SCAFFALE LECCHESE/178: una passeggiata 'dilettevole e istruttiva' con Quirino Trivero
«Per ciò che riguarda l’industria ed il commercio, non v’ha paese che offra esempio di tanta operosità (…) e il suo mercato, che tiensi il sabato di ogni settimana, è un dei più floridi e frequentati della Lombardia. Conviene vederlo nell’autunno, abbellito dal concorso dei signori villeggianti della Brianza ed altri posti che ivi si recano. (…) La bellezza del paese è la quantità delle fabbriche, delle fucine, filande, filatoj; magazzini di cereali, di legnami, di foraggi; grandiosi magazzini di stoffe. Da una statistica si rilevano esservi nel territorio di Lecco 120 fabbriche di carbone, 80 magli e filiere per il ferro, circa 100 filatoj e torcitoj di seta, una infinità di filande; una fabbrica grandiosa di cotone, una cartiera, due fabbriche di candele da cera (…) ed una sterminata quantità di Alberghi, Osterie e Bettole».
Quasi da Paese dell’Abbondanza questa descrizione della città di Lecco risalente solo alla seconda metà dell’Ottocento. La descrizione sembra riecheggiare certe antiche relazioni di viaggi in luoghi avvolti dalla leggenda, relazioni nelle quali si tramandano racconti di seconda o terza mano spesso fantastici. Andando a creare una mitologia vera e propria. E, in fondo, non sono forse vera mitologia le celebrazioni dell’anima imprenditoriale lecchese?
In questo caso, la descrizione è tratta da “Lecco e il suo circondario. Passeggiata dilettevole ed istruttiva”, volume uscito nel 1874 dalla lecchese Tipografia del commercio di Angelo Piantini (e in seguito Fratelli Grassi). Il libro e curato da un tal Quirino Trivero. Del quale poco sappiamo. Piemontese, non era uno storico, ma un regio carabiniere di carriera: nel 1869, in un’Italia da poco unita ma ancora senza Roma, ci risulta luogotenente e nel 1890 capitano. Scrisse una storia e una guida di Pinerolo, ma anche una “Corografia” di Avellino dove supponiamo l’abbia portato il suo mestiere. E poi “bozzetti umoristici” e poesie dialettali, motivo per cui vi si accenna nelle storie della letteratura piemontese. Se nel 1869 pubblicò una “Guida dilettevole ed istruttiva della provincia di Cuneo”, sulla genesi della “passeggiata” lecchese di cinque anni dopo si può solo congetturare. Curiosamente, tra l’altro, il volumetto stampato da Piantini non riporta neppure il nome per esteso dell’autore ma le sole iniziali: “T… Q…”. Vai a sapere!A presentare l’opera, del resto, è l’editore: «Unicamente allo scopo dell’istruzione popolare del Circondario di Lecco, modello in fatto d’industria e di attività; non che per diletto di quei viaggiatori che desiderassero di visitare questo ameno territorio, venne compilata la presente operetta in forma di Guida pratica tascabile (…) fermamente lusingato che, riconoscendone l’utilità, venga favorevolmente accolta e aggradita».
La nota ci fa pensare che l’iniziativa di dare alle stampe una guida lecchese, in anticipo su altre pubblicazioni, sia stata proprio dell’editore. Resta da capire perché si sia rivolto al piemontese Trivero. Il quale, evidentemente, all’epoca doveva godere di una qualche considerazione. Restano misteriosi anche i rapporti tra il carabiniere-scrittore e il nostro territorio: che vi sia “transitato” proprio per il suo ufficio? Chissà. L’impressione, invero, è che non si sia scomodato più di tanto, redigendo la “passeggiata” in base a informazioni altrui e poco verificate.
Il volume poteva comunque contare sull’effetto novità: la prima vera e propria guida turistica lecchese uscirà infatti anni dopo, nel 1881, a cura di Giuseppe Fumagalli. Non sorprendono quindi la trascuratezza di certi dettagli, le descrizioni un po’ grossolane, l’impianto complessivo “alla buona” parendo la serie di notizie dovuta a ciò che l’autore è riuscito a mettere assieme più che a una selezione e a un ordinamento metodici.
Per esempio, a proposito dei paesi di Ballabio Superiore e Inferiore ci vien detto che sono alle falde del monte Resegone. Stando in tema, si legge che Lecco è accerchiata da «altissime ed erte montagne, che dalla forma loro coi culmini fatti a sega, sono chiamati i Resegoni». E uno dei monti vicini «chiamasi tuttora Giovo e da ciò vuolsi dedurre che sulle cime di quel monte sorgesse un delubro o tempietto sacro a Giove Summano». Ma non sarà poi il passo del Giuff? Altro che tempio. Insomma, si ricamava non male, tra etimologie acrobatiche e supposizioni storiche ardite, con il consueto contorno di leggende longobarde: naturalmente re Desiderio a Civate e poi la regina Teodolinda che passa da Nava, oggi frazione di Colle Brianza. Luogo toccato anche da sant’Agostino, a proposito del quale nulla invece si dice per Cassago che oggi si gloria d’aver accolto il filosofo africano. A proposito dello stesso paese di Nava, tra l’altro, il nostro Trivero sembra sbizzarrirsi: vi fa nascere la matematica Gaetana Agnesi (natali milanesi: il legame brianzolo era la villa di famiglia a Montevecchia) Non solo: vi sarebbe nato anche «certo La Farina che attentò alla vita di san Carlo Borromeo, [che] si rifugiò in Piemonte, ed ottenuta la estradizione per delazione di un suo socio, fu poi arrotato vivo sulla piazza di Santo Stefano a Milano». Il personaggio sarebbe in realtà “il” Farina, soprannome di Girolamo Donato, autore della famosa archibugiata del 26 ottobre 1569 contro l’arcivescovo che rimase solo ferito.
Delle origini dell’attentatore, diacono degli Umiliati, in verità, si sa ben poco. Secondo studi recenti, sarebbe nativo del Varesotto, probabilmente Gemonio, anche se documenti “definitivi” non ve ne sono. Si è ancora nel campo delle ipotesi. In quanto alla pista brianzola suggerita dal Trivero, è un mistero.
La guida passa in rassegna tutti i Comuni dell’area lecchese elencati in ordina alfabetico: complessivamente sono 135 suddivisi in sei mandamenti: Lecco, Brivio, Oggiono, Introbio, Missaglia e anche Canzo perché “lecchese” vien considerata pure la Valassina. Molti Comuni oggi non sono più tali, diventati frazioni di altri se non addirittura località talmente periferiche da non poter immaginare abbiano avuto in passato un’autonomia amministrativa. Alcuni toponimi sono eclissati se non addirittura scomparsi.
Lecco, all’epoca, era naturalmente il Comune più popoloso con 7480 abitanti e i suoi confini comprendevano Pescarenico, Lazzaretto, Ponte, Santo Stefano, ma anche Carate, Foppa, Case Brusate, Colombaio, Cassina Raineri e Caldone. Poco sopra, Castello contava 2320 abitanti e Acquate 1550. Il più piccolo era Dozio, oggi frazione di Valgreghentino) con 90 abitanti, seguito da Concenedo (Barzio) con 111.
Come detto, per alcuni Comuni si è prodighi di notizie storiche, per altri non vi è nemmeno un cenno. E’ del tutto casuale, per esempio, il riferimento al passaggio dei lanzichenecchi e alla peste “manzoniana” del 1630. A proposito del paesaggio e dell’economia, ovunque vi sono coltivazioni: in primo piano, gelsi, pascoli, castagneti e viti. E, a quanto pare, quelle di Bagaggera davano un vino squisito.
L’autore si sofferma più a lungo naturalmente su Lecco, ma anche su Civate e Missaglia.
Di Lecco s’è già detto, ma leggiamo ancora: nonostante non ci sia «nulla di antico, i nuovi edifici che vanno sorgendo, gli alberghi, il teatro, la basilica, lo rendono un soggiorno piacevole ed animato. Un aere puro, un cielo limpidissimo». E a temprare l genti lecchesi «avvezzate a tutte le fatiche» sarebbero stati «i molti fatti d’arme ivi avvenuti, le vicende guerresche sostenute».
Di Acquate (allora “sopra Adda”) si dice che abbia la chiesa più antica della Lombardia; di Castello che «sonvi parecchie fucine per lavorare il ferro» e nelle filande del Gattinoni e del Sala «sonvi moltissimi operai indigeni e forestieri, essi lavorano assiduamente tutta la settimana, ma la Domenica vogliono “santificarla”, come essi dicono, e parecchi nella sera si fanno trasportare poi alle loro case esilarati da copiose bibite spiritose, canti e schiamazzi». Che certo non doveva del resto essere uso esclusivo di Castello. E comunque «questo Comune, essendo il più laborioso e manifatturiero, egli è eziandio il più denaroso del circondario».
Non potevano mancare i luoghi manzoniani, la cui “invenzione” sappiamo essere stata avviata a romanzo ancora in stampa e forse fin dalla prima edizione del 1926-28. La nostra guida è titubante. A proposito della parrocchia di don Abbondio, è incerto tra Germanedo e Acquate, cavandosela comunque nella maniera più assennata: «Nulla lo contrasta e nulla lo afferma; lasciamolo nella mente del grande scrittore» Più importante, a Germanedo la nuova «grande filanda proprietà dei signori Paleari che dà molto lavoro ai numerosi e buoni terreri del luogo ed altri siti ancora: possa arridere propizia la sorte a così arrischiosi e valenti intrappprenditori».
Infine, Laorca: luogo naturalmente «rimarchevole per esservi una grotta che contiene bellissimi stalat titi e stalagmiti, presentanti vaghi fenomeni» e registrandone già il saccheggio in corso: «Di questi oggetti se ne fa un buon commercio, serventi ad abbellire i giardini con grotte artificiali».
Lasciata la conca di Lecco, ci si avvia perla strada del lago soffermandosi sul “granito persichino” di Mandello e sulla “grotta di Plinio” a Lierna E poi la Valsassina. Ed è interessante vedere come il paese di Premana, ritenuto quello che ha conservato le consuetudini valligiane altrove andate perdute, già allora si distinguesse non poco, tanto da meritare la sottolineatura dell’osservatore: «Gli abitanti di Premana si distinguono da quelli dei luoghi vicini pel loro speciale dialetto. Le donne hanno una foggia di abito loro particolarmente consistente in un largo cappello di feltro, di calze e calzoni rossi, veste rossa di mezza lana che giunge fino al ginocchio. Degli uomini un buon terzo si trasporta a Venezia a lavorare da fabbro ferrajo».
Ci impressiona anche quanto Trivero scrive di Bindo: «Gli abitanti vivono quasi sempre con timore che il monte fiancheggiante la loro terra possa qualche volta, diroccando, seppellire il paese, così come avvenne nel 1763 ai paesi di Barcone e Gera»: oltre un secolo dopo, nel 2002, una grande frana avrebbe completamente seppellito il paese, tempestivamente sgomberato ed evitando così vittime.
E poi le miniere: a Baiedo, Ballabio, Barzio; la cascata della Troggia a Introbio e le gesta dei Torriani a Primaluna. Scendendo in Brianza, Trivero parla diffusamente di Civate: e a darne lo spunto è la chiesa di San Pietro al Monte anche se, in realtà, la descrizione si fa alla fine un po’ confusa. A Valmadrera, c’è l’orrido della Val dell’Oro per «gli amanti delle prospettive pittoresche», mentre a Ello, meta per «graziose e comode villeggiature«, vi è la chiesa di San Giacomo dove «veggonsi alcuni scheletri interi rassomiglianti a mummie egiziane in un ossario, cosa pubblica non saprei se lodevole o censurabile, d’altronde molto in uso specialmente nella Lombardia lo esporre in cappelle apposite scoperte ossami d’ogni genere, teschi con suvvi berretti da prete scomposti ed a sghembo che se non facessero ribrezzo farebbero ridere».
A Galbiate, uno dei villaggi più ameni della Brianza, la descrizione si sofferma sulla mitica eco che ritorna in molti testi e di cui si favoleggia ancora oggi ma sulla quale occorrerebbe forse un serio approfondimento. Si tratta della celebre eco di Camporeso: «E’ degnissimo a udirsi in Galbiate l’eco polisillabo, il quale a chi grida d’in su la via, risponde in una casa rimpetta fino a quindici ed anche più sillabe, e ripeté più volte a chi ne fece l’esperimento questi due simpatici versi: “Che vuoi dirmi in tua favella/ pellegrina rondinella!». Niente male! Senza poi dimenticare la chiesa di San Michele «ove i lecchesi, specialmente il 29 di settembre d’ogni anno, si portano in allegra brigata a merendarvi» con annessa leggenda di re Desiderio.
Barzano doveva essere un centro ben vivo: «un negozio floridissimo di mercanzie, vero emporio di novità e ricchezze», mentre per Bulciago e Merate ci parla di «magnifiche villeggiature» e per Bosisio di «un bellissimo panorama», così come per Montevecchia.
Di Verderio ricorda la celebre battaglia tra napoleonici e austro-russi del 1799, di Lomagna che vi furono roghi di streghe e di Missaglia indica la piazza del mercato «da dove vuolsi predicasse Bernardino da Siena, fanatico francescano eccitando il popolo a scacciare gli eretici a sassate» riferendosi alla leggenda secondo cui il predicatore senese avrebbe lanciato i suoi anatemi dal pulpito del monastero della Misericordia. In realtà, il monastero sarebbe stato edificato e consacrato mezzo secolo dopo la morte di Bernardino.Infine, la Valassina per la quale, Il nostro ci ricorda come a Canzo già si producesse il Vespetrò, uno dei tanti liquori a base di erbe celebrato dalle guide turistiche ottocentesche e ricordato addirittura dal vocabolario Treccani: «voce formata artificialmente con i temi dei verbi “vesser” (fare vesce), “peter” (fare peti), “roter” (ruttare), con allusione agli effetti che questo liquore dovrebbe provocare. Di media gradazione, di colore giallo oro, fatto per macerazione e distillazione di semi di angelica, coriandoli, anaci, finocchio e buccia di limone: è una specialità di Canzo in provincia di Como, originaria della Francia». La produzione è stata interrotta nel 1991: in seguito sembra vi sia stato almeno un tentativo di riavviarla, tentativo del quale non conosciamo gli esiti.
Quasi da Paese dell’Abbondanza questa descrizione della città di Lecco risalente solo alla seconda metà dell’Ottocento. La descrizione sembra riecheggiare certe antiche relazioni di viaggi in luoghi avvolti dalla leggenda, relazioni nelle quali si tramandano racconti di seconda o terza mano spesso fantastici. Andando a creare una mitologia vera e propria. E, in fondo, non sono forse vera mitologia le celebrazioni dell’anima imprenditoriale lecchese?
In questo caso, la descrizione è tratta da “Lecco e il suo circondario. Passeggiata dilettevole ed istruttiva”, volume uscito nel 1874 dalla lecchese Tipografia del commercio di Angelo Piantini (e in seguito Fratelli Grassi). Il libro e curato da un tal Quirino Trivero. Del quale poco sappiamo. Piemontese, non era uno storico, ma un regio carabiniere di carriera: nel 1869, in un’Italia da poco unita ma ancora senza Roma, ci risulta luogotenente e nel 1890 capitano. Scrisse una storia e una guida di Pinerolo, ma anche una “Corografia” di Avellino dove supponiamo l’abbia portato il suo mestiere. E poi “bozzetti umoristici” e poesie dialettali, motivo per cui vi si accenna nelle storie della letteratura piemontese. Se nel 1869 pubblicò una “Guida dilettevole ed istruttiva della provincia di Cuneo”, sulla genesi della “passeggiata” lecchese di cinque anni dopo si può solo congetturare. Curiosamente, tra l’altro, il volumetto stampato da Piantini non riporta neppure il nome per esteso dell’autore ma le sole iniziali: “T… Q…”. Vai a sapere!A presentare l’opera, del resto, è l’editore: «Unicamente allo scopo dell’istruzione popolare del Circondario di Lecco, modello in fatto d’industria e di attività; non che per diletto di quei viaggiatori che desiderassero di visitare questo ameno territorio, venne compilata la presente operetta in forma di Guida pratica tascabile (…) fermamente lusingato che, riconoscendone l’utilità, venga favorevolmente accolta e aggradita».
La nota ci fa pensare che l’iniziativa di dare alle stampe una guida lecchese, in anticipo su altre pubblicazioni, sia stata proprio dell’editore. Resta da capire perché si sia rivolto al piemontese Trivero. Il quale, evidentemente, all’epoca doveva godere di una qualche considerazione. Restano misteriosi anche i rapporti tra il carabiniere-scrittore e il nostro territorio: che vi sia “transitato” proprio per il suo ufficio? Chissà. L’impressione, invero, è che non si sia scomodato più di tanto, redigendo la “passeggiata” in base a informazioni altrui e poco verificate.
Il volume poteva comunque contare sull’effetto novità: la prima vera e propria guida turistica lecchese uscirà infatti anni dopo, nel 1881, a cura di Giuseppe Fumagalli. Non sorprendono quindi la trascuratezza di certi dettagli, le descrizioni un po’ grossolane, l’impianto complessivo “alla buona” parendo la serie di notizie dovuta a ciò che l’autore è riuscito a mettere assieme più che a una selezione e a un ordinamento metodici.
Per esempio, a proposito dei paesi di Ballabio Superiore e Inferiore ci vien detto che sono alle falde del monte Resegone. Stando in tema, si legge che Lecco è accerchiata da «altissime ed erte montagne, che dalla forma loro coi culmini fatti a sega, sono chiamati i Resegoni». E uno dei monti vicini «chiamasi tuttora Giovo e da ciò vuolsi dedurre che sulle cime di quel monte sorgesse un delubro o tempietto sacro a Giove Summano». Ma non sarà poi il passo del Giuff? Altro che tempio. Insomma, si ricamava non male, tra etimologie acrobatiche e supposizioni storiche ardite, con il consueto contorno di leggende longobarde: naturalmente re Desiderio a Civate e poi la regina Teodolinda che passa da Nava, oggi frazione di Colle Brianza. Luogo toccato anche da sant’Agostino, a proposito del quale nulla invece si dice per Cassago che oggi si gloria d’aver accolto il filosofo africano. A proposito dello stesso paese di Nava, tra l’altro, il nostro Trivero sembra sbizzarrirsi: vi fa nascere la matematica Gaetana Agnesi (natali milanesi: il legame brianzolo era la villa di famiglia a Montevecchia) Non solo: vi sarebbe nato anche «certo La Farina che attentò alla vita di san Carlo Borromeo, [che] si rifugiò in Piemonte, ed ottenuta la estradizione per delazione di un suo socio, fu poi arrotato vivo sulla piazza di Santo Stefano a Milano». Il personaggio sarebbe in realtà “il” Farina, soprannome di Girolamo Donato, autore della famosa archibugiata del 26 ottobre 1569 contro l’arcivescovo che rimase solo ferito.
Delle origini dell’attentatore, diacono degli Umiliati, in verità, si sa ben poco. Secondo studi recenti, sarebbe nativo del Varesotto, probabilmente Gemonio, anche se documenti “definitivi” non ve ne sono. Si è ancora nel campo delle ipotesi. In quanto alla pista brianzola suggerita dal Trivero, è un mistero.
La guida passa in rassegna tutti i Comuni dell’area lecchese elencati in ordina alfabetico: complessivamente sono 135 suddivisi in sei mandamenti: Lecco, Brivio, Oggiono, Introbio, Missaglia e anche Canzo perché “lecchese” vien considerata pure la Valassina. Molti Comuni oggi non sono più tali, diventati frazioni di altri se non addirittura località talmente periferiche da non poter immaginare abbiano avuto in passato un’autonomia amministrativa. Alcuni toponimi sono eclissati se non addirittura scomparsi.
Lecco, all’epoca, era naturalmente il Comune più popoloso con 7480 abitanti e i suoi confini comprendevano Pescarenico, Lazzaretto, Ponte, Santo Stefano, ma anche Carate, Foppa, Case Brusate, Colombaio, Cassina Raineri e Caldone. Poco sopra, Castello contava 2320 abitanti e Acquate 1550. Il più piccolo era Dozio, oggi frazione di Valgreghentino) con 90 abitanti, seguito da Concenedo (Barzio) con 111.
Come detto, per alcuni Comuni si è prodighi di notizie storiche, per altri non vi è nemmeno un cenno. E’ del tutto casuale, per esempio, il riferimento al passaggio dei lanzichenecchi e alla peste “manzoniana” del 1630. A proposito del paesaggio e dell’economia, ovunque vi sono coltivazioni: in primo piano, gelsi, pascoli, castagneti e viti. E, a quanto pare, quelle di Bagaggera davano un vino squisito.
L’autore si sofferma più a lungo naturalmente su Lecco, ma anche su Civate e Missaglia.
Di Lecco s’è già detto, ma leggiamo ancora: nonostante non ci sia «nulla di antico, i nuovi edifici che vanno sorgendo, gli alberghi, il teatro, la basilica, lo rendono un soggiorno piacevole ed animato. Un aere puro, un cielo limpidissimo». E a temprare l genti lecchesi «avvezzate a tutte le fatiche» sarebbero stati «i molti fatti d’arme ivi avvenuti, le vicende guerresche sostenute».
Di Acquate (allora “sopra Adda”) si dice che abbia la chiesa più antica della Lombardia; di Castello che «sonvi parecchie fucine per lavorare il ferro» e nelle filande del Gattinoni e del Sala «sonvi moltissimi operai indigeni e forestieri, essi lavorano assiduamente tutta la settimana, ma la Domenica vogliono “santificarla”, come essi dicono, e parecchi nella sera si fanno trasportare poi alle loro case esilarati da copiose bibite spiritose, canti e schiamazzi». Che certo non doveva del resto essere uso esclusivo di Castello. E comunque «questo Comune, essendo il più laborioso e manifatturiero, egli è eziandio il più denaroso del circondario».
Non potevano mancare i luoghi manzoniani, la cui “invenzione” sappiamo essere stata avviata a romanzo ancora in stampa e forse fin dalla prima edizione del 1926-28. La nostra guida è titubante. A proposito della parrocchia di don Abbondio, è incerto tra Germanedo e Acquate, cavandosela comunque nella maniera più assennata: «Nulla lo contrasta e nulla lo afferma; lasciamolo nella mente del grande scrittore» Più importante, a Germanedo la nuova «grande filanda proprietà dei signori Paleari che dà molto lavoro ai numerosi e buoni terreri del luogo ed altri siti ancora: possa arridere propizia la sorte a così arrischiosi e valenti intrappprenditori».
Infine, Laorca: luogo naturalmente «rimarchevole per esservi una grotta che contiene bellissimi stalat titi e stalagmiti, presentanti vaghi fenomeni» e registrandone già il saccheggio in corso: «Di questi oggetti se ne fa un buon commercio, serventi ad abbellire i giardini con grotte artificiali».
Lasciata la conca di Lecco, ci si avvia perla strada del lago soffermandosi sul “granito persichino” di Mandello e sulla “grotta di Plinio” a Lierna E poi la Valsassina. Ed è interessante vedere come il paese di Premana, ritenuto quello che ha conservato le consuetudini valligiane altrove andate perdute, già allora si distinguesse non poco, tanto da meritare la sottolineatura dell’osservatore: «Gli abitanti di Premana si distinguono da quelli dei luoghi vicini pel loro speciale dialetto. Le donne hanno una foggia di abito loro particolarmente consistente in un largo cappello di feltro, di calze e calzoni rossi, veste rossa di mezza lana che giunge fino al ginocchio. Degli uomini un buon terzo si trasporta a Venezia a lavorare da fabbro ferrajo».
Ci impressiona anche quanto Trivero scrive di Bindo: «Gli abitanti vivono quasi sempre con timore che il monte fiancheggiante la loro terra possa qualche volta, diroccando, seppellire il paese, così come avvenne nel 1763 ai paesi di Barcone e Gera»: oltre un secolo dopo, nel 2002, una grande frana avrebbe completamente seppellito il paese, tempestivamente sgomberato ed evitando così vittime.
E poi le miniere: a Baiedo, Ballabio, Barzio; la cascata della Troggia a Introbio e le gesta dei Torriani a Primaluna. Scendendo in Brianza, Trivero parla diffusamente di Civate: e a darne lo spunto è la chiesa di San Pietro al Monte anche se, in realtà, la descrizione si fa alla fine un po’ confusa. A Valmadrera, c’è l’orrido della Val dell’Oro per «gli amanti delle prospettive pittoresche», mentre a Ello, meta per «graziose e comode villeggiature«, vi è la chiesa di San Giacomo dove «veggonsi alcuni scheletri interi rassomiglianti a mummie egiziane in un ossario, cosa pubblica non saprei se lodevole o censurabile, d’altronde molto in uso specialmente nella Lombardia lo esporre in cappelle apposite scoperte ossami d’ogni genere, teschi con suvvi berretti da prete scomposti ed a sghembo che se non facessero ribrezzo farebbero ridere».
A Galbiate, uno dei villaggi più ameni della Brianza, la descrizione si sofferma sulla mitica eco che ritorna in molti testi e di cui si favoleggia ancora oggi ma sulla quale occorrerebbe forse un serio approfondimento. Si tratta della celebre eco di Camporeso: «E’ degnissimo a udirsi in Galbiate l’eco polisillabo, il quale a chi grida d’in su la via, risponde in una casa rimpetta fino a quindici ed anche più sillabe, e ripeté più volte a chi ne fece l’esperimento questi due simpatici versi: “Che vuoi dirmi in tua favella/ pellegrina rondinella!». Niente male! Senza poi dimenticare la chiesa di San Michele «ove i lecchesi, specialmente il 29 di settembre d’ogni anno, si portano in allegra brigata a merendarvi» con annessa leggenda di re Desiderio.
Barzano doveva essere un centro ben vivo: «un negozio floridissimo di mercanzie, vero emporio di novità e ricchezze», mentre per Bulciago e Merate ci parla di «magnifiche villeggiature» e per Bosisio di «un bellissimo panorama», così come per Montevecchia.
Di Verderio ricorda la celebre battaglia tra napoleonici e austro-russi del 1799, di Lomagna che vi furono roghi di streghe e di Missaglia indica la piazza del mercato «da dove vuolsi predicasse Bernardino da Siena, fanatico francescano eccitando il popolo a scacciare gli eretici a sassate» riferendosi alla leggenda secondo cui il predicatore senese avrebbe lanciato i suoi anatemi dal pulpito del monastero della Misericordia. In realtà, il monastero sarebbe stato edificato e consacrato mezzo secolo dopo la morte di Bernardino.Infine, la Valassina per la quale, Il nostro ci ricorda come a Canzo già si producesse il Vespetrò, uno dei tanti liquori a base di erbe celebrato dalle guide turistiche ottocentesche e ricordato addirittura dal vocabolario Treccani: «voce formata artificialmente con i temi dei verbi “vesser” (fare vesce), “peter” (fare peti), “roter” (ruttare), con allusione agli effetti che questo liquore dovrebbe provocare. Di media gradazione, di colore giallo oro, fatto per macerazione e distillazione di semi di angelica, coriandoli, anaci, finocchio e buccia di limone: è una specialità di Canzo in provincia di Como, originaria della Francia». La produzione è stata interrotta nel 1991: in seguito sembra vi sia stato almeno un tentativo di riavviarla, tentativo del quale non conosciamo gli esiti.
Dario Cercek