SCAFFALE LECCHESE/42: quel sindaco di Bosisio che fece scandalo rubando il Lago

Un monumento. Tale avrebbe dovuto essere la concreta memoria di Bosisio Parini per il sindaco Giuseppe Pestagalli se immaginata il 22 dicembre 1867. Quel giorno, si realizzava un sogno carezzato da tempo: il Comune diventava proprietario dell’intero lago, isola dei cipressi e casa della darsena compresi. Lago che è detto di Pusiano ma nel quale pure Bosisio si specchia e che soprattutto, da quel giorno, avrebbe introitato l’affitto dei diritti di pesca, di caccia, di navigazione e pertinenze varie. Un monumento, dunque. Finì, invece, che sette anni dopo, nel 1874, Bosisio dovette rivendere il lago per chiudere la voragine finanziaria provocata dallo stesso Pestagalli. Il quale, intascati i soldi pubblici e lasciato il Comune sul lastrico, era fuggito all’estero già da un paio d’anni per evitare il carcere. Così, l’immaginario monumento assunse più l’aspetto di una colonna infame.


L’intera vicenda è raccontata nel libro “Il sindaco che rubò il lago” pubblicato nel 2017 da Bellavite Editore ma su iniziativa dello stesso Comune di Bosisio. L’autore è Marco Galbusera: per lavoro, funzionario pubblico nel Milanese e, per passione, ricercatore storico e scrittore per le scuole. Per lo stesso Comune di Bosisio, già nel 2011 aveva scritto una biografia di Luigi Rota, il garibaldino di Bosisio arruolatosi nei Mille.


Galbusera definisce la vicenda di Giuseppe Pestagalli «il primo scandalo dell’Italia unita» (tale, infatti, il sottotitolo del libro): «Lo scandalo fiorito tra il 1872 e il 1873 fu il primo in assoluto a scuotere la classe politica del neonato Regno d’Italia. Quasi vent’anni prima del ben più deflagrante scandalo della Banca Romana, Bosisio – piccolo Comune della felice Brianza – conquistò, almeno per breve tempo, la ribalta nazionale, animando le cronache giudiziarie e le chiacchiere popolari».

Prima di tutto, un ritratto del protagonista.  E ritratto sarebbe parola beffarda, considerato che «nonostante gli sforzi compiuti presso archivi e istituzioni, non si è riusciti a ritrovare alcuna immagine del diabolico ingegnere». Di lui, rimane la firma comprensiva di titolo di studio: “ing”. E comunque: nato nel 1813, figlio di un importante e rinomato architetto milanese (Pietro Pestagalli), Giuseppe diventò a sua volta professionista di prestigio, particolarmente apprezzato per il suo stile che univa «elementi classici e rinascimentali a moduli dal sapore più moderno» (un’opera per tutte, il Teatro Dal Verme).

Alla professione vera e propria, Giuseppe Pestagalli univa anche la docenza all’Accademia di Brera (Elementi di architettura) e un assiduo impegno sul fronte politico e amministrativo.

Il racconto inizia dal 1860. Scrive Galbusera: «Il Regno d’Italia non era ancora stato proclamato e la Lombardia era passata sotto lo scudo sabaudo da poco più di un anno e mezzo quando, agli inizi di novembre, Giuseppe Pestagalli fece il suo ingresso nella vita pubblica di Bosisio. Non si trattava, in verità, di un nome del tutto nuovo per il paese. Pestagalli sedeva già nel piccolo Consiglio comunale del borgo e, soprattutto, deteneva in loco numerose proprietà di famiglia. Vi trascorreva inoltre alcuni periodi di villeggiatura».

A quell’epoca, Bosisio contava 1572 abitanti e il municipio era in ottime condizioni economiche (addirittura prestava soldi a Milano, a Bergamo, a Como). Nell’ottobre 1859, il re Vittorio Emanuele II nominava sindaco – il primo della nuova Italia - Michele Annoni, il cui mandato «non fu però molto fortunato – annota Galbusera -, destinato a chiudersi nel giro di pochi mesi, senza lasciare particolare impronta sulle vicende locali. Tutto appariva comunque roseo e gravido di floride prospettive. Un beffardo ed avverso futuro era invece dietro l’angolo. A metterci lo zampino contribuirono, nel giro di un decennio, il mutato panorama politico, le avversità naturali e, soprattutto, una scellerata vicenda destinata a portare al borgo una indesiderata notorietà».

Dimessosi Annoni, la scelta cadeva appunto su Giuseppe Pestagalli che in prima battuta rifiutava e poi ci ripensava. Non c’erano ancora elezioni. Sindaci e consiglieri erano di nomina regia e non si badava tanto a eventuali conflitti di interesse: «Ebbe così inizio un’amministrazione destinata a durare oltre dodici anni, con apparenti fortune e un disastroso finale».

Il nostro si divideva tra Milano e Bosisio. A Milano, dove pure era consigliere comunale, figurava tra quelli che ai giorni nostri vengono definiti “archistar”. Aveva partecipato anche ai concorsi per il rifacimento della piazza del Duomo e per la realizzazione della nuova Galleria Vittorio Emanuele. In entrambi i casi, ai suoi progetti vennero però preferiti quelli dell’architetto Giuseppe Mengoni. Proprio “quel” Mengoni che morì il 30 dicembre 1877 precipitando da un’impalcatura della stessa Galleria (la classificazione ufficiale di incidente, non cancellò il sospetto che in realtà si trattasse di un vero e proprio suicidio), la cui realizzazione fu accompagnata da roventi polemiche, vicissitudini finanziarie, ricadute politiche. A quella data, Pestagalli era già latitante per le vicende sue (e forse anche morto: di lui non si saprà più nulla anche se ne viene ipotizzato il decesso tra 1873 e1874).


Sull’avanzare dei lavori della Galleria, da consigliere comunale si era distinto per un puntiglioso controllo. Che arrivò, nel 1867, a far cadere la giunta del sindaco e senatore Antonio Beretta accusato di avere le mani troppo in pasta: l’attenzione era concentrata sull’esproprio di due palazzi intestati a un proprio parente e pagati a peso d’oro. Come dire che certo malcostume era già ben radicato: «Anche se la questione non era esplosa come un vero e proprio scandalo e Beretta, anziché finire davanti a un tribunale, venne insignito dal Sovrano del titolo di Conte – ci dice Galbusera -, ormai il Pestagalli aveva acquisito la fama di censore e di moralizzatore della cosa pubblica. Tutto bene, a parte il fatto che già da qualche anno era iniziata una ben disinvolta pratica nella gestione dell’amministrazione pubblica di Bosisio».



Nel paese brianzolo, l’ingegnere-architetto milanese faceva il bello e il cattivo tempo. Scaltro d'esperto, gli altri amministratori ne subivano il carisma e sostanzialmente si adeguavano alle direttive. Da parte sua, il sindaco aveva assunto un segretario di proprio fiducia per “snellire” la burocrazia. Bosisio cresceva di lustro e di popolazione, nel 1867 realizzava il sogno di acquistare il lago (nel Trecento dell’arcivescovo di Milano e in epoca napoleonica appannaggio del principe Eugenio Beahuarnais) e nel 1869 si permetteva una nuova sede municipale con l’acquisto di Palazzo Cesati, «la casa degli errori» come lo definisce Galbusera: fu proprio questa compravendita infatti a innescare un contenzioso destinato a far scoprire i maneggi del sindaco. Perché Luigi Cesati, il venditore, non vide onorati gli impegni, non ricevette una lira e dopo vani tentativi di farsi pagare decise di sporgere denuncia. Eravamo nel 1872. Un terremoto o, meglio ancora, un soffio che abbatté un castello di carte. Pestagalli venne deposto, si scoprì un ammanco di circa 350mila lire (sarebbero 2 milioni e 700mila euro di oggi, calcola Galbusera, circa diciotto volte il reddito annuo di Pestagalli che ammontava a 20mila lire, «senza dubbio uno dei più alti della Milano dell’epoca»). In particolare, il sindaco si sarebbe appropriato di quanto versava al Comune l’azienda che si era aggiudicata l’estrazione della torba. Azienda in cui aveva avuto qualche interesse nientemeno che il suocero del Pestagalli.



Palazzo Cesati, municipio di Bosisio Parini


Gongolava, il parroco don Amabile Colombo che annotava sul “Liber chronicus”: «Grandi catastrofi nel Comune di Bosisio. Il Sindaco Pestagalli ing.Giuseppe di Milano, grande ladrone e dilapidatore del ricco patrimonio comunale, si lasciò sfuggire con un deficit di cassa di circa quattrocentomila lire. Evviva la libertà!».

Il contesto storico lo conosciamo: Roma era appena stata sottratta al Papa al quale ormai rimaneva il potere spirituale e non più quello temporale, il nuovo Stato cercava di instaurare un proprio ordine laico sotto una monarchia non propriamente illuminata, ma già la classe dirigente liberale appariva screditata e non solo agli occhi dei cattolici: la lotta risorgimentale non si era rivelata poi in un grande affare per il popolo come pure taluni avevano sperato, mentre la gran parte del notabilato coltivava grandi princìpi filosofici e gretti interessi di classe e personali.

La mattina del 10 agosto 1872, Pestagalli venne visto alla stazione centrale di Milano e poi di lui si persero le tracce. Risultò essere a Ostenda, cittadina belga in ascesa alla vigilia di quella che sarebbe stata la Belle Epoque, ma il dettaglio fondamentale era che tra Italia e Belgio non vi fossero trattati in materia di estradizione.

Attraverso un fiduciario, Pestagalli continuava comunque a gestire i propri interessi a Milano e riuscì addirittura a farsi pagare ancora alcuni stipendi dall’Accademia di Brera, prima dell’esonero. Mentre non si sa quanto davvero abbia lasciato nella miseria nera moglie e figlio, così come venne attestato. Di fatto i creditori non trovarono nulla a cui aggrapparsi.

Nel 1873, si tenne il processo concluso con la condanna a tre anni di reclusione (che già nel 1889 vengono però giudicati prescritti). Dalle carte processuali, consultate da Galbusera, emerge come fino al 1866, Pestagalli fosse risultato irreprensibile. «Sgraziatamente dopo quest’epoca ebbe una vita galante e dispendiosa, oltre le sue facoltà, sciupando in donne non solo i guadagni della propria professione ma intaccando anche la dote della moglie di lire 260.000 (…) ebbe per amanti due donne a cui corrispondeva 2000 lire al mese».

A Bosisio Parini dovettero rimboccarsi le maniche per ripianare il deficit comunale. E nel 1874 si arrivò appunto a rivendere quel lago che era stato acquistato nemmeno dieci anni prima. Fu vendita – va detto e nel libro lo si evidenzia - non proprio cristallina. Pestagalli non c’era più, ma gli stessi successori non sembra ambissero a lasciare ai posteri specchiate memorie del proprio operato. Si concluse con un salomonico compromesso suggerito dal prefetto.

L'isola dei cipressi


«Lo  shock fu fortissimo – scrive nell’introduzione al libro Giuseppe Borgonovo, primo cittadino del paese brianzolo nel 2017 -, solo mezzo secolo più avanti e due generazioni dopo i bosisiesi riuscirono a riprendersi dalle tremende conseguenze dell’amministrazione Pestagalli. Per ironia della sorte, il sindaco criminale non fece un giorno di carcere. Una storia triste e dolorosa conclusasi nel peggiore dei modi, ossia con un’ingiustizia nell’ingiustizia. Come se non bastasse (…) Milano, sua città natale, volle addirittura dedicargli una via, tuttora esistente, per celebrarne la gloria e l’impegno nelle arti. Francamente troppo da sopportare».

Via dei Pestagalli è una strada nelle vicinanze della stazione di Rogoredo: «Ricordare Giuseppe Pestagalli – ci dice Galbusera – e intitolargli addirittura una strada, seppure in uno dei quartieri più periferici e disordinati della città, appare stonato, anche se il passare degli anni e l’estinguersi delle passioni inducono ad accendere i riflettori della memoria sugli aspetti più positivi e meno imbarazzanti di persone e vicende. La fama di una famiglia di stimati professionisti, acquisita negli anni d’oro, parve infatti rimanere integra nonostante lo scandalo, restando nella memoria di Milano e dell’Italia intera quali abili e vivaci architetti e urbanisti. Una considerazione assolutamente giusta e inattaccabile per il padre Pietro ma sicuramente oscurata da molte ombre per il figlio Giuseppe. La cosa tuttavia non sembra turbare gli studiosi del settore che continuano ad annoverare il nome di Giuseppe Pestagalli tra i padri nobili dell’architettura del diciannovesimo secolo, pur manifestando qualche imbarazzo nelle questioni biografiche, soprattutto relativamente alla data della sua uscita di scena».

C’è anche questo nella decisione di ricostruire quella vicenda: «Era giusto – le parole di Borgonovo - porre rimedio almeno allo scherno e a tal fine si è deciso di pubblicare questo libro perché tutti sappiano e le generazioni future non dimentichino quanto male il sindaco Pestagalli recò alla città».

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Dario Cercek
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