SCAFFALE LECCHESE/187: dall'Orfanella delle Brianze a Igilda di Brivio

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Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora li ricordiamo: sono gli untori della peste manzoniana, i protagonisti della “Storia della colonna infame”, saggio conclusivo della seconda edizione dei “Promessi sposi”, pubblicata tra il 1840 e il 1842. E proprio mentre dai torchi milanesi di Vincenzo Ferrario uscivano le prime dispense del romanzo manzoniano, sempre a Milano, l’editore Bonfanti pubblicava un altro romanzo storico, “L’orfanella delle Brianze” nel quale appunto si raccontava anche della peste del 1630, di untori, di Piazza, di Mora e della colonna infame. 
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L’autore è Bassano Finoli: lodigiano, nato nel 1796 e morto nel 1848. Ecco il ritratto offertoci da Gaspare Oldrini nella sua “Storia della cultura laudense”, stampata nel 1855: «Fu impiegato d’ordine presso il Tribunale d’Appello di Milano. Si occupò saviamente in vari lavori di facile e amena letteratura, i quali hanno sempre ottenuto il favore del pubblico. Dapprima scrisse commedie e farse interessanti per l’intreccio non meno che per la fecondità degli incidenti, e per la varietà dei caratteri che giudiziosamente vi seppe connettere, poscia rivolse le sue fatiche a scrivere romanzi». Romanzi storici, com’era ormai uso. Due sono ambientati in Brianza: “Igilda di Brivio” pubblicato nel 1837 e, appunto, l’“Orfanella” nel 1840. Dovettero avere un certo successo, considerato che pubblicandosi, nel 1842, “Le rovine di Milano e Lodi”, Finoli veniva presentato come l’autore dell’Igilda e dell’Orfanella. Opere del resto ristampate più volte anche dopo la morte dell’autore. 

Nonostante una prolissità a volte fastidiosa, tutto sommato, va riconosciuta all’autore una certa capacità nell’aggrovigliare intrecci e nell’inventarsi colpi di scena, un po’ esagerati ma capaci di generare attesa e tensione.

A proposito della colonna infame, naturalmente, non si vogliono dare a Finoli meriti eccessivi. Sappiamo che già nella minuta del suo romanzo, il cosiddetto “Fermo e Lucia”, Manzoni aveva previsto l’appendice della colonna infame che poi però non comparve nella prima edizione del 1827 dei “Promessi sposi”, ma solo nella seconda del 1840. Prima ancora, dell’episodio s’era occupato Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”, anno 1805. Finoli, dunque, non scopre nulla. Dimostra però d’essere ben attento, e forse anche ben addentro, alle discussioni letterarie e politiche della sua epoca. Tra l’altro, un Bassano Finoli – che sarà poi lo stesso – risulta traduttore di opere di quel Walter Scott ritenuto il capostipite, pur contestato, del romanzo storico.

Non sappiamo, invece, quali rapporti avesse con le terre brianzole che comunque dimostra di conoscere, anche se nella narrazione sono soltanto fondali come altri.
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Brivio, per esempio: il suo castello «antichissimo (che anche oggidì lo si vede quasi intiero) è posto alla riva destra del lago dello stesso nome: ha di prospetto verso oriente, subito di là dalle acque, le ben coltivate colline e montagne bergamasche e la catena delle alpi albenzie; e volgendo alquanto l'occhio a sinistra le immense giogaje de' monti di Sommasca e di Lecco, che chiudono questa scena pittoresca e stupenda. Gli altri tre lati (che ora sono avvicinati da case formanti contrade e piazzette) dominavano un vastissimo giardino o parco che si chiamasse, il quale rimontando in su pel monte, giungeva alla strada che mette ad Ajruno, inclusavi pure quella parte dove ora sta la chiesa di san Leonardo; e più oltre ascendendo fino al labbro della strada suddetta, racchiudeva il sito ove son ole masserie di Forno e di Canosse ; poscia per un declive ora ripido, or dolce, di tratto in tratto formante anco picciolo pianure, scendevasi alla sponda del lago».

La vicenda di Igilda si svolge nel XV secolo, nei tumultuosi anni di passaggio del potere per via ereditaria dall’ultimo discendente maschio dei Visconti, Filippo Maria, alla famiglia Sforza attraverso il matrimonio tra Francesco e Bianca Maria, figlia di Filippo. Era comunque un momento rivoluzionario per il ducato di Milano. Finoli entra nel vivo della storia politica, non foss’altro perché al servizio dello Sforza c’è anche il feudatario di Brivio, il conte Gastone, padre di Igilda.
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Morta la madre Clotilde, dall’età di nove anni Igilda viene cresciuta nel monastero di Santa Chiara a Lodi, in attesa di raggiungere l’età da matrimonio. La badessa è cugina di Clotilde e briga perché la giovinetta scelga definitivamente la clausura: in tal modo, l’eredità finirebbe ai propri nipoti. 

Parlando di conventi, il nostro narratore naturalmente non si esime dall’accennare al problema delle monacazioni forzate. Dipinge il monastero se non proprio a tinte fosche e non arrivando agli eccessi delittuosi della monaca di Monza, come luogo ben lontano dalla santità: incontri clandestini seppur casti, perfidie, vendette con il culmine di una suor Camilla segregata per anni nei sotterranei del monastero soltanto per l’invidia della badessa.
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Nella notte del 13 agosto 1447 – data significativa perché è quella della morte del Visconti – Igilda, che ha ormai 18 anni, riesce rocambolescamente a fuggire dal convento e tale fuga consente all’autorità religiosa di riportare il monastero sulla retta via, con l’imprescindibile pentimento della badessa. 

Igilda torna a Brivio non senza rischiare d’essere rapita strada facendo da una banda di criminali. A salvarla è Armando, uno dei soldati del conte Gastone, armigero tra i più valenti, un autentico eroe. Il cui intervento sarà provvidenziale in altre occasioni analoghe. Igilda se ne innamora ed è ricambiata. Ma è un amore al quale si oppongono ragioni di casta. In un momento di bisogno il conte Gastone promette ad Armando, protagonista dell’ennesimo eroico salvataggio, di concedergli la figlia in isposa per poi rimangiarsi la parola. Igilda e Armando decidono di sposarsi segretamente, lei rimane incinta. Il padre infuriato ordina di uccidere Armando, mentre Igilda è costretta a fuggire ancora una volta. Dopo varie vicissitudini e il pentimento del conte Gastone, tutto si risolve grazie a Francesco Sforza.
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«Le cronache da cui trassi questa storia – la conclusione dell’autore - qui hanno termine, conchiudendo: che Igilda ed Armando passarono d'indi in poi vita felicissima, esempio a tutti di onesto e religioso carattere, e d'amore verso il prossimo. Ebbero degli altri figli, i discendenti de' quali, colla spada colla toga si resero illustri; e fregiati di ben meritati titoli, vennero inalzati alle cariche più luminose dello Stato ed ascritti nella classe della nobiltà più cospicua».

Il già citato Gaspare Oldrini scriveva che l’Igilda è romanzo immortale e «noi crediamo non via sia lodigiano che non l’abbia letto con vivo interesse». In verità, anche questo romanzo è ormai scomparso dalle librerie e sepolto nelle biblioteche. Vero è che, almeno a Brivio, qualche memoria è rimasta se pochi anni fa l’Igilda assurse a simbolo di una campagna politica (CLICCA QUI) per quanto di breve durata visto che un vero e proprio necrologio ne annunciò il decesso.

“L’orfanella delle Brianze” è invece ambientato nel Seicento tra la Spagna e la Lombardia. In particolare, il gran teatro delle vicende è Bosisio. Così, Finoli ci presenta il luogo: «Bosisio è innalzato in parte sul pendio dì una collina e fa di sé bella mostra sulla sponda orientale del lago di Pusiano, il principale fra quelli delle Brianze (…). Brilla sovra agli altri tutti per l’amenità delle sue rive, di vigneti feconde e abbellite da alti e svariati alberi, e pei terreni ubertosi che ben rispondono alla mano del coltivatore, cui un aere puro e dolce dà ognora nuova lena alla fatica. Un lucido orizzonte conterminato da monti e da colli e poggi su cui biancheggiano eleganti villette, il tutto insieme forma all’intorno una bella linea di prospettive pittoresche e grandi, specchiantesi maestosamente nell’onde cristalline di quel vasto bacino. Ne’ tempi di cui narro, Bosisio non era paese sì fiorente siccome oggidì lo si vede. Allora torreggiava severo, sopra umili abituri d’una piccola popolazione tranquilla, il vetusto grandioso palazzo dei feudatari, di gotica architettura, cui accosto ergeasi un castellotto che nomavasi il Forte de merli».
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E’ il palazzo al centro della nostra storia, il palazzo di don Consalvo, esponente di una nobile famiglia spagnola, padre carnale di Adolfo e adottivo di Giulietta che è l’orfanella del titolo. 

Le circostanze e soprattutto l’avere Giulietta risvegliato Adolfo da una morte apparente, portano i due a crescere assieme con un legame strettissimo che supera le origini nobiliari dell’uno e servili dell’altra. Il romanzo è una guerra tra il bene e il male. Da una parte ci sono i buoni che forse appaiono un po’ troppo buoni e dall’altro la malvagità spinta all’estremo. Da una parte ci sono appunto Adolfo, Giulietta e don Consalvo a impersonare la bontà. Dall’altra c’è donna Cesaria, vedova dissoluta “cacciata” dalla corte di Spagna e venuta a stare a Milano e in villeggiatura a Pusiano con la figliastra Fausta e una masnada di bravi capitanati dal tal Sombrero, personaggio dai loschi precedenti: «La marchesa avendo saputo che nell'autunno la maggior parte de' signori milanesi trasferivansi a villeggiare quali sulle sponde del lago di Como, e quali sui colli e monti delle amene Brianze, le venne vaghezza di acquistare anch'essa una villa. (…) Ella trasse seco da Milano un esercito di gente: cappe nere, camerieri, credenzieri, cuochi, donzelle, paggi, staffieri, trenta armigeri e dodici bravi, la cui bellezza consisteva nella robustezza della persona, nella deformità del viso e in un cuore capace di commettere a sangue freddo qualsiasi delitto». 
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La storia assume le sue tinte più accese quando Cesaria vuole sposare Adolfo, mentre Sombrero mette gli occhi su Giulietta. Non si fermano davanti a nulla: uccidono un frate e fanno avere al padre di Adolfo lettere false che gettano ombre inquietanti su Giulietta. La stessa Giulietta viene rapita e quasi uccisa: si salva miracolosamente grazie all’intervento di Fausta che nonostante la madre è dalla parte del bene. Ma non è ancora finita: Giulietta viene denunciata da Cesaria al Sant’Uffizio perché vista volare in compagnia di un caprone in cima al Cornizzolo. Deus ex machina questa volta è lo stesso segretario del Sant’Uffizio: altri non è che un ex corteggiatore di Cesaria, fattosi domenicano dopo avere ucciso in uno scontro fortuito un caro amico e proprio per via della rivalità per Cesaria.

Molto più che in Igilda, nell’Orfanella, Finoli mette molta carne al fuoco: il Seicento spagnolo e lombardo, la stregoneria e la peste di cui s’è detto, tra untori e rivolta contro i medici accusati di diffondere il morbo per propri calcoli. Il debito verso Manzoni è comunque evidente. E non potrebbe essere diversamente. Infatti, se è il 7 novembre 1628 quando don Abbondio incontra i bravi, è il maggio 1626 quando donna Cesaria arriva a Milano per poi comprare un palazzo a Pusiano per la stagione della villeggiatura. E come nei “Promessi sposi”, è proprio la peste a “risanare” il mondo e a far trionfare il bene dopo pentimenti, confessioni, penitenze, riabilitazioni.
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Dovrebbe finire con le nozze di Adolfo e Giulietta, ma Finoli ci riserva un nuovo colpo di scena: Giulietta decide che a sposare Adolfo dovrà essere Fausta che di Adolfo si era innamorata da tempo. Da parte sua, lo sposo, dopo mesi a piangere per le sorti di Giulietta, non fa una piega. Come si trattasse semplicemente di cambiar pantofole. Da parte sua Giulietta, «fece immediatamente edificare quella casa che oggidì è posseduta dal nobile don Angelo Cesati, in cui essa con vera pietà cristiana raccoglieva una quantità di fanciulle orfane delle Brianze, e da madre amorosa le alimentava e le tenea presso di sè , le istruiva nella religione e in ogni maniera di lavori femminili, e cresciute poscia, avea cura altresì di collocarle».

Immaginiamo che la citazione di Angelo Cesati sia una sorta di omaggio. Probabile che Finoli lo frequentasse e magari sia stato anche ospitato a Bosisio in quel palazzo in realtà eretto nel Settecento: cosa ci fosse prima non sappiamo. Da oltre un secolo è la sede municipale. E il passaggio di proprietà ci richiama un’altra vicenda, quella delle malefatte del sindaco Giuseppe Pestagalli, raccontate da Marco Galbusera nel libro “Il sindaco che rubò il lago” di cui ci siamo occupati in passato (CLICCA QUI).
Dario Cercek
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