PAROLE CHE PARLANO/203
Rancore
Questa parola affonda le sue radici in un terreno antico e inaspettato, quello della deteriorazione e della marcescenza. Deriva infatti dal termine latino rancor, che significava propriamente "rancidezza"; pertanto rimanda all’idea di qualcosa che, col tempo, si guasta. Il verbo rancère, da cui prende forma, indicava infatti l'atto dell'essere rancido, un sapore o un odore che si trasforma in qualcosa di spiacevole e persistente.
Nella nostra quotidianità, il rancore è proprio questo: un sentimento che, inizialmente lieve, si insinua e si deteriora, mutando in un'emozione amara e corrosiva. Come il cibo lasciato troppo a lungo a marcire, anche il rancore si radica e si accumula, nutrendosi di ferite non rimarginate e di parole non dette. Non è un'emozione esplosiva o immediata, come la rabbia; al contrario, cresce in silenzio, si sedimenta nel tempo, proprio come un qualcosa che va a male senza che ce ne accorgiamo subito.
Curiosamente, il termine latino non aveva un'accezione così emotiva. Solo col passare dei secoli, la sua sfumatura fisica di deterioramento è stata trasferita al piano affettivo e psicologico, a rappresentare quel malessere che, se lasciato indisturbato, può avvelenare relazioni e pensieri. In fondo, il rancore ci invita a riflettere su quanto possa essere difficile, ma necessario, evitare che i piccoli torti si trasformino in pesanti fardelli, incapaci di decomporsi da soli.
Come scriveva il monaco Agatone d’Egitto nel IV secolo: Non mi sono mai addormentato avendo rancore contro qualcuno; e, per quanto mi era possibile, non ho permesso che qualcuno si addormentasse avendo del rancore contro di me.