Non fossi stato Figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio
La strada centrale di Caspoggio, il paese di montagna che mi ha un po’ adottato come scrittore e come amico ha due facce: dal basso fino alla piazza della chiesa è solitamente chiassosa, affollata perlopiù da falangi di turisti, proprietari o affittuari di doppie case, che sciamano chiamandosi “Carissimo!”, vestiti come solo un turista si veste: né da montagna né da città, ma mettendo uno sopra l’altro capi di abbigliamento di marchi costosi e di colori improbabili che non usa sui sentieri (se si tira un filo della giacca partono centinaia di euro), li usa per lo struscio. Di solito la attraverso di corsa, di ritorno da qualche mia ravanata nei boschi e sulle creste, guardato a vista come un cireneo, o un pezzente. Ha le sue stazioni: il bar, il negozio di formaggi (buonissimi!), il piccolo supermarket, la macelleria, l’outlet di articoli sportivi. La gente la trovi tutta lì. Troppa, purtroppo.

E poi, subito dopo la chiesa, la strada larga, lastricata in porfido, rumorosa come un bazar, si restringe di colpo, si fa angusta, inghiotte i rumori e persino la luce, chiusa com’è tra case di pietra e di legno che hanno centinaia di anni. Quando il paese è calmo, si sente il gorgoglio della fontanella nascosta pochi passi più avanti, e il profumo delle stufe a legna.
In questi giorni di Pasqua bassa del 2025 il paese è così fortunatamente e stranamente vuoto. I turisti devono essersi fatti spaventare dalle previsioni di maltempo, e sono rimasti a casa. La loro, quella vera.
Là dove la strada si fa d’un tratto piccola, sulla parete di sinistra, si affaccia un affresco. È una “Deposizione”, come tante ne abbiamo in mente. Non è il Caravaggio, non è Raffaello, non è il Beato Angelico né Rubens. È di autore ignoto, come lo sono le innumerevoli santelle devozionali che si trovano nei nostri paesi di montagna. È una “Pietà” senza essere Michelangelo. Paga anzi dazio a tutti gli stilemi più convenzionali della pietà popolare: la Madonna dei sette dolori col cuore trafitto dalle spade (la “madonnina infilzata” cui faceva riferimento il manzoniano don Abbondio), i putti angelici che si affacciano dai nembi, la corona di spine e le tenaglie della tortura deposte ai piedi, la croce perfettamente ortogonale (il Golgota non era affatto così), il consueto braccio destro di Gesù inerte e penzoloni.
Ma oggi a Caspoggio non c’è in giro nessuno. E passando di lì, ho potuto fermarmi per un po’, senza dovermi scostare per qualche passante scortese, senza vergogna per qualche occhiata curiosa di chi si chiedesse cosa ci fosse da ammirare lì dove le vetrine sono finite.
È la stazione della mia personale via crucis. Guardo una donna che già sapeva: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” le aveva detto il vecchio Simeone quando aveva presentato al Tempio quel figlio che ora sta tenendo in braccio uomo, e morto.
Guardo un uomo che già sapeva: “Padre, se possibile passi da me questo calice”, aveva pregato, e poi obbedito: “Sia fatta non la mia ma la tua volontà”.

Guardo una madre e un figlio uniti dalla stessa passione, penso al rammarico di questa donna, inespresso forse, ma verosimile, per un figlio che ha speso così la sua vita, apparentemente buttata via. Mi riecheggia uno “Stabat Mater” popolare tanto quanto questo affresco. Non di poeta, di cantautore. Risento De André,
“Con troppe lacrime piangi Maria / solo l'immagine d'un'agonia. / Sai che alla vita nel terzo giorno / il figlio tuo farà ritorno. / Lascia noi piangere un po' più forte / Chi non risorgerà più dalla morte. / Piango di lui ciò che mi è tolto / le braccia magre la fronte il volto, / ogni sua vita che vive ancora / che vedo spegnersi ora per ora. / Figlio nel sangue figlio nel cuore / e chi ti chiama "Nostro Signore". / Nella fatica del tuo sorriso / cerca un ritaglio di Paradiso. / Per me sei figlio vita morente / ti portò cieco questo mio ventre, / come nel grembo e adesso in croce / ti chiama amore questa mia voce. / Non fossi stato figlio di Dio / t'avrei ancora per figlio mio".
Sono le cinque: la strada incomincia a formicolare di chi sale per il “ponte lungo” di Pasqua. Questa notte in quota ha nevicato. Domani il tempo dovrebbe migliorare: una “resurrezione” diranno i turisti spendaccioni. E io invece amo le nuvole di questo Venerdì santo.

E poi, subito dopo la chiesa, la strada larga, lastricata in porfido, rumorosa come un bazar, si restringe di colpo, si fa angusta, inghiotte i rumori e persino la luce, chiusa com’è tra case di pietra e di legno che hanno centinaia di anni. Quando il paese è calmo, si sente il gorgoglio della fontanella nascosta pochi passi più avanti, e il profumo delle stufe a legna.
In questi giorni di Pasqua bassa del 2025 il paese è così fortunatamente e stranamente vuoto. I turisti devono essersi fatti spaventare dalle previsioni di maltempo, e sono rimasti a casa. La loro, quella vera.
Là dove la strada si fa d’un tratto piccola, sulla parete di sinistra, si affaccia un affresco. È una “Deposizione”, come tante ne abbiamo in mente. Non è il Caravaggio, non è Raffaello, non è il Beato Angelico né Rubens. È di autore ignoto, come lo sono le innumerevoli santelle devozionali che si trovano nei nostri paesi di montagna. È una “Pietà” senza essere Michelangelo. Paga anzi dazio a tutti gli stilemi più convenzionali della pietà popolare: la Madonna dei sette dolori col cuore trafitto dalle spade (la “madonnina infilzata” cui faceva riferimento il manzoniano don Abbondio), i putti angelici che si affacciano dai nembi, la corona di spine e le tenaglie della tortura deposte ai piedi, la croce perfettamente ortogonale (il Golgota non era affatto così), il consueto braccio destro di Gesù inerte e penzoloni.
Ma oggi a Caspoggio non c’è in giro nessuno. E passando di lì, ho potuto fermarmi per un po’, senza dovermi scostare per qualche passante scortese, senza vergogna per qualche occhiata curiosa di chi si chiedesse cosa ci fosse da ammirare lì dove le vetrine sono finite.
È la stazione della mia personale via crucis. Guardo una donna che già sapeva: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” le aveva detto il vecchio Simeone quando aveva presentato al Tempio quel figlio che ora sta tenendo in braccio uomo, e morto.
Guardo un uomo che già sapeva: “Padre, se possibile passi da me questo calice”, aveva pregato, e poi obbedito: “Sia fatta non la mia ma la tua volontà”.

Guardo una madre e un figlio uniti dalla stessa passione, penso al rammarico di questa donna, inespresso forse, ma verosimile, per un figlio che ha speso così la sua vita, apparentemente buttata via. Mi riecheggia uno “Stabat Mater” popolare tanto quanto questo affresco. Non di poeta, di cantautore. Risento De André,
“Con troppe lacrime piangi Maria / solo l'immagine d'un'agonia. / Sai che alla vita nel terzo giorno / il figlio tuo farà ritorno. / Lascia noi piangere un po' più forte / Chi non risorgerà più dalla morte. / Piango di lui ciò che mi è tolto / le braccia magre la fronte il volto, / ogni sua vita che vive ancora / che vedo spegnersi ora per ora. / Figlio nel sangue figlio nel cuore / e chi ti chiama "Nostro Signore". / Nella fatica del tuo sorriso / cerca un ritaglio di Paradiso. / Per me sei figlio vita morente / ti portò cieco questo mio ventre, / come nel grembo e adesso in croce / ti chiama amore questa mia voce. / Non fossi stato figlio di Dio / t'avrei ancora per figlio mio".
Sono le cinque: la strada incomincia a formicolare di chi sale per il “ponte lungo” di Pasqua. Questa notte in quota ha nevicato. Domani il tempo dovrebbe migliorare: una “resurrezione” diranno i turisti spendaccioni. E io invece amo le nuvole di questo Venerdì santo.
Stefano Motta