SCAFFALE LECCHESE/172: 'Gli Sposi non promessi' di Cletto Arrighi
«Il nostro curato portava un nome di battesimo, che avrebbe potuto chiamarsi una sfacciata antitesi del suo fare spavaldo e del suo carattere poco cristiani. Egli si firmava don Mansueto Andrea; se non che i suoi parrocchiani (…) lo chiamavano don Abbondanza. (…) Delle grandi virtù cristiane (…) egli s’infischiava con grandissima disinvoltura»: la sua passione erano la caccia agli uccelletti, il vino e le belle contadine». Se la passione per il vino «andava a rischio di non poterla più nascondere ad alcuno, giacché (…) il suo naso s’andava già leggermente arrubinando in cima», a proposito delle contadine «egli teneva in serbo una certa sua argomentazione grossolana ma speciosa» ricordando come la Chiesa insegnasse «che si non caste saltem caute» che egli traduceva un po’ liberamente in «se non casto almeno cauto».
Si starebbe parlando nientemeno che del don Abbondio manzoniano. Come si evince dal seguito: «un paio d’ore prima del tramonto d’una bella giornata di agosto del 189… se ne tornava a casa sua dal paretaio (…) giunto che fu alla svoltata della viottola, che cominciava ad esser chiusa e incassata fra due muretti, levò gli occhi e vide una cosa che non si aspettava di vedere»: non i due bravi di don Rodrigo bensì il postino. Recava costui, tra le altre, la lettera di una tale Luisa: rimasta vedova a 24 anni, per ragioni ereditarie avrebbe dovuto sposare a breve il cognato Lorenzo, oste e contrabbandiere. Per quanto entrambi fossero meno che convinti del gran passo.
Aspettando di incontrare (stasera a chiusura del festival manzoniano lecchese) quel Tullio Solenghi tra gli artefici di una parodia di fine Novecento dei “Promessi sposi”, ci soffermiamo sul capostipite dei parodisti manzoniani. Appunto lo scapigliato Arrighi che nel 1895 presentò il suo “Gli sposi non Promessi. Parafrasi e contrapposti dei Promessi Sposi”.
Anche se di parodia non si dovrebbe parlare, come precisa Ermanno Paccagnini, studioso di Scapigliatura e di Manzoni: «Credo si sia nutrito un equivoco di fondo (…) equivoco non errore. Ossia: l’aver sempre letto quell’ipotesi di testo come semplice parodia dei “Promessi Sposi”. Ciò che si direbbe qualora “I Promessi Sposi” fossero stati considerati da Cletto Arrighi l’oggetto della sua narrazione anziché – come invece ritengo – lo strumento per un’operazione scrittoria avente come oggetto aspetti politici e culturali – ossia filosofici, ideologici e soprattutto religiosi – del suo tempo, tendenti a contrapporsi a quanto aveva significato l’apparizione di “Promessi Sposi” in un’età di marcato anticlericalismo, e anzi rivendicando ora quest’ultimo in un’epoca di forte rigurgito clericale». E comunque sul fronte parodistico «Arrighi può ben godere di una certa primazia rispetto alle successive più o meno note operazioni». Paccagnini parla di “ipotesi”. Perché l’esperimento non venne portato a termine. Arrighi annunciava l’uscita della “terza edizione” del romanzo manzoniano per il febbraio 1896, ma l’opera non vide mai la luce. Qualche mese prima ne pubblicò un’anteprima che valeva anche da buono sconto sul prezzo di copertina del libro (3 lire anziché 5). Quell’anteprima è l’unica traccia rimasta del progetto e pochi anni fa, nel 2018, è stata ripubblicata in un volumetto delle edizioni Otto/Novecento di Milano, curato appunto da Paccagnini che l’ha anche corredato di approfondite ed esaurienti note.
L’idea di Arrighi era quella di riscrivere il Gran Romanzo, alterandone la trama, espungendone il cattolicesimo eccessivo e con un piglio decisamente anticlericale. Egli stesso presentava le linee programmatiche in una lunga introduzione per poi offrire l’assaggio di pochi capitoli. Sufficienti per capire dove l’autore avrebbe voluto andare a parare. Già, la sola ridefinizione dei personaggi la dice lunga. Di don Abbondanza si è detto. Luisa si sarà capito essere Lucia e il cognato Lorenzo (Scannagatta per cognome) il manzoniano Tramaglino.
Da parte sua Arrighi parlava di “parafrasi”. E spiegava: «I dizionari italiani definiscono la parafrasi “interpretazione di un autore col ripete le sue idee più largamente”. Non sarebbe questo il caso davvero! Alessandro Manzoni non ha alcun bisogno di essere interpretato, né diluito, che Dio ne guardi! Sventuratamente la lingua non presenta un’altra parola che esprima appuntino quello che da noi si conta di fare sui “Promessi sposi”. Giacché dovendo il nostro libro riuscire più breve del romanzo manzoniano, esso non potrà non dirsi una “parafrasi” né tanto meno un’“imitazione”, bensì un tutto “sui generis”, per lo scopo molto serio che verremo esponendo».
E infatti: «Che lo spirito clericale si vada, oggidì, ridestando come un’imbelle protesta contro il materialismo e le pazzie anarchiche, non c’è chi nol veda». E con i restauratori della fede da una parte e i rivoluzionari a tramare nell’ombra, i liberali «per odio di ogni fastidio e di ogni fatica, si abbandonano a una beata non noncuranza e ripetono il famoso: après moi le déluge», dopo di me il diluvio. E allora «vorremmo tentare, quanto a forma, qualcosa di insolito. La fortuna del romanzo sta per tramontare; la monotonia lo uccide. Anche in Francia esso accenna a morire e, come disse Don Chisciotte, già le gambe gli treman di sotto per la stanchezza della vecchiaia». Parole curiosamente non nuove a noi lettori del XXI secolo, da tempo alle prese con l’annunciata morte del romanzo e quindi della necessità di nuove forme di narrazione. A quanto pare dunque già se ne discettava a fine Ottocento. Il progetto di Arrighi era dunque quello di ambientare una possibile storia di promessi sposi ai tempi suoi, circa due secoli e mezzo dall’ambientazione manzoniana e una cinquantina d’anni dall’uscita della seconda edizione ufficiale, la cosiddetta “quarantana”. Con la vicenda di Renzo e Lucia (in questo caso Luisa) da pretesto per raccontare la società. E comunque – aggiungeva l’Arrighi - «non serve il dirlo: “Gli Sposi non Promessi” riusciranno un nuovo omaggio al grande scrittore, quantunque l’idolatria sia stata messa da parte e la critica non tema di offendere la maestà del Nume. Non si fanno parafrasi né parodie, che delle opere insigni. Omero, Virgilio, Dante non furono soltanto parafrasati le mille volte, ma furono parodiati umoristicamente senza che ad alcuno cadesse in mente di credere, che si recasse la benché minima offesa a que’ sommi».Arrighi ci presenta poi i suoi personaggi “rivisitati”. Del resto, a Renzo Tramaglino e a Lucia Mondella, lui un po’ semplice e lei troppo modesta «non riuscirono molto interessanti», meglio dunque «un Lorenzo contrabbandiere del Bisbino» che «quando non ha bevuto è moderato, quando ha bevuto è socialista e anarchico» e appunto una Luisa, «una specie di cocotte campagnuola». E poi il don Abbondanza, «un sacerdote di quelli che hanno gabbato san Pietro e che a Milano si chiamano pret scapusc» che Paccagnini ci spiega significare “scapestrato, discolo, scapigliato” ma con il riferimento preciso a una commedia dialettale milanese di Camillo Cima (“El pret scapuscio”, appunto) rappresentata nel 1869. Un prete, don Abbondanza , cresciuto tra l’altro nel seminario diretto da quel don Carlo Cassina che i lettori lecchesi conoscono per via delle vicende del giovane Antonio Ghislanzoni.
C’è poi un fra’ Grisostomo al posto di fra’ Cristoforo per evidenziare «quanta differenza incorra fra un cappuccino del ‘600 e uno zoccolante del nostro tempo»: il frate non disdegna infatti il banchetto di don Rodrigo. Mentre la monaca di Monza «che il Manzoni ci ha presentato come immeritevole di scusa» viene trasformata in «una Suora di Carità, spiritosa convinta e medium potente» nel senso di protagonista di sedute spiritiche ma anche «santa creatura, esempio del sano socialismo in azione, uno dei trionfi più puri del secolo XIX». E avanti: identificando in don Ferrante, in donna Prassede, nel Conte Zio, nel cancelliere Ferrer, nel Vicario di Provvisione e nell’Azzeccagarbugli alcuni personaggi illustri della Milano ottocentesca.
In quanto a don Rodrigo e all’Innominato dei quali «al Manzoni piacque tenere segreto il casato di questi due malvagi (ch’egli chiamò ribaldi e scellerati) per il timore di offendere la suscettibilità dei loro discendenti» all’Arrighi invece «parve più bello di contornare di mistero gli attuali contrapposti, onde non sia turbata la loro modestia e non ci sia pericolo di buscarci la taccia di adulatori. A chi sarà capace di scoprirli diremo poi bravo», E comunque «a noi arrise l’idea di presentare a fronte di quei due personaggi del Manzoni, due dei più cari e più stimati signori della società milanese: un borghese e un patrizio. (…) Noi siamo convinti che esistono ancora in Italia moltissimi signori la cui vita di fiducia nella rettitudine propria ed altrui non esige che, per mostrarci la vendetta e la clemenza del Cielo, siano fatti uno morire di peste, l’altro convertire al cattolicesimo», Conversione «la quale è tutto quello che si può immaginare di impossibile, psicologicamente parlando». Inoltre, poi, perché mai scaraventare contro don Rodrigo gli epiteti di ribaldo o malvagio sol perché «veramente appassionato» di Lucia?
E ancora: «Chi vive un poco in mezzo a coloro che si occupano di politica, notava tempo fa un arguto giornalista, si sarà accorto che il linguaggio misurato e calmo usato dai padri nostri, ancorché fossero habitués del salotto di casa Maffei o frequentatori del caffè Cova, ha ceduto il campo a tutt’altro tono. Neanche il vocabolario non è più lo stesso di quello d’una volta. Oggidì, anche la gente ammodo, usa di termini, di immagini, di definizioni, di paragoni vibrati, recisi, assoluti, che in una discussione non ammetterebbero replica qualora si parlasse uno alla volta, perché ciascuno crede di aver ragione contro gli altri, così accade che quelle frasi incisive, assolute che si scontrano, si intralciano, si elidono da sé stesse nella ridda parolaia, finiscono a cader tutte nel vuoto e a lasciar tutti quanti nella propria opinione». Nulla dunque sembrano avere inventato i cosiddetti talk-show dei giorni nostri.
Inoltre, al ritratto manzoniano del cardinal Federigo, Arrighi vi appone quello di Andrea Ariferro vale a dire del cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, un «Torquemada in sessantaquattresimo, invasato dall’idea del salvamento delle anime, che tenta di ritornar Milano ai giorni più nefasti dell’oscurantismo e della bigotteria; di questa scimmia di san Carlo, che minaccia di essere un nuovo flagello del buon clero lombardo, come lo fu in illo tempore il Borromeo. Giacché in lui appare manifesto lo studio continuo di scimieggiare il santo antecessore in tutto ciò che di peggio ha lasciato quel famosissimo rompiscatole»
Lo scenario rimane «quel ramo del lago di Como», ma Arrighi sposta l’ambientazione sul versante comasco non precisandone con chiarezza i luoghi. Unico indizio: il postino di cui si è parlato è di Castiglione e ciò ci porterebbe in Valle d’Intelvi. Del resto, c’era bisogno di un confine e quello della storia manzoniana, la frontiera tra Milano e Venezia, ai tempi dell’Arrighi era ormai scomparso: a portata di mano c’era solo quello con la Svizzera.
Si starebbe parlando nientemeno che del don Abbondio manzoniano. Come si evince dal seguito: «un paio d’ore prima del tramonto d’una bella giornata di agosto del 189… se ne tornava a casa sua dal paretaio (…) giunto che fu alla svoltata della viottola, che cominciava ad esser chiusa e incassata fra due muretti, levò gli occhi e vide una cosa che non si aspettava di vedere»: non i due bravi di don Rodrigo bensì il postino. Recava costui, tra le altre, la lettera di una tale Luisa: rimasta vedova a 24 anni, per ragioni ereditarie avrebbe dovuto sposare a breve il cognato Lorenzo, oste e contrabbandiere. Per quanto entrambi fossero meno che convinti del gran passo.
Si sarà capito: qui si rivoltano “I promessi sposi”. L’esperimento è firmato Cletto Arrighi (anagramma di Carlo Righetti, nato nel 1828 e morto nel 1906), personaggio con un ruolo non secondario nella cultura milanese del secondo Ottocento: gli si deve il termine scapigliatura, come già ricordato in questa rubrica parlando di lui a proposito delle “Memorie di un soldato lombardo”.
Aspettando di incontrare (stasera a chiusura del festival manzoniano lecchese) quel Tullio Solenghi tra gli artefici di una parodia di fine Novecento dei “Promessi sposi”, ci soffermiamo sul capostipite dei parodisti manzoniani. Appunto lo scapigliato Arrighi che nel 1895 presentò il suo “Gli sposi non Promessi. Parafrasi e contrapposti dei Promessi Sposi”.
Anche se di parodia non si dovrebbe parlare, come precisa Ermanno Paccagnini, studioso di Scapigliatura e di Manzoni: «Credo si sia nutrito un equivoco di fondo (…) equivoco non errore. Ossia: l’aver sempre letto quell’ipotesi di testo come semplice parodia dei “Promessi Sposi”. Ciò che si direbbe qualora “I Promessi Sposi” fossero stati considerati da Cletto Arrighi l’oggetto della sua narrazione anziché – come invece ritengo – lo strumento per un’operazione scrittoria avente come oggetto aspetti politici e culturali – ossia filosofici, ideologici e soprattutto religiosi – del suo tempo, tendenti a contrapporsi a quanto aveva significato l’apparizione di “Promessi Sposi” in un’età di marcato anticlericalismo, e anzi rivendicando ora quest’ultimo in un’epoca di forte rigurgito clericale». E comunque sul fronte parodistico «Arrighi può ben godere di una certa primazia rispetto alle successive più o meno note operazioni». Paccagnini parla di “ipotesi”. Perché l’esperimento non venne portato a termine. Arrighi annunciava l’uscita della “terza edizione” del romanzo manzoniano per il febbraio 1896, ma l’opera non vide mai la luce. Qualche mese prima ne pubblicò un’anteprima che valeva anche da buono sconto sul prezzo di copertina del libro (3 lire anziché 5). Quell’anteprima è l’unica traccia rimasta del progetto e pochi anni fa, nel 2018, è stata ripubblicata in un volumetto delle edizioni Otto/Novecento di Milano, curato appunto da Paccagnini che l’ha anche corredato di approfondite ed esaurienti note.
L’idea di Arrighi era quella di riscrivere il Gran Romanzo, alterandone la trama, espungendone il cattolicesimo eccessivo e con un piglio decisamente anticlericale. Egli stesso presentava le linee programmatiche in una lunga introduzione per poi offrire l’assaggio di pochi capitoli. Sufficienti per capire dove l’autore avrebbe voluto andare a parare. Già, la sola ridefinizione dei personaggi la dice lunga. Di don Abbondanza si è detto. Luisa si sarà capito essere Lucia e il cognato Lorenzo (Scannagatta per cognome) il manzoniano Tramaglino.
Da parte sua Arrighi parlava di “parafrasi”. E spiegava: «I dizionari italiani definiscono la parafrasi “interpretazione di un autore col ripete le sue idee più largamente”. Non sarebbe questo il caso davvero! Alessandro Manzoni non ha alcun bisogno di essere interpretato, né diluito, che Dio ne guardi! Sventuratamente la lingua non presenta un’altra parola che esprima appuntino quello che da noi si conta di fare sui “Promessi sposi”. Giacché dovendo il nostro libro riuscire più breve del romanzo manzoniano, esso non potrà non dirsi una “parafrasi” né tanto meno un’“imitazione”, bensì un tutto “sui generis”, per lo scopo molto serio che verremo esponendo».
E infatti: «Che lo spirito clericale si vada, oggidì, ridestando come un’imbelle protesta contro il materialismo e le pazzie anarchiche, non c’è chi nol veda». E con i restauratori della fede da una parte e i rivoluzionari a tramare nell’ombra, i liberali «per odio di ogni fastidio e di ogni fatica, si abbandonano a una beata non noncuranza e ripetono il famoso: après moi le déluge», dopo di me il diluvio. E allora «vorremmo tentare, quanto a forma, qualcosa di insolito. La fortuna del romanzo sta per tramontare; la monotonia lo uccide. Anche in Francia esso accenna a morire e, come disse Don Chisciotte, già le gambe gli treman di sotto per la stanchezza della vecchiaia». Parole curiosamente non nuove a noi lettori del XXI secolo, da tempo alle prese con l’annunciata morte del romanzo e quindi della necessità di nuove forme di narrazione. A quanto pare dunque già se ne discettava a fine Ottocento. Il progetto di Arrighi era dunque quello di ambientare una possibile storia di promessi sposi ai tempi suoi, circa due secoli e mezzo dall’ambientazione manzoniana e una cinquantina d’anni dall’uscita della seconda edizione ufficiale, la cosiddetta “quarantana”. Con la vicenda di Renzo e Lucia (in questo caso Luisa) da pretesto per raccontare la società. E comunque – aggiungeva l’Arrighi - «non serve il dirlo: “Gli Sposi non Promessi” riusciranno un nuovo omaggio al grande scrittore, quantunque l’idolatria sia stata messa da parte e la critica non tema di offendere la maestà del Nume. Non si fanno parafrasi né parodie, che delle opere insigni. Omero, Virgilio, Dante non furono soltanto parafrasati le mille volte, ma furono parodiati umoristicamente senza che ad alcuno cadesse in mente di credere, che si recasse la benché minima offesa a que’ sommi».Arrighi ci presenta poi i suoi personaggi “rivisitati”. Del resto, a Renzo Tramaglino e a Lucia Mondella, lui un po’ semplice e lei troppo modesta «non riuscirono molto interessanti», meglio dunque «un Lorenzo contrabbandiere del Bisbino» che «quando non ha bevuto è moderato, quando ha bevuto è socialista e anarchico» e appunto una Luisa, «una specie di cocotte campagnuola». E poi il don Abbondanza, «un sacerdote di quelli che hanno gabbato san Pietro e che a Milano si chiamano pret scapusc» che Paccagnini ci spiega significare “scapestrato, discolo, scapigliato” ma con il riferimento preciso a una commedia dialettale milanese di Camillo Cima (“El pret scapuscio”, appunto) rappresentata nel 1869. Un prete, don Abbondanza , cresciuto tra l’altro nel seminario diretto da quel don Carlo Cassina che i lettori lecchesi conoscono per via delle vicende del giovane Antonio Ghislanzoni.
C’è poi un fra’ Grisostomo al posto di fra’ Cristoforo per evidenziare «quanta differenza incorra fra un cappuccino del ‘600 e uno zoccolante del nostro tempo»: il frate non disdegna infatti il banchetto di don Rodrigo. Mentre la monaca di Monza «che il Manzoni ci ha presentato come immeritevole di scusa» viene trasformata in «una Suora di Carità, spiritosa convinta e medium potente» nel senso di protagonista di sedute spiritiche ma anche «santa creatura, esempio del sano socialismo in azione, uno dei trionfi più puri del secolo XIX». E avanti: identificando in don Ferrante, in donna Prassede, nel Conte Zio, nel cancelliere Ferrer, nel Vicario di Provvisione e nell’Azzeccagarbugli alcuni personaggi illustri della Milano ottocentesca.
In quanto a don Rodrigo e all’Innominato dei quali «al Manzoni piacque tenere segreto il casato di questi due malvagi (ch’egli chiamò ribaldi e scellerati) per il timore di offendere la suscettibilità dei loro discendenti» all’Arrighi invece «parve più bello di contornare di mistero gli attuali contrapposti, onde non sia turbata la loro modestia e non ci sia pericolo di buscarci la taccia di adulatori. A chi sarà capace di scoprirli diremo poi bravo», E comunque «a noi arrise l’idea di presentare a fronte di quei due personaggi del Manzoni, due dei più cari e più stimati signori della società milanese: un borghese e un patrizio. (…) Noi siamo convinti che esistono ancora in Italia moltissimi signori la cui vita di fiducia nella rettitudine propria ed altrui non esige che, per mostrarci la vendetta e la clemenza del Cielo, siano fatti uno morire di peste, l’altro convertire al cattolicesimo», Conversione «la quale è tutto quello che si può immaginare di impossibile, psicologicamente parlando». Inoltre, poi, perché mai scaraventare contro don Rodrigo gli epiteti di ribaldo o malvagio sol perché «veramente appassionato» di Lucia?
E ancora: «Chi vive un poco in mezzo a coloro che si occupano di politica, notava tempo fa un arguto giornalista, si sarà accorto che il linguaggio misurato e calmo usato dai padri nostri, ancorché fossero habitués del salotto di casa Maffei o frequentatori del caffè Cova, ha ceduto il campo a tutt’altro tono. Neanche il vocabolario non è più lo stesso di quello d’una volta. Oggidì, anche la gente ammodo, usa di termini, di immagini, di definizioni, di paragoni vibrati, recisi, assoluti, che in una discussione non ammetterebbero replica qualora si parlasse uno alla volta, perché ciascuno crede di aver ragione contro gli altri, così accade che quelle frasi incisive, assolute che si scontrano, si intralciano, si elidono da sé stesse nella ridda parolaia, finiscono a cader tutte nel vuoto e a lasciar tutti quanti nella propria opinione». Nulla dunque sembrano avere inventato i cosiddetti talk-show dei giorni nostri.
Inoltre, al ritratto manzoniano del cardinal Federigo, Arrighi vi appone quello di Andrea Ariferro vale a dire del cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, un «Torquemada in sessantaquattresimo, invasato dall’idea del salvamento delle anime, che tenta di ritornar Milano ai giorni più nefasti dell’oscurantismo e della bigotteria; di questa scimmia di san Carlo, che minaccia di essere un nuovo flagello del buon clero lombardo, come lo fu in illo tempore il Borromeo. Giacché in lui appare manifesto lo studio continuo di scimieggiare il santo antecessore in tutto ciò che di peggio ha lasciato quel famosissimo rompiscatole»
Lo scenario rimane «quel ramo del lago di Como», ma Arrighi sposta l’ambientazione sul versante comasco non precisandone con chiarezza i luoghi. Unico indizio: il postino di cui si è parlato è di Castiglione e ciò ci porterebbe in Valle d’Intelvi. Del resto, c’era bisogno di un confine e quello della storia manzoniana, la frontiera tra Milano e Venezia, ai tempi dell’Arrighi era ormai scomparso: a portata di mano c’era solo quello con la Svizzera.
Dario Cercek