SCAFFALE LECCHESE/171: il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, il pittore milanese arrestato a Mondonico dov'era sfollato
Una recente fuggevole mostra ci ha permesso di rivedere l’arresto degli Arlecchini, quadro inquietante per il soggetto e per le circostanze che lo videro nascere: vi mise mano il pittore Aldo Carpi il giorno prima che i fascisti lo arrestassero a Mondonico, la frazione di Olgiate dov’erano sfollati da Milano diversi artisti, tra i quali il nostro Ennio Morlotti che di Carpi fu allievo.
Carpi finì in un campo di concentramento in Austria dal quale fu salvato proprio dalla sua arte. In un primo tempo inviato a Mauthausen per lavorare nella cava che fu tomba di molti deportati, anch’egli non sarebbe sopravvissuto a quelle fatiche se finendo nell’ospedale del vicino campo di Gusen, non fosse stato protetto da due medici polacchi e poi impegnato a dipingere ritratti per le SS. Riuscendo anche a scrivere una sorta di diario, sotto forma di lettere alla moglie Maria, utilizzando l’esile carta delle ricette dei medici: «Scrivevo tutto di getto e poi, sapendo che era uno scrivere clandestino infilavo i foglietti in una busta nera, che avevo fabbricato e annerito io: nera perché la riponevo nella tasca interna della giacca, e se sporgeva non si notasse». Era un rischio: «Quando iniziai a scriverti queste lettere, quasi per consuetudine, i miei camerati di patologia mi domandarono che cosa scrivevo: io spiegai loro ed essi mi lasciarono fare. Più tardi uno di essi mi domandò di nuovo: “Che cosa scrivi?” Dissi: “Non temere che faccia nomi o che descriva quasi in una cronaca le cose del campo”. Una sera un altro mi rifece la stessa domanda e aggiunse: “Non è bene, è pericoloso scrivere qui”».Risulta essere l’unico diario steso da un deportato durante la reclusione: «Se si scorre la smisurata bibliografia sui lager nazisti – ha scritto Corrado Stajano – si capisce subito che il “Diario di Gusen” è unico per i modi in cui è nato, sul luogo dell’orrore, tra i “Muselmann”, i prigionieri che hanno lasciato ormai ogni speranza, davanti alla finestra che guardava sul “Banhof” del blocco 31, la camera a gas e il crematorio».
Nel 1971, due anni prima della morte dell’autore, venne poi pubblicato da Garzanti, con un saggio introduttivo di Mario De Micheli, critico d’arte tra i maggiori che abbiamo incontrato anche da queste parti a proposito della Resistenza lecchese.
Curato da uno dei figli, il celebre illustratore Pinin, Il “Diario” affianca ad alcune delle pagine scritte a Gusen i ricordi che Aldo raccontava al figlio e che questi registrava, aggiunte utili a contestualizzare meglio taluni episodi necessariamente evanescenti. Ripubblicato più volte, il “Diario” ebbe nel 1993 una nuova edizione da parte di Einaudi con l’introduzione di Stajano ed è quella ancora in circolazione oggi.
Continua Stajano a proposito di Aldo: «Tolstoiano, testimone dell’ultima Scapigliatura, era un cristiano, un credente aperto alle idee del modernismo e all’esperienza di don Brizio Casciola, un don Milani d’epoca fondatore di una comunità di ragazzi difficili che lavoravano e studiavano. Fu quello il mondo culturale in cui crebbe Carpi, amico di don Primo Mazzolari, professore proprio di Lorenzo Milani nel corso di pittura dell’Accademia di Brera. La famiglia Carpi era ebrea. (…) La madre non era ebrea, il futuro pittore fu battezzato, educato nella religione cattolica. Sulla denuncia di quel professore, Carpi, quando fu interrogato dalla polizia fascista, vide che accanto al suo nome era segnata una J. Ma nel lager fu considerato soltanto un prigioniero politico».
Papà Carpi – è il racconto proprio di Pinin - «allora era titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Brera ed era stato denunciato per attività antifascista proprio da un “collega”, un mediocre scultore che insegnava al liceo artistico e che era anche lui sfollato a Mondonico, in una casa in cui al principio del secolo aveva avuto il suo studio il pittore Emilio Gola e che era proprio attigua a casa Riva dove abitavamo noi Carpi. Aggiungo che a Mondonico, con l’aiuto di mio padre, era sfollata altra “gente” di Brera, così due suoi prediletti allievi, Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, l’insegnante Guido Ballo e probabilmente persino lo scultore spia. Nel diario mio padre non nomina mai il suo delatore, pur sapendo con certezza chi era. Accenna a lui più di una volta chiamandolo variamente “lo scultore boia, il ridicolo vile mago” dato che si dilettava di pratica più o meno occulte” (…) A proposito dell’arresto va notato tuttavia che lo studio di mio padre era lontano dalla casa, all’altra estremità di Mondonico e dalle sue finestre si vedeva la salita che porta al paese. Quando giunsero i fascisti avrebbe potuto facilmente fuggire. (…) Ma volle tornare egualmente a casa perché pensava vi si trovassero i figli. Riteneva che, se avessero arrestato lui, avrebbe potuto evitare l’arresto dei figli. (…) In realtà, a casa Riva, per una serie di coincidenze, i quattro figli maggiori – quelli attivi nella Resistenza – in quel momento erano assenti e, avvisati dai contadini, poterono mettersi in salvo».
In quanto alla detenzione e alla deportazione, lo stesso Aldo Carpi nel “Diario” annota che l’accusa era «piuttosto confusa, in parte sciocca, in parte falsa, in parte non riguardante me. (…) L’unica accusa precisa era che io avevo aiutato un’allieva ebrea agli esami di Brera», ricorda due casse di quadri considerate casse di armi, racconta dell’aiuto dato a quattro o cinque inglesi in fuga verso la Svizzera, mentre i fascisti gli contestavano d’avere qualche intesa con anche un altro gruppo di inglesi «coinvolto in una sparatoria in un paese sopra Mondonico, Campsirago, dove c’era un parroco che era stato dentro anche lui. (…) Evidentemente tutto quello che era avvenuto intorno a Mondonico era stato attribuito a me. E mi avevano messo anche una spia in casa (,,,) una donna che veniva a fare i mestieri (…) abitava in una casa sopra di noi e diceva di nascondere sei partigiani veri, che invece erano tutti informatori della polizia».
Nel 1973, il Comune di Olgiate Molgora ha posto una lapide sulla casa di Mondonico che ospitava la famiglia Carpi. Di fronte al portone, un pannello riproduce un dipinto realizzato nel 1951 dallo stesso Aldo Carpi: “L’arresto dell’artista”.
Come detto, Carpi finì nel campo di concentramento di Mauthausen dove i deportati erano utilizzati come schiavi in una cava di pietre. Vi restò un mese e venne appunto trasferito a Gusen dove per le sue doti artistiche le SS gli risparmiarono persecuzioni eccessive in cambio dei suoi dipinti. In appendice al “Diario” c’è l’elenco delle opere realizzate in periodo; sono 74, «tutti dipinti a tempera o ad olio perché i tedeschi non accettavano altro».
Si legge nel Diario: «Devo dipingere cose che a “loro” interessino – perché è necessario che interessino a “loro” – altrimenti quel po’ di comodo che mi sono conquistato è perduto, e per me vorrebbe dire la morte. (…) Invento paesi, scene, marine e faccio ritratti da fotografie. Ho fatto pure qualche ritratto dal vero, ma ho sempre l’impressione di non essere pittore, di non esserlo più, di essere già tanto invecchiato e appesantito, d’aver bisogno di un ricovero. (…) Mi sento l’animo vuoto, Maria, sono stanco e disorientato. Il lavoro che faccio non è il mio lavoro vero: e tuttavia è cosa principesca rispetto al lavoro d’altri».
In realtà, il diario va ben oltre un semplice resoconto delle giornate, peraltro considerato che molte cose non potevano essere scritte, ma si allarga a considerazioni e riflessioni profonde, sulla politica e sulla religione, sulla vita degli uomini, sull’attualità di un’Europa devastata dalla guerra: «I popoli che dovrebbero vivere uniti, perché non possono vivere l’uno senza l’opera dell’altro, se diventano nazionalisti a oltranza si allontanano l’uno dall’altro per precipitare inevitabilmente nel baratro della guerra».
«A volte – rileva De Micheli - nelle parole di Carpi, vi è una profondità che sgomenta; vi è un intuito abbagliante, Talvolta si ha l’impressione che vi sia di più il senso dell’avvenire, una sorta di prefigurazione del destino futuro dell’uomo che non la saggezza del passato. (…) Alle volte sembra che egli divaghi, che si abbandoni a una immaginazione senza sponde, che si perda in particolari periferici, ma in realtà parla sempre della “sostanza” delle cose, rivela sempre direttamente o indirettamente i termini drammatici di una “condizione” umana ridotta al suo grado più basso».
«Io sono – scriveva Carpi il 19 febbraio 1945 - colui che attende, seduto sull’orlo della vita, che l’uragano cessi per riprendere il cammino e fare ciò che il destino vorrà»
E il 27 febbraio: «Vorrei talora scriverti per narrarti qualcosa di vissuto qui, ma non è possibile, non è bene scriverne. Certi fatti poi è meglio ricordarli dopo, quando li puoi giudicare con maggior calma e ragione. (…) Dovrei scriverti delle cose semplici, narrarti con chiarezza e immediato sentimento le cose di qui, parlarti delle persone (…) ma mi son reso conto che non è possibile, che il narrare i fatti può essere interpretato assai malamente e il parlare delle persone può costituire un pericolo per loro stesse: cose che non si desiderano. E poi tanti fatti pur veri, pur interessanti, assomigliano a tanti altri fatti avvenuti e narrati in altri tempi. Sempre le stesse cose, lo stesso spirito umano, inguaribile dal male, oggi tanto più raffinato dai mezzi moderni scoperti anch’essi dall’uomo».
E a volte il ricordo va ai giorni di Mondonico, soprattutto quando splende il sole e il cielo è azzurro: «E’ una goia, mi avvicina all’Italia, al balcone di Mondonico, alla sala da pranzo e alla nostra bella compagnia. (…) Ho pensato e sentito molto l’intimità di Mondonico, di casa Riva. (…) Bella è la corte chiusa e l’orto con tutta quell’uva: tu seduta nell’orto a lavorare» e i figli sparsi per la casa, «Io sono al mio studio, nel silenzio verde della Brianza: hai veduto il mio ultimo lavoro, “L’arresto degli Arlecchini”? Mi sembrano belli di colore gli arlecchini rosso e argento. L’ho fatto il venerdì precedente il triste ridicolo fatto». Spiegherà poi al figlio Pinin: «L’ultimo lavoro che prima che mi prendessero è stato “L’arresto degli Arlecchini”. Pochi giorni prima però ne avevo fatto un altro intitolato “Metti il vestito rosa” Rappresenta in certo modo Mondonico perché il paesaggio – chiesetta, colle, piazza – ha qualcosa di Mondonico. Arriva una maschera tutta vestita di nero con il suo fagotto che mette lì in terra. Le donne gli vengono incontro e gli dicono: “Metti il vestito rosa”. Questo voleva dire quello poi è stata la realtà, ossia che mi avrebbero arrestato, mi avrebbero messo il vestito nero, ma che poi sarei tornato vivo». E a proposito degli Arlecchini «c’è anche qui il sentimento del prossimo arresto, perché mi avevano avvertito che ero stato denunciato. Evidentemente i sei arlecchini sono i sei figli, che io desideravo che fuggissero tutti. Però c’è anche un settimo arlecchino che non si vede. Avendo fatto il quadro io, il settimo è l’autore, quello che vede la scena dei figli. Pensavo che si sarebbero salvati tutti, e invece il Paolino se n’è andato».
Il Diario registra anche le notizie che arrivano al campo e registra anche l’atmosfera del mese di aprile, quando si cominciavano ad avvertire i primi segnali dell’imminente sconfitta: «L’impressione è questa: dal chiuso dove sono passerò per una porta aperta e vedrò e godrò la primavera. Non si osa pensare al momento in cui ritorneremo uomini», ma nel contempo cresceva il terrore che le SS volessero eliminare tutti. La liberazione del campo avvenne il 5 maggio, ma passarono molte settimane prima che Carpi potesse riprendere la strada di casa. E in quelle settimane, la scrittura si distese, le pagine conciarono ad affollarsi di personaggi che finalmente possono avere un nome e un cognome.
Per esempio, citando qualcuno che conosciamo: «A Brera ho anche veri amici. (…) Un allievo di Lecco, Ennio Morlotti, giovane pieno di fede e di ardore, uno degli allievi coi quali ho più lavorato date le sue qualità mi è moralmente fedele». Morlotti era Milano e partecipava a quel movimento che chiedeva che Aldo Carpi fosse nominato direttore dell’Accademia di Brera.
Oppure: «Penso spessissimo all’amico Giulio Fiocchi, forse era ad Auschwitz, terribile campo. Debole com’era. Avrà potuto sopravvivere? I tedeschi non guardavano in faccia a nessuno, ognuno era degno del crematorio dopo aver lavorato alla cava. Forse Fiocchi, conoscendo tante lingue, può avere avuto una chance, Caro simpatico amico». In realtà, Fiocchi era detenuto in Bassa Baviera e riuscì a tornare in Italia il 3 giugno.
Da parte sua, Carpi, passando prima per Regensburg, arrivò a Milano il 24 luglio 1945. «Appena arrivato ho contato i figli: 1, 2, 3, 4, 5, uno mancava. Non mi è mai venuto in mente di continuare il diario, non ho scritto più». Però ha disegnato ciò che gli occhi videro nel lager. Quelle immagini accompagnano il diario.
Carpi finì in un campo di concentramento in Austria dal quale fu salvato proprio dalla sua arte. In un primo tempo inviato a Mauthausen per lavorare nella cava che fu tomba di molti deportati, anch’egli non sarebbe sopravvissuto a quelle fatiche se finendo nell’ospedale del vicino campo di Gusen, non fosse stato protetto da due medici polacchi e poi impegnato a dipingere ritratti per le SS. Riuscendo anche a scrivere una sorta di diario, sotto forma di lettere alla moglie Maria, utilizzando l’esile carta delle ricette dei medici: «Scrivevo tutto di getto e poi, sapendo che era uno scrivere clandestino infilavo i foglietti in una busta nera, che avevo fabbricato e annerito io: nera perché la riponevo nella tasca interna della giacca, e se sporgeva non si notasse». Era un rischio: «Quando iniziai a scriverti queste lettere, quasi per consuetudine, i miei camerati di patologia mi domandarono che cosa scrivevo: io spiegai loro ed essi mi lasciarono fare. Più tardi uno di essi mi domandò di nuovo: “Che cosa scrivi?” Dissi: “Non temere che faccia nomi o che descriva quasi in una cronaca le cose del campo”. Una sera un altro mi rifece la stessa domanda e aggiunse: “Non è bene, è pericoloso scrivere qui”».Risulta essere l’unico diario steso da un deportato durante la reclusione: «Se si scorre la smisurata bibliografia sui lager nazisti – ha scritto Corrado Stajano – si capisce subito che il “Diario di Gusen” è unico per i modi in cui è nato, sul luogo dell’orrore, tra i “Muselmann”, i prigionieri che hanno lasciato ormai ogni speranza, davanti alla finestra che guardava sul “Banhof” del blocco 31, la camera a gas e il crematorio».
Nel 1971, due anni prima della morte dell’autore, venne poi pubblicato da Garzanti, con un saggio introduttivo di Mario De Micheli, critico d’arte tra i maggiori che abbiamo incontrato anche da queste parti a proposito della Resistenza lecchese.
Curato da uno dei figli, il celebre illustratore Pinin, Il “Diario” affianca ad alcune delle pagine scritte a Gusen i ricordi che Aldo raccontava al figlio e che questi registrava, aggiunte utili a contestualizzare meglio taluni episodi necessariamente evanescenti. Ripubblicato più volte, il “Diario” ebbe nel 1993 una nuova edizione da parte di Einaudi con l’introduzione di Stajano ed è quella ancora in circolazione oggi.
Stajano ci offre la “fotografia” di Aldo Carpi: «Ha 57 anni quando indossa la casacca a strisce bianche e blu, con il triangolo rosso del deportato politico. Il suo numero di matricola è il 53.376. E’ stato arrestato il 23 gennaio 1944 a Mondonico, un paese della Brianza, per la spiata di uno scultore, professore al liceo artistico di Brera, che lo accusa di attività antifasciste nelle quali è impegnata tutta la famiglia. Aldo Carpi è un pittore famoso e amato e proprio quel giorno sta dipingendo, un segno del destino, quel suo profetico inconscio. Gli arlecchini sono sei, come i suoi figli», quattro dei quali impegnati nella Resistenza. Due di loro, Cioni e Fiorenzo, nei mesi seguenti avrebbero trovato rifugio in Svizzera, mentre Paolo di 17 anni sarebbe stato arrestato a Milano il 31 luglio 1944, deportato e ucciso nel lager di Gross-Rosen «un crudo insanabile dolore, quando Carpi seppe. Aveva visto cos’era la morte nel lager». Nel febbraio 1945, sarebbe stato arrestato anche Pinin, poi scarcerato.
Continua Stajano a proposito di Aldo: «Tolstoiano, testimone dell’ultima Scapigliatura, era un cristiano, un credente aperto alle idee del modernismo e all’esperienza di don Brizio Casciola, un don Milani d’epoca fondatore di una comunità di ragazzi difficili che lavoravano e studiavano. Fu quello il mondo culturale in cui crebbe Carpi, amico di don Primo Mazzolari, professore proprio di Lorenzo Milani nel corso di pittura dell’Accademia di Brera. La famiglia Carpi era ebrea. (…) La madre non era ebrea, il futuro pittore fu battezzato, educato nella religione cattolica. Sulla denuncia di quel professore, Carpi, quando fu interrogato dalla polizia fascista, vide che accanto al suo nome era segnata una J. Ma nel lager fu considerato soltanto un prigioniero politico».
Papà Carpi – è il racconto proprio di Pinin - «allora era titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Brera ed era stato denunciato per attività antifascista proprio da un “collega”, un mediocre scultore che insegnava al liceo artistico e che era anche lui sfollato a Mondonico, in una casa in cui al principio del secolo aveva avuto il suo studio il pittore Emilio Gola e che era proprio attigua a casa Riva dove abitavamo noi Carpi. Aggiungo che a Mondonico, con l’aiuto di mio padre, era sfollata altra “gente” di Brera, così due suoi prediletti allievi, Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, l’insegnante Guido Ballo e probabilmente persino lo scultore spia. Nel diario mio padre non nomina mai il suo delatore, pur sapendo con certezza chi era. Accenna a lui più di una volta chiamandolo variamente “lo scultore boia, il ridicolo vile mago” dato che si dilettava di pratica più o meno occulte” (…) A proposito dell’arresto va notato tuttavia che lo studio di mio padre era lontano dalla casa, all’altra estremità di Mondonico e dalle sue finestre si vedeva la salita che porta al paese. Quando giunsero i fascisti avrebbe potuto facilmente fuggire. (…) Ma volle tornare egualmente a casa perché pensava vi si trovassero i figli. Riteneva che, se avessero arrestato lui, avrebbe potuto evitare l’arresto dei figli. (…) In realtà, a casa Riva, per una serie di coincidenze, i quattro figli maggiori – quelli attivi nella Resistenza – in quel momento erano assenti e, avvisati dai contadini, poterono mettersi in salvo».
In quanto alla detenzione e alla deportazione, lo stesso Aldo Carpi nel “Diario” annota che l’accusa era «piuttosto confusa, in parte sciocca, in parte falsa, in parte non riguardante me. (…) L’unica accusa precisa era che io avevo aiutato un’allieva ebrea agli esami di Brera», ricorda due casse di quadri considerate casse di armi, racconta dell’aiuto dato a quattro o cinque inglesi in fuga verso la Svizzera, mentre i fascisti gli contestavano d’avere qualche intesa con anche un altro gruppo di inglesi «coinvolto in una sparatoria in un paese sopra Mondonico, Campsirago, dove c’era un parroco che era stato dentro anche lui. (…) Evidentemente tutto quello che era avvenuto intorno a Mondonico era stato attribuito a me. E mi avevano messo anche una spia in casa (,,,) una donna che veniva a fare i mestieri (…) abitava in una casa sopra di noi e diceva di nascondere sei partigiani veri, che invece erano tutti informatori della polizia».
Nel 1973, il Comune di Olgiate Molgora ha posto una lapide sulla casa di Mondonico che ospitava la famiglia Carpi. Di fronte al portone, un pannello riproduce un dipinto realizzato nel 1951 dallo stesso Aldo Carpi: “L’arresto dell’artista”.
Come detto, Carpi finì nel campo di concentramento di Mauthausen dove i deportati erano utilizzati come schiavi in una cava di pietre. Vi restò un mese e venne appunto trasferito a Gusen dove per le sue doti artistiche le SS gli risparmiarono persecuzioni eccessive in cambio dei suoi dipinti. In appendice al “Diario” c’è l’elenco delle opere realizzate in periodo; sono 74, «tutti dipinti a tempera o ad olio perché i tedeschi non accettavano altro».
Si legge nel Diario: «Devo dipingere cose che a “loro” interessino – perché è necessario che interessino a “loro” – altrimenti quel po’ di comodo che mi sono conquistato è perduto, e per me vorrebbe dire la morte. (…) Invento paesi, scene, marine e faccio ritratti da fotografie. Ho fatto pure qualche ritratto dal vero, ma ho sempre l’impressione di non essere pittore, di non esserlo più, di essere già tanto invecchiato e appesantito, d’aver bisogno di un ricovero. (…) Mi sento l’animo vuoto, Maria, sono stanco e disorientato. Il lavoro che faccio non è il mio lavoro vero: e tuttavia è cosa principesca rispetto al lavoro d’altri».
In realtà, il diario va ben oltre un semplice resoconto delle giornate, peraltro considerato che molte cose non potevano essere scritte, ma si allarga a considerazioni e riflessioni profonde, sulla politica e sulla religione, sulla vita degli uomini, sull’attualità di un’Europa devastata dalla guerra: «I popoli che dovrebbero vivere uniti, perché non possono vivere l’uno senza l’opera dell’altro, se diventano nazionalisti a oltranza si allontanano l’uno dall’altro per precipitare inevitabilmente nel baratro della guerra».
«A volte – rileva De Micheli - nelle parole di Carpi, vi è una profondità che sgomenta; vi è un intuito abbagliante, Talvolta si ha l’impressione che vi sia di più il senso dell’avvenire, una sorta di prefigurazione del destino futuro dell’uomo che non la saggezza del passato. (…) Alle volte sembra che egli divaghi, che si abbandoni a una immaginazione senza sponde, che si perda in particolari periferici, ma in realtà parla sempre della “sostanza” delle cose, rivela sempre direttamente o indirettamente i termini drammatici di una “condizione” umana ridotta al suo grado più basso».
«Io sono – scriveva Carpi il 19 febbraio 1945 - colui che attende, seduto sull’orlo della vita, che l’uragano cessi per riprendere il cammino e fare ciò che il destino vorrà»
E il 27 febbraio: «Vorrei talora scriverti per narrarti qualcosa di vissuto qui, ma non è possibile, non è bene scriverne. Certi fatti poi è meglio ricordarli dopo, quando li puoi giudicare con maggior calma e ragione. (…) Dovrei scriverti delle cose semplici, narrarti con chiarezza e immediato sentimento le cose di qui, parlarti delle persone (…) ma mi son reso conto che non è possibile, che il narrare i fatti può essere interpretato assai malamente e il parlare delle persone può costituire un pericolo per loro stesse: cose che non si desiderano. E poi tanti fatti pur veri, pur interessanti, assomigliano a tanti altri fatti avvenuti e narrati in altri tempi. Sempre le stesse cose, lo stesso spirito umano, inguaribile dal male, oggi tanto più raffinato dai mezzi moderni scoperti anch’essi dall’uomo».
E a volte il ricordo va ai giorni di Mondonico, soprattutto quando splende il sole e il cielo è azzurro: «E’ una goia, mi avvicina all’Italia, al balcone di Mondonico, alla sala da pranzo e alla nostra bella compagnia. (…) Ho pensato e sentito molto l’intimità di Mondonico, di casa Riva. (…) Bella è la corte chiusa e l’orto con tutta quell’uva: tu seduta nell’orto a lavorare» e i figli sparsi per la casa, «Io sono al mio studio, nel silenzio verde della Brianza: hai veduto il mio ultimo lavoro, “L’arresto degli Arlecchini”? Mi sembrano belli di colore gli arlecchini rosso e argento. L’ho fatto il venerdì precedente il triste ridicolo fatto». Spiegherà poi al figlio Pinin: «L’ultimo lavoro che prima che mi prendessero è stato “L’arresto degli Arlecchini”. Pochi giorni prima però ne avevo fatto un altro intitolato “Metti il vestito rosa” Rappresenta in certo modo Mondonico perché il paesaggio – chiesetta, colle, piazza – ha qualcosa di Mondonico. Arriva una maschera tutta vestita di nero con il suo fagotto che mette lì in terra. Le donne gli vengono incontro e gli dicono: “Metti il vestito rosa”. Questo voleva dire quello poi è stata la realtà, ossia che mi avrebbero arrestato, mi avrebbero messo il vestito nero, ma che poi sarei tornato vivo». E a proposito degli Arlecchini «c’è anche qui il sentimento del prossimo arresto, perché mi avevano avvertito che ero stato denunciato. Evidentemente i sei arlecchini sono i sei figli, che io desideravo che fuggissero tutti. Però c’è anche un settimo arlecchino che non si vede. Avendo fatto il quadro io, il settimo è l’autore, quello che vede la scena dei figli. Pensavo che si sarebbero salvati tutti, e invece il Paolino se n’è andato».
Il Diario registra anche le notizie che arrivano al campo e registra anche l’atmosfera del mese di aprile, quando si cominciavano ad avvertire i primi segnali dell’imminente sconfitta: «L’impressione è questa: dal chiuso dove sono passerò per una porta aperta e vedrò e godrò la primavera. Non si osa pensare al momento in cui ritorneremo uomini», ma nel contempo cresceva il terrore che le SS volessero eliminare tutti. La liberazione del campo avvenne il 5 maggio, ma passarono molte settimane prima che Carpi potesse riprendere la strada di casa. E in quelle settimane, la scrittura si distese, le pagine conciarono ad affollarsi di personaggi che finalmente possono avere un nome e un cognome.
Per esempio, citando qualcuno che conosciamo: «A Brera ho anche veri amici. (…) Un allievo di Lecco, Ennio Morlotti, giovane pieno di fede e di ardore, uno degli allievi coi quali ho più lavorato date le sue qualità mi è moralmente fedele». Morlotti era Milano e partecipava a quel movimento che chiedeva che Aldo Carpi fosse nominato direttore dell’Accademia di Brera.
Oppure: «Penso spessissimo all’amico Giulio Fiocchi, forse era ad Auschwitz, terribile campo. Debole com’era. Avrà potuto sopravvivere? I tedeschi non guardavano in faccia a nessuno, ognuno era degno del crematorio dopo aver lavorato alla cava. Forse Fiocchi, conoscendo tante lingue, può avere avuto una chance, Caro simpatico amico». In realtà, Fiocchi era detenuto in Bassa Baviera e riuscì a tornare in Italia il 3 giugno.
Da parte sua, Carpi, passando prima per Regensburg, arrivò a Milano il 24 luglio 1945. «Appena arrivato ho contato i figli: 1, 2, 3, 4, 5, uno mancava. Non mi è mai venuto in mente di continuare il diario, non ho scritto più». Però ha disegnato ciò che gli occhi videro nel lager. Quelle immagini accompagnano il diario.
Dario Cercek