottanta cinque sezioni resistono ancora: Bergamo, Cantù, Lecco, Pavia e Milano, per un totale di 714 soci, ma il maggiore accesso ai consumi porta con sé continui mutamenti nell’approccio al tempo libero: la diffusione dell’automobile, la maggiore disponibilità economica e la nascita di nuove forme di svago inficiano inesorabilmente gli ultimi tentativi di rilancio delle iniziative sociali. In montagna ci si può andare e si va da soli, in famiglia, con gli amici. A che serve un’associazione popolare, per di più non orientata agli sport estremi? La vendita dell’Alveare Alpino e la chiusura della sezione di Bergamo per il mancato ingresso di giovani soci sono i due eventi che chiudono simbolicamente il sipario sul sogno federativo dell’Associazione Proletaria Escursionisti. Nello stesso periodo anche i circoli popolari aperti in tempo di Repubblica in memoria degli eroi della Resistenza lecchese chiudono uno dopo l’altro per assenza di soci».
Sopravvissuto per qualche anno come sede di convegni sindacali, l’Alveare Alpino è oggi una struttura abbandonata, avviata a diventare un triste rudere. Non ha certo forze e mezzi per il suo recupero quell’Ape che in questi anni è andata risorgendo.
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Nel suo libro, Di Monte ci racconta infatti della rinascita di questi ultimi decenni a cavallo di due millenni: «L’Ape rinasce a Lecco per la terza volta, sotto l’egida di Aldo Pinchetti. Non più la classe né l’antifascismo, ma il puro impegno sportivo e la passione per la montagna sono alla base di questa nuova avventura. Siamo nell’anno 1986 e l’Ape di Lecco, definitivamente affiliata alla Federazione Italiana Escursionismo, giunge in tre anni di attività a coinvolgere 145 iscritti. Per intercessione del dottore Gilberto Bonalumi “una macchina blu” di fede democristiana, gli apeini ottengono un negozio abbandonato in comodato d’uso per dieci anni. Il Bonalumi è inizialmente reticente, ma Pinchetti insiste nell’affermare che l’APE non fa politica e non è legata ad alcun partito. “Nella nostra associazione abbiamo dentro socialisti, democristiani e comunisti… i fascisti lasciamoli perdere. Dottore, APE significa proletari escursionisti: si va in montagna e siamo gente che lavora».
Dal 2008 l’associazione lecchese ha una sede a Rancio. Ma «non è tutto» precisa Di Monte. Perché «nell’autunno del 2012 un gruppo di giovani attivisti e appassionati di montagna di Milano ha deciso di riprendere in mano l’eredità di questa piccola ma lunga storia, fondando nuovamente una sezione meneghina decisamente anomala e con statuto proprio. Quando la parabola apeina sembrava inevitabilmente destinata a chiudersi, altri volti hanno preso in carico testimone e scarponi, ciaspole e moschettoni; perché in fondo, l’eclissi passa appena un attimo dopo il momento in cui tutto appare assolutamente buio».
Dario Cercek
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